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Con lo sguardo di un adolescente: riflessioni sull’incontro terapeutico in chiave costruttivista

From an adolescent’s point of view: reflections on the therapeutic encounter in constructivist terms

di

Francesca Tramacere

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

La riflessione presentata in questo lavoro parte dalla domanda: cosa accade quando un adolescente incontra il costruttivismo attraverso il proprio psicoterapeuta?

 

Si è deciso di approcciare l’adolescenza inizialmente come una categoria i cui criteri di inclusione sono spesso condivisi dai ragazzi e dagli adulti.

 

Lo sguardo costruttivista ha permesso poi di inquadrare gli adolescenti come attori in un dominio di esperienza del quale gli adulti sono parte. Ne è emerso un dilemma: come può un adolescente, con il quale l’adulto svolge un ruolo educativo, scegliere liberamente per sé?

 

Il concetto di persona autoinventata e autoinventiva di Bannister & Fransella (1981) ha sovraordinato il dilemma emerso. Ispirandosi alle linee guida educative che Ernst von Glasersfeld (1989) propone, si sono declinate delle proposte operative per la psicoterapia con gli adolescenti, intesa quindi come luogo per apprendere e fare nuove esperienze.

The reflections presented in this paper originate from the question: what happens when an adolescent encounters constructivism by way of their psychotherapist?

 

The author decided to approach adolescence initially as a category whose criteria of inclusion are often shared by adolescents and adults.

 

The constructivist view then allowed for a framing of adolescents as actors in a domain of experience of which adults are part. What came to light was a dilemma: how can an adolescent, with whom the adult plays an educational role, choose freely for themselves?

 

Bannister & Fransella’s (1981) concept of the self invented and shaped person superordinated this dilemma. Drawing inspiration from the educational guidelines Ernst von Glasersfeld (1989) offers, the author has outlined some working suggestions for psychotherapy with adolescents, thus understood as a place to learn and have new experiences.

Keywords:
dolescenza, categoria, adulti, costruttivismo, psicoterapia | adolescence, category, adult, constructivism, psychotherapy
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La vita di una persona è caratterizzata da momenti in cui l’evoluzione e il cambiamento risultano particolarmente evidenti. L’adolescenza potrebbe essere descritta come uno di questi. Tali cambiamenti inevitabilmente influiscono anche sulle relazioni che si instaurano. Ancor di più quand’esse abbiano un fine terapeutico.

La domanda sovraordinata di questo lavoro è dunque: cosa accade quando un adolescente incontra il costruttivismo attraverso il proprio psicoterapeuta?

Dalle riflessioni di questo lavoro si presenterà una sintesi operativa che permetta di focalizzare alcuni aspetti dell’approccio costruttivista nella terapia con persone di età adolescenziale.

 

1. Cosa s’intende per adolescenza

Si ritiene utile cominciare facendo una breve sintesi di cosa s’intenda per adolescenza in ambito psicologico.

La categoria “adolescenza” rimanda ad un immediato riferimento ad un periodo evolutivo che approssimativamente si colloca tra i 12 e i 22 anni.

Arnett (2000) propone di considerare l’adolescenza come compresa tra i 10 e i 18 anni, pur risultando difficile stabilire con precisione il limite di età. Bisognerebbe infatti stabilire con chiarezza a quando corrisponda l’inizio del periodo adulto (Palmonari & Crocetti, 1993/2011), tenendo in considerazione il contesto sociale di tipo occidentale.

Sfogliando un dizionario psicologico facilmente s’incorre nella definizione generale di adolescenza come di una “fase cronologica compresa tra la pubertà e la maturità”, identificata anche come una “modalità ricorsiva della psiche” che richiama in associazione “incertezza, ansia, incertezza per il futuro, irruzione di istanze pulsionali, bisogno di rassicurazione e di libertà” (Galimberti, 1992, p. 10).

Un compito evolutivo di primaria importanza nella descrizione di questa fase evolutiva consiste nella “ristrutturazione del concetto di sé” (Palmonari & Crocetti, 1993/2011, p. 67), un processo che permette all’adolescente lo sviluppo identitario, qui inteso come la costruzione di un proprio stile di vita, che gli consenta di instaurare relazioni stabili all’interno del proprio contesto sociale (Erikson, 1968/1999).

Una caratteristica identificativa dell’adolescenza e di tutto ciò che ad essa è relato si può trovare nell’idea di una trasformazione.

D’altro canto adolescenza è un termine che nel linguaggio comune viene facilmente associato a crescita, cambiamento e quindi appunto trasformazione.

I cambiamenti individuati e descritti come i più importanti sono i seguenti:

  • fisiologici poiché il corpo cambia a livello cardiaco, respiratorio, ormonale (Mussen et al., 1984/1986);
  • morfologici poiché si assiste al fenomeno denominato spurt of growth ovvero uno scatto che determina un cambiamento repentino in peso e altezza (Eichorn, 1979; Sartorio & Buckler, 2007);
  • sessuali, con lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari (Petersen & Crockett, 1985; Schmitz et al., 2004);
  • cognitivi, poiché si assiste allo sviluppo delle capacità di astrazione e di ragionamento che seguono il pensiero ipotetico-deduttivo (Inhelder & Piaget, 1955/1971). Il ragazzo comincia a maneggiare la possibilità di ragionare secondo ipotesi elaborate anche solo verbalmente. Di esse inizia ad analizzarne le alternative e a valutarne le conseguenze implicative.

 

S’impara quindi a ragionare sul mondo e sull’esperienza che si fa di esso, in una maniera che sarebbe riduttivo definire autonoma, bensì consapevolmente propria, appartenente a se stessi e per questo forse unica e irriproducibile.

In questo periodo della vita anche le strutture cerebrali e le loro funzioni sono in mutamento evolutivo. In particolare lo sviluppo coinvolge in maniera significativa quelle “regioni che regolano la risposta di tipo inibitorio, la valutazione dei costi e benefici e che regolano le emozioni” (Steinberg, 2005, p. 69).

Le capacità esecutive avanzate raggiungono, secondo l’autore, una forma di assemblaggio che permette il raggiungimento “di una più consapevole, auto-diretta e auto-regolantesi mente”.

I cambiamenti cognitivi e comportamentali dell’età adolescenziale si interfacciano quindi, dal punto di vista neurofisiologico, con modificazioni delle funzioni esecutive come attenzione, risposte inibitorie, regolazione emotiva, pianificazione a lungo raggio (Giedd, 2008; Steinberg, 2005; Paus, 2005) frutto di una serie di mutamenti morfologici tipici di un cervello in evoluzione.

Negli ultimi vent’anni la ricerca si è focalizzata sull’importanza dei contesti sociali nei quali lo sviluppo cognitivo, emotivo e fisiologico dell’adolescente avviene: tra questi emerge naturalmente anche quello familiare (Zani, 1993/2011).

Far rientrare l’adolescenza in una categoria di riferimento è un’operazione logica talmente diffusa che ormai ci permette un’ampia e scontata condivisione. Tale condivisione genera, senza dubbio, una serie di vantaggi.

Raccontare una persona o semplicemente identificarla, attraverso la categoria adolescente rende possibile una condivisione di significati attraverso una modalità veloce, fluente e stretta.

Nessuno avrebbe difficoltà a comprendere su cosa si voglia mettere l’accento se si analizzasse l’asserzione “Mario è un adolescente”. Si alluderebbe, probabilmente, ad un insieme di caratteristiche fisiche e psicologiche, inquadrate in un preciso segmento della retta del tempo della vita, che si collegano al dizionario dei significati della persona che ascolta.

Questo permette di avere una sorta di mappa esplicativa, dal potere anticipatorio abbastanza soddisfacente, dei processi della persona alla quale si sta facendo riferimento.

Volendo portare un esempio: un genitore che da un giorno all’altro sentirà cambiare la voce del proprio figlio, che da sottile e leggera diverrà profonda e grave, potrà disporre di una serie di elementi in più che non lo lascino solo e in preda ad allarme e sconcerto.

Sicuramente sapere che quel cambiamento morfologico, dal non indifferente impatto emotivo e psicologico (Zani, 1993/2011), sia indice di un normale e sano processo di sviluppo, rassicura il genitore, al quale non rimarrebbe altra scelta che quella di dover revisionare la costruzione del figlio, non più in grado di parlare con una voce da bambino.

O ancora se un genitore dovesse spiegare ad un insegnante il motivo dei cambiamenti comportamentali del figlio, per entrambi considerati non accettabili o sostenibili, la categoria adolescenza potrebbe avere un momentaneo effetto di rassicurazione sugli adulti. Non avrebbero una soluzione al problema ma potrebbero condividerne una lettura.

Il confronto con le esperienze e con le proprie costruzioni di esse, è un processo continuo e inarrestabile. Nel periodo adolescenziale, questa serie di mutamenti diventa un’importante priorità per il soggetto che li vive. Forse per la prima volta, l’adolescente comincia a costruire una propria propriocezione di quell’equilibrio e quell’invarianza che solo i piccoli e continui mutamenti possono garantire.

“[…] L’invarianza non è raggiunta attraverso una stabile resistenza (come le rocce che stanno ferme al vento), ma attraverso la comprensione nel tempo. Quando ci troviamo nel circolo della retroazione, troviamo il vissuto presente eretto contro il nostro immediato passato ma sulla strada di essere esso stesso sostituito dall’immediato futuro” (Glasersfeld, 1979, p. 94).

Un po’ come quando l’equilibrista si muove per riuscire a rimanere fermo sulla sua corda, l’adolescente aumenta la consapevolezza del potere delle proprie scelte e delle proprie azioni e di come queste incidano nella costruzione stabile e sicura di sé stesso.

 

2. Il punto di vista dell’adulto

Se però “ogni cosa è detta da qualcuno” (Maturana & Varela, 1984/1987, p. 40) viene doveroso interrogarsi su chi sia solito parlare di adolescenza e con quali significati utilizzi questa parola.

Volendo inquadrare il contesto all’interno del quale il ragazzo vive e stabilisce relazioni, considerare cosa succede da questo punto di vista può sollevare interessanti riflessioni.

Una prima osservazione spontanea e occasionale potrebbe portare all’attenzione un dettaglio.

I ragazzi non sono soliti definirsi “adolescenti”. Essi usano poco frequentemente questo termine e non sempre considerano tutte le implicazioni alle quali si è fatto riferimento sopra.

Un ragazzo adolescente che incontri un terapeuta costruttivista farà l’esperienza di interagire con un esperto che si chiederà da quale punto di vista il proprio paziente stia osservando il mondo.

Molto spesso un punto di vista dal quale si osserva l’adolescenza implica un confronto con le paure e le speranze delle persone che sentono la responsabilità delle scelte del ragazzo.

“Il processo di separazione interessa entrambe le parti: non solo l’adolescente ma anche i genitori” (Zani, 1993/2011).

Si vuole qui ipotizzare che l’adulto, con livelli diversi di consapevolezza, tenda ad offrire all’adolescente, inteso come adulto in fieri, la propria personale costruzione di maturità come modello al quale riferirsi.

L’adulto ha solo la propria personale visione del mondo per leggere ciò che gli accade. La utilizza, l’ha testata, l’ha modificata da più anni del ragazzo e in contesti diversi presumibilmente più differenziati.

Questa visione, o meglio costruzione, è stata ampiamente testata con successo dall’adulto, ma non dal ragazzo, dalla persona altra da sé, che ha dinanzi.

Molto spesso i legami affettivi e le appartenenze emotive, che siano esse familiari o di altra natura, non rendono semplici le cose.

Appare quindi chiaro che un nodo importante da tenere in considerazione quando si parla di adolescenza riguarda il punto di vista di chi adolescente non lo è più: l’adulto.

Può accadere, infatti, che il divenire del figlio o dell’alunno o del nipote e via dicendo, rappresenti un test difficile e impervio dal quale esito dipenda un giudizio validante o invalidante per gli adulti stessi.

Se il ragazzo sceglierà con successo la strada che gli verrà proposta, o se invece dovesse raccogliere esiti negativi dalle esperienze erronee che sceglierà di fare, le conseguenze per l’adulto che ne risponde in termini di responsabilità, saranno evidentemente diverse. E d’altro canto ha da poco lasciato quell’infanzia, durante la quale, è l’adulto, che “crea dei contesti conversazionali provvisti di significato e introduce dei ‘costrutti semantici bipolari’ (Kelly, 1955/1991a) che sono caratteristici della cultura, dello strato sociale e del sistema familiare a cui appartiene e del suo particolare modo di organizzare la realtà” (Ugazio, 1990, p. 31). L’adulto di riferimento, ancor di più se genitore, tenderà comprensibilmente ad offrire ancora le proprie competenze ed esperienze al fine di favorire con successo l’esperienza del figlio adolescente.

Il genitore non sentirà che il divario generazionale sia così consistente da rendere impossibile una condivisione delle scelte. Questo probabilmente non sarà sufficiente ad evitare che i conflitti caratterizzino la scena familiare, pur non riguardando essi valori di fondo o questioni morali ideologiche e politiche (Zani, 1993/2011).

Entrano in gioco, in tutto questo, anche le esperienze che l’adulto ha fatto nella propria adolescenza.

In una ricerca (Bannister & Fransella, 1971, p. 103) gli adulti, ai quali è stato chiesto che ricordo abbiano della loro prima percezione di sé come individui separati, hanno raccontato esperienze di solitudine, fallimento e rifiuto da parte degli altri come origine del loro senso di individualità.

Il ragazzo sperimenta molto attivamente questa nuova consapevolezza di sé come essere separato, ma ciò non implica che questa esperienza sia per lui necessariamente spiacevole o traumatica, come a volte qualche adulto nei propri ricordi costruisce.

Da questo momento, la riflessione potrebbe evolvere lungo diverse traiettorie. Una di queste potrebbe portare all’attenzione di chi legge un dilemma vero e proprio.

Come si può considerare il ragazzo come un adulto in fieri e lasciarlo scegliere liberamente per sé?

Come si può aspettare che l’altro scelga la strada più giusta, se riteniamo che questa possibilità non sia ancora nelle sue piene facoltà?

Con questo passaggio si potrebbe meglio comprendere, in una visuale ampia e sistemica, il ruolo delle parti giocate dagli attori della nostra storia.

Questo dilemma infatti porta i ragazzi e gli adulti a dover scegliere tra due alternative.

La prima riguarda la possibilità che l’adulto si ponga come l’esperto di vita. Come cioè colui che, avendo già vissuto un pezzo di vita maggiore di quella di un ragazzo e avendo già e con successo superato e risolto la fase cosiddetta adolescenziale, possa proporsi all’adolescente come modello. Ne può conseguire l’aspettativa che il ragazzo incarni appieno le proprie scelte o il proprio modo di vivere o che comunque lo consideri come il principale validatore delle proprie scelte.

Il ragazzo, portando comunque avanti una serie di prove e sperimentazioni, che possono definire la sua idoneità e l’appartenenza al mondo adulto, non potrà far altro che scegliere tra la possibilità di accettare il modello propostogli o di rifiutarlo. Facendosi carico delle conseguenti implicazioni di quella che viene spesso definita la ribellione dell’adolescente.

Un’altra possibilità, forse al giorno d’oggi più frequente, riguarda invece la seconda alternativa al dilemma.

La possibilità cioè che l’adulto di riferimento scelga un ruolo nella relazione con l’adolescente più ritirato e meno incisivo. Che si ponga quasi da spettatore nella vita del proprio figlio o alunno. Come se volesse dire: “se non posso scegliere per te, non posso far altro che lasciarti fare le tue scelte e prendere atto di ciò che ne consegue”.

D’altronde essere un adulto in fieri esclude che i ragionamenti e le scelte siano quelli di un bambino e permette di potersi aspettare che l’adolescente risponda da solo dei propri errori, frutto delle proprie scelte.

Con prospettive come quelle descritte, anticipare le scelte dell’altro diviene una scelta ardua, che rende poco percorribile la messa in atto delle proprie scelte.

 

3. L’approccio costruttivista

L’adolescenza rappresenta, come detto finora, un momento in cui avviene quello che si definisce uno sviluppo.

In termini costruttivisti lo sviluppo può essere inteso come un momento in cui il sistema di costrutti di una persona si stia organizzando in termini di una maggiore sovraordinazione, che ne garantisca una maggiore organizzazione (Bannister & Fransella, 1971 /1986, p. 100)

Come Viney (1997, p. 170) sembra confermare, “quando un adolescente cresce il suo sistema di costrutti diviene più elaborato”.

Ma lo “sviluppo può rappresentare anche un momento in cui le anticipazione falliscono” (Bannister & Fransella, 1971/1986, p. 97) e questo avviene indipendentemente dal modello al quale si è deciso di ispirare le proprie scelte.

La figura del terapeuta s’interessa principalmente dei processi psicologici di altre persone, di come questi processi a volte generino situazioni di blocco e sofferenza e si propone in una funzione di aiuto che possa permettere il superamento di ciò, qualora la persona che a lui o lei si rivolge, ne senta il bisogno.

Precedentemente si prospettava la necessità di considerare, nel quadro operativo di partenza, il ruolo degli altri attori inevitabilmente coinvolti.

Essere adulto rispetto ad un figlio o insegnante rispetto ad un alunno adolescente chiede un certo grado di tolleranza verso vissuti non sempre anticipabili, verso esperienze caratterizzate da ansia e ai relativi tentativi di fronteggiarla ricorrendo a costrutti stretti e prelativi.

Adulto e adolescente potrebbero essere descritti, come due unità autopoietiche, ovvero come sistemi autonomi la cui organizzazione sia basata su un processo continuo di auto-produzione (Maturana, 1978).

Sempre secondo Maturana, questi sistemi sono però in relazione tra loro e a loro volta essi stessi interagiscono tra loro e con l’ambiente secondo dinamiche strutturali che permettono all’organismo di mantenere invariata la propria organizzazione nonostante i continui cambiamenti di stato.

Gran parte delle implicazioni relazionali con le quali un terapeuta potrebbe confrontarsi, se viste alla luce di questa interpretazione, potrebbero acquistare un senso.

Le scelte terapeutiche, che a loro volta potrebbero inscriversi in questa visione teorica e discendere da tali presupposti, potrebbero essere perturbanti e per questo fonte di nuove e interessanti rielaborazioni.

Adulto e adolescente innescano reciprocamente dei cambiamenti strutturali l’uno nell’altro ma nessuno dei due li determina o li istruisce (Maturana & Varela, 1984).

L’insieme di questi cambiamenti co-occorrenti, definito dagli autori (1978; 1980) accoppiamento strutturale, potrebbe offrire una lettura molto più interessante dei processi che adulti e adolescenti mettono in gioco nella relazione.

Sembrerebbe che l’uno o l’altro generino dei cambiamenti strutturali che determinano degli accomodamenti nell’altro, il cui risultato, nonostante la confusione e l’incertezza generate dalle invalidazioni, permette ancora che il sistema d’interazione tra i due rimanga invariato.

Adulto e adolescente, seppur nel sintomo che genera il disagio, sembrano essere comunque alla ricerca del modo migliore per evitare lo sfaldamento del sistema che essi stessi insieme rappresentano.

Attenendoci al Corollario della Scelta secondo il quale “la persona sceglie per sé l’alternativa, attraverso la quale riesce a prevedere maggiori opportunità per l’estensione e per la definizione del proprio sistema” (Kelly 1955/1991a, p. 45), adulto e adolescente potrebbero non essere in grado di comprendere il punto di vista dell’altro attore coinvolto nella relazione.

Entrambi sceglieranno quella strada che nella viabilità permetterà loro di esistere e continuare il loro viaggio nel contesto del loro dominio di esperienze.

Una delle attribuzioni che gli adolescenti fronteggiano frequentemente, riguarda la loro presunta difficoltà nell’assumersi le responsabilità di ciò che loro accade. Può capitare di collegare termini come ”irresponsabili, incoscienti”, polo opposto di “responsabili, maturi, coscienziosi”.

Se però quell’adolescente immaturo o responsabile che sia, dovesse raccontare di sé in una stanza della terapia o seduto su un divano di uno sportello d’ascolto, ad uno psicologo interessato a capire che rete di tracciati percorra il suo pensiero, potrebbe accadere qualcosa di inaspettato.

Potrebbe accadere che quel ragazzo venga interpellato come principale protagonista della propria storia, come soggetto agente, che in quanto tale avrà avuto dei buoni motivi per scegliere di agire in quel modo.

Potrebbe inoltre accadere che quello psicologo debba confrontarsi con la scoperta che l’adolescente, che ha deciso di intraprendere quell’esperienza, responsabile o insana che sia, non si stesse ponendo la domanda “come posso perseguire la mia responsabilità?” o “come posso risultare agli occhi dei miei insegnanti o genitori completamente assennato?”.

“Un atto di conoscenza”, usando le parole di Armezzani (2003, p. 33), altrettanto viabile e potente potrebbe essere quello che permette al terapeuta di interessarsi al personale modo di organizzare i significati attribuiti all’esperienza, al proprio sistema di costrutti, a come questi rappresentino il balcone privilegiato dal quale la persona, indipendentemente dall’età, si affacci per guardare il mondo.

Kelly (1955/1991a) sottolinea come il compito del terapeuta non sia quello di sostituirsi al proprio paziente, bensì di poter anticipare le sue scelte.

Il terapeuta utilizza il proprio sguardo professionale nel tentativo di creare uno spazio di condivisione che permetta al ragazzo adolescente di potersi sentire compreso da una persona molto distante da lui e dal modo di intendere il mondo.

“L’aspetto rivoluzionario del costruttivismo sta nella affermazione che la conoscenza non può e non deve essere vera, nel senso che ad essa corrisponda la realtà ontologica, ma solo deve essere viabile, nel senso che si inserisce entro quei limiti esperienziali che le possibilità cognitive di agire e pensare della persona determinano” (Glasersfeld, 1989, p. 115).

Da un modo così rivoluzionario di intendere la conoscenza, un terapeuta potrebbe porsi domande come queste:

  • cosa quel ragazzo porta, in terapia, della propria personale idea di adolescenza?
  • che idea di sé come adolescente incarna nella vita di tutti i giorni?
  • come questo influisce su quello che anticipa possa essere una difficoltà o un problema?
  • come questo può perturbare le relazioni che intercorrono tra adulto e adolescente?

 

Il Postulato Fondamentale con il quale Kelly (1955/1991a, p. 32) presenta il primo assunto a base e fondamento della teoria, recita così:

“I processi di una persona sono psicologicamente canalizzati in funzione dei modi attraverso i quali essa anticipa gli eventi”.

La persona viene intesa come individuo, nella sua interezza, più che nelle sue diverse parti come le singole manifestazioni comportamentali o l’età cronologica.

Inoltre, della persona nella sua interezza s’intende leggere i processi, mettendo così in luce come essa non sia intesa come un oggetto temporaneamente in moto bensì un essere vivente in continuo movimento.

 

4. Adolescente come una persona

L’approccio costruttivista riconosce “la persona come un’unità irriducibile, dalla cui visione di essa nella sua interezza e complessità, non si può prescindere se si vuole conoscerla” (Bannister & Fransella, 1971/1986, p. 53).

Gli autori definiscono tale persona come “auto-inventata e auto-inventiva” e descrivono così le sue caratteristiche:

1. considerarsi come separati dagli altri, facendo affidamento sull’intimità della propria coscienza;

2. essere convinti della propria integrità, della completezza della propria esperienza, in quanto attori principali di essa;

3. mantenere una percezione di continuità nel tempo, sin dall’infanzia si è sempre la stessa persona con una biografia personale, in continuo cambiamento, ma unica e irriducibile;

4. essere convinti che ciò che agiamo sia orientato da scopi e intenzioni presi con responsabilità e consapevolezza;

5. essere convinti dell’esistenza degli altri per analogia con noi stessi e di poter confrontare con essi le reciproche e soggettive esperienze (Bannister & Fransella, 1971/1986, p. 53).

A partire dall’età dell’infanzia si cerca sempre, con nobili motivazioni, di assumere un atteggiamento di protezione e accudimento nei confronti di bambini e ragazzi preadolescenti e adolescenti.

Come mette in luce l’Organizzazione mondiale della sanità (WHO):.

“l’adolescenza è un periodo di vita con specifici diritti ed esigenze legate alla salute e allo sviluppo. È anche un periodo in cui si sviluppano conoscenze e competenze, si impara a gestire le emozioni e le relazioni interpersonali e si acquisiscono capacità e abilità che saranno determinanti per vivere serenamente gli anni adolescenziali e per prepararsi al ruolo adulto. Tutte le società riconoscono le differenze tra essere bambino e diventare adulto. Come questo passaggio dall’infanzia alla maturità sia definito e riconosciuto, cambia da cultura a cultura e con lo scorrere del tempo…” (Who, n.d.).

Però, se volessimo considerare il ragazzo davanti a noi come una persona completa, convinta della propria integrità, della propria separatezza dagli altri, della propria responsabilità nelle azioni che sceglie di intraprendere ci ritroveremmo a ragionare su un’incongruenza non trascurabile, che si spiega nel dilemma presentato poc’anzi.

Credo che questo sia un dilemma per il quale possiamo fare emergere una necessaria sovraordinazione che permetta di continuare a considerare i ragazzi adolescenti come persone da proteggere e delle quali prendersi cura, senza per questo rinnegare il loro essere persone, che scelgono, agiscono e pensano, non sempre come si possa ritenere giusto.

Questo tipo di scelta potrebbe assumere significati, per il ragazzo, di sorpresa, spiazzamento, interesse, divertimento, che possono rivelarsi utili nella costruzione della relazione terapeutica.

Le implicazioni di questa scelta però renderanno necessari continui processi di accomodamento. In tal senso, le proposte operative che seguiranno potrebbero rappresentare utili indicazioni sulla rotta da seguire.

 

5. Una proposta operativa

Ernst von Glasersfeld (1989), in un articolo in cui affronta il tema dell’educazione dal punto di vista costruttivista, distingue quelle che secondo lui dovrebbero essere le linee guida di un insegnante.

Insegnanti e terapeuti svolgono due professioni non sovrapponibili. Ma come forse si auspica un insegnante, il terapeuta costruttivista utilizza la stanza della terapia come luogo in cui nuove esperienze possano essere apprese e con esse nuovi significati messi in evidenza.

Il terapeuta non insegna, ma co-partecipa alla scoperta.

Come già evidenziato, il paziente di età adolescente è una persona in movimento, della quale risulta necessario interessarsi e costruirne i processi psicologici, ma anche una persona della quale occuparsi, da proteggere, come ad esempio l’Oms chiede.

In questo momento della vita, un adulto che svolga una funzione educativa è ancora necessario ma in termini e modalità non sempre chiare e facilmente fruibili.

Questo sembra essere un vero e proprio dilemma che caratterizza la relazione, ancor più quand’essa sia di tipo terapeutico.

Un terapeuta, non avendo un ruolo esclusivamente educativo, potrebbe trovare nell’approccio costruttivista le coordinate necessarie per condividere, partendo dalla libertà individuale di scelta, una nuova esperienza.

Rimane il dubbio che tutto questo possa non sempre permettere al terapeuta di essere un riferimento per l’adolescente. Qualcuno potrebbe comprensibilmente dubitare del fatto che questa posizione non sia sufficiente per garantire il perseguimento del benessere e della salute psicologica del ragazzo.

La proposta innovativa dell’autore, al quale si ispirano queste riflessioni, consiste nel tentativo di proporre un nuovo modo di costruire una relazione con l’altro, laddove si auspica che il ragazzo divenga co-partecipe della costruzione del proprio significato personale e soggettivo di benessere e salute psicologica.

Con tale presupposto al terapeuta non rimane altro che mettersi al servizio dei nuovi significati elicitati e condividere con il proprio paziente la costruzione delle scelte e delle loro implicazioni.

L’orientamento interattivo-costruttivista propone, ad esempio, che l’adulto svolga il proprio ruolo educativo con “metodi indiretti”, non incidendo sul comportamento del bambino o dell’adolescente con “azioni finalistiche”, bensì creando “contesti educativi” (Ugazio, 1990, p. 28).

Lo psicoterapeuta potrebbe scegliere di indicare al ragazzo quale sia il comportamento corretto da mettere in atto, oppure potrebbe condividere con lui nella cornice della relazione psicoterapica uno spazio in cui esser-ci. Potrebbe creare uno spazio conversazionale, per “l’ascolto e il dialogo, in cui la curiosità, e lo sforzo interessato e attento alla comprensione e l’essere insieme, incoraggino la co-invenzione di nuove narrative” (Ortu, 2003, p. 385). Laddove queste nuove narrative possano essere considerate uno stimolo alla generazione di nuove forme di apprendimento, frutto di scoperte inaspettate sia per il terapeuta che per il paziente, da mettere in atto e testare, senza una precisa indicazione comportamentale.

Tutte queste scelte professionali potrebbero essere percorribili. Ma nel tentativo di compendiare queste riflessioni in una sintesi operativamente disponibile, si sceglierà quindi di affidarsi alle riflessioni che Ernst von Glasersfeld (1989) ha esposto in suo articolo.

Esse verranno declinate affinché ne risultino cinque strumenti utili, necessari e percorribili nella pratica psicoterapeutica costruttivista.

Nel voler delineare il primo, l’autore (p. 163) propone di mettere l’accento sulla distinzione tra azioni che educativamente generano comprensione (“teaching”) e quelle che invece promuovono la ripetizione di comportamenti (“training”).

Declinando potremmo notare come la psicoterapia possa essere luogo e occasione sia per costruire possibilità di apprendimento (“understanding”) che di messa in atto di comportamenti che, seppur nuovi e inaspettati, non scaturiscono da esperienze maturate nella relazione e da nuovi apprendimenti. Avere un’idea chiara delle differenze implicative delle due scelte potrebbe rappresentare il primo strumento utile per lo psicoterapeuta.

Facendo un esempio. Un ragazzo può concludere che smettere di tagliarsi sia una cosa giusta per lui e decidere di smettere di farlo. Può utilizzare la stanza della terapia e il terapeuta come un’occasione per riflettere su questa nuova decisione, su come metterla in atto e definirne le condizioni affinché si realizzi.

Oppure può decidere di fare una nuova esperienza quando permetterà al proprio terapeuta costruttivista di affrontare con lui la ricerca nella costruzione di sé stesso, che in quanto soggetto sceglie di tagliarsi, come unica scelta percorribile per lui in quel momento.

Il secondo punto delineato da Ernst von Glasersfeld (1989) suggerisce di porre l’attenzione su ciò che accade nel pensiero del ragazzo che sceglie, piuttosto che focalizzarsi sulle risposte comportamentali che ne conseguono.

Uno strumento efficace per il terapeuta potrebbe consistere nella sua capacità di tuffarsi nei processi del ragazzo che ha di fronte, facendo anche piena esperienza di cosa accada nel suo pensiero, prima ancora che le scelte lo rivelino.

Ciò potrebbe di fatto corrispondere a tutta quella fase del lavoro in cui il terapeuta costruisce l’esperienza dal punto di vista del paziente, ne snocciola il sistema di costrutti, ne individua le implicazioni, ne produce una diagnosi, che nel costruttivismo è per definizione transitiva e transitoria.

Tracciare la mappa dei movimenti di una persona è come fare una fotografia ad un oggetto in movimento. Nel momento in cui scattiamo dobbiamo tener conto che quella posizione già non esiste più. Inoltre quella fotografia, seppur rappresentativa di quell’esperienza, non rappresenta altro che un’interpretazione dei significati del nostro paziente.

La sua funzione principale sarà quella di dirci cosa abbiamo visto, consapevoli che non sia l’unico modo di vedere quell’immagine, che quell’immagine in sé già non esiste più e che da essa si genererà qualcosa di diverso, la cui direzione è da tracciare.

“Il termine diagnosi transitiva ci indica che ci stiamo focalizzando sulle transizioni nella vita del cliente, che stiamo cercando di creare un ponte tra le esperienze del presente del cliente e quelle del suo futuro” (Kelly, 1955/1991b, p. 153).

Nel terzo passaggio si sottolinea la funzione del linguaggio, che diventa, nella proposta dell’autore, strumento per guidare il processo di costruzione dei ragazzi.

Un terapeuta dovrebbe poter comprendere e parlare il linguaggio del paziente e utilizzarlo per orientarsi nel mondo dei suoi significati. In terapia infatti, l’attenzione al linguaggio condiviso permette di analizzare le implicazioni delle idee senza rimanere intrappolati negli esiti che da esse scaturiscono.

Il linguaggio risulta inoltre essere il risultato evolutivo, selezionato tra comportamenti frutto di interazioni tra organismi, in accoppiamento strutturale con un ambiente la cui diversità è in continua espansione (Maturana, 1978).

I sistemi in questione, interagendo, contribuiscono alla definizione delle caratteristiche e dei confini del dominio condiviso.

Senza accoppiamento strutturale il dominio non ha carattere di condivisione e la comunicazione non avviene (Maturana, 1978). Di ciò ne è testimonianza l’incongruenza comunicativa di cui il linguaggio stesso diventa sintomo.

Un terapeuta costruttivista che aspiri a far sentire il proprio paziente partecipe di un esperimento che possa generare nuove scoperte, non può quindi ignorare l’importanza dello strumento che qui vogliamo affinare.

La comunicazione linguistica avverrebbe proprio grazie alla comunanza di esperienze e intenzioni tra i soggetti che condividono il dato linguaggio (Glasersfeld, 2007).

Questo poi diventa importante quando si decide di condividere i significati del paziente e si lavora affinché possano esserne creati di nuovi.

“È colui che ascolta, non colui che parla, che determina il significato di una frase” (Glasersfeld, 2007, p. 351).

Un terapeuta che ascolta i significati del paziente, forse, è tra i pochi che possano immaginare anche per lui quell’alternativa non ancora praticata.

Nel quarto punto Ernst von Glasersfeld (1989) suggerisce all’insegnante di cercare di creare un senso nel mondo delle esperienze che permetta di interessarsi curiosamente agli errori dei ragazzi, vedendo in questi delle occasioni che rivelino il loro personale modo di costruire il mondo.

L’errore rappresenta un’esperienza difficile sia per l’adulto che per l’adolescente, soprattutto quando essa riconduca a significati di scarsa percorribilità.

Condividere con il proprio paziente o alunno o figlio la possibilità di sbagliare insieme, di costruire l’errore come un’occasione per ridefinire la rotta, potrebbe rappresentare un modo elettivo per costruire uno spazio nel quale validazioni e invalidazioni possano diventare perturbazioni da cui generare nuove esperienze.

“Tra il dire e il fare c’è di mezzo la possibilità di fare parecchi errori” (Watzlawick, Weakland, John, Fisch, 1974, p. 122) direbbe chi vede nell’errore una delle possibili e inevitabili declinazioni dell’esperienza.

L’esperienza terapeutica è un continuo viaggio tra il noto e il non noto, tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il non detto.

Il compito di dover evitare l’errore potrebbe essere, in un viaggio di tal genere, un ottimo motivo per non partire.

Aiutare una persona a non sbagliare è spesso un obiettivo privilegiato di chi educa. Quest’ultimo potrebbe per questo, non considerare l’utilità di lasciare che l’individuo scelga, tra le varie alternative, proprio quella di sbagliare.

Un terapeuta deve poter sussumere nel suo sistema di costrutti le esperienze del proprio paziente. In questi termini anche sbagliare può essere un‘esperienza.

Ultimo, ma non per questo meno rilevante, è il punto in cui l’autore invita non solo ad inferire le strutture concettuali dei ragazzi, ma anche ad avere l’intento di volerle modificare (Glasersfeld, 1989).

Un viaggio necessita del desiderio di nuove scoperte ma anche della disponibilità a modificare le strutture già possedute ed infine di realizzare concretamente esperienze che non si immaginavano.

Quando un evento a risulta indesiderabile, la soluzione che spesso il senso comune suggerisce è rappresentata da non-a, una soluzione che rischia di impigliare il soggetto nella dicotomia delle alternative (Watzlawick, et al., 1974).

Il cambiamento proposto dall’autore (1974) nella formula non-a, ma anche non non-a, implica una predisposizione al far sì che ciò che non conosciamo ancora venga a noi.

Volendo esemplificare: quando un ragazzo racconta di non voler più andare a scuola il terapeuta potrebbe scegliere di lavorare su due delle possibili alternative. Potrebbe stimolare il ragazzo a riprendere gli studi, invitandolo a portare a termine un progetto già iniziato, oppure potrebbe favorire la consapevolezza della scelta di rinunciare alla realizzazione di esso. Entrambe le alternative si muovono lungo l’asse di una dicotomia, che in quel momento rischierebbe di fermare il flusso terapeutico sull’elaborazione del sintomo, appunto la difficoltà scolastica.

Incontrando gli adolescenti, può capitare di non compendiare possibilità, perché in quel momento non visibili all’occhio del professionista. Un terapeuta potrebbe infatti travisare i mutamenti del paziente con il cambiamento che auspica, dimenticandosi che l’ignoto, a volte, spaventa sia il paziente che il terapeuta.

Il suggerimento di questo punto operativo invita il terapeuta a chiedersi il significato che la scelta del ragazzo ha in quel preciso momento e come questo stia incidendo sulla sua vita. Questo potrebbe far inquadrare il sintomo come solo uno dei tanti modi con i quali il blocco si possa manifestare. Cambiare tale prospettiva potrebbe stimolare il nostro paziente a chiedersi come possa perseguire i propri obiettivi e soddisfare i propri bisogni facendo esperienze che non avrebbe mai immaginato di poter fare o di poter scrivere nella propria storia.

Se dovesse quindi accadere di trovare un punto di intersezione tra la percezione vissuta dal paziente come cambiamento e quel cambiamento che invece il terapeuta riesce ad immaginare per lui, allora entrambi potrebbero provare la sensazione di salpare insieme verso un viaggio mai intrapreso.

 

6. Conclusioni

Partendo da una breve introduzione sulle caratteristiche dell’evoluzione adolescenziale, si è voluto focalizzare la comprensione del punto di vista dell’adulto, che spesso porta con sé delle responsabilità educative nei confronti dell’adolescente con il quale si relaziona.

Emerge un dilemma tra il ruolo educativo e la libertà di scelta che viene lasciata al paziente.

Sovraordinando il dilemma si è proposto al lettore una sintesi operativa che aiutasse a restringere sull’argomento. Declinando una proposta di Ernst von Glasersfeld (1989) si sono focalizzati aspetti che potrebbero orientare il terapeuta costruttivista nel lavoro con pazienti di età adolescenziale.

Questo ha permesso di mettere in evidenza l’importanza per un terapeuta di poter, attraverso una elaborata costruzione del punto di vista dell’altro, condividere un’esperienza di cambiamento che in quanto tale risulti nuova per entrambi.

Si potrebbe infine auspicare una riflessione teorica che stimoli un approfondimento. Sarebbe interessante definire e sistematizzare una ricerca che indaghi sull’approccio costruttivista alla terapia con gli adolescenti, con particolare attenzione alla definizione del ruolo terapeutico nei suoi confini, limiti e possibilità.

 

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Note sull’autore

 

Francesca Paola Tramacere

Institute of Constructivist Psychology

tramacerefra@gmail.com

Laureata in psicologia clinica e specializzata in psicoterapia ad indirizzo costruttivista. Lavora presso un consultorio familiare nel quale si occupa prevalentemente di adolescenti e di sostegno alla genitorialità. Collabora inoltre con scuole medie inferiori e superiori con progetti rivolti agli alunni e agli insegnanti. Precedenti collaborazioni con scuole dell’infanzia l’hanno impegnata nella responsabilità di progetti di integrazione rivolti a bambini diversamente abili.