Il ritmo è costitutivo dell’estetico, i cui valori sono: bello-brutto; grazioso-sgraziato; sublime-vile. Esso si introduce, operando mentalmente, come frammentazione di un qualcosa, effettuata con l’attenzione, o come composizione di elementi rapportati tra loro, per formarvi mentalmente un tutt’uno (vedere riquadro sulla “Sezione Aurea”).
Se prendiamo in considerazione le decorazioni realizzate dall’uomo, su qualsiasi oggetto, da sempre, ci accorgiamo di come le caratteristiche geometriche esaltate dai contrasti cromatici mirano a suggerire vari percorsi per lo sguardo, quindi la costituzione di ritmi, in altre parole all’assunzione dell’atteggiamento estetico.
L’uomo ha decorato il proprio corpo per somigliare a certi animali, per identificarsi con essi e assimilarne la forza, l’astuzia, ha decorato le proprie armi, per incutere timore e rispetto, ha creato i propri totem in cui riconoscersi e a cui restare fedele, ecc. In questi casi l’atteggiamento estetico si è combinato con altri atteggiamenti, mischiando tra loro i valori corrispondenti. La decorazione fatta solo per abbellire un oggetto o il corpo non si pone sullo stesso piano di quella investita di ruoli magico-sacrali, conoscitivi, commemorativi, ecc., alludo qui agli “stati misti” di cui parla anche Ceccato (1985), nei quali di volta in volta si possono individuare i poli d’attrazione dominanti (p. 81). Propongo alcuni esempi.
L’arte Iconografa bizantina e russa risponde totalmente a un sistema di valori teologici correlati a precisi aspetti formali e principi costruttivi, perciò gli ortodossi la considerano sacra, in contrasto con la pittura occidentale che tratta i temi religiosi e laici con forme espressive sostanzialmente simili, d’origine pagana. Nell’arte bizantina la prospettiva greca è ribaltata scientemente, la volumetria appiattita nei linearismi e cromatismi estetizzanti. I temi teologici sono espressi anche attraverso le armonie geometriche della composizione, gli accostamenti dei colori, i simbolismi condivisi dalla comunità dei fedeli. Ad ogni valore corrisponde un pezzo ed ogni pezzo ha un suo valore. I due ambiti operativi, estetico e religioso, sono tenuti in equilibrio perfetto.
Nella poetica di Michelangelo Buonarroti l’uomo, sin da piccolo, può conoscere la Bellezza e per mezzo di essa avvicinarsi a Dio. In tal senso gli occhi sono lo strumento principe per trovare la via della Verità e della Salvezza. In questo senso vanno letti i seguenti versi, tratti dal Sonetto LXI. Amore spiega all’artista, (Buonarroti, 1954, p. 49): “i’ son colui che ne’ prim’anni tuoi / Gli occhi tuo’ infermi volsi alla beltade, / Che dalla terra al ciel vivo conduce”.
In Michelangelo si nota anche la volontà di nobilitare la scultura, arte sua prediletta, portandola ai vertici delle attività cognitive, associandola alla stessa filosofia. La metafora utilizzata è connessa alla parola “astrazione”, o meglio, al termine greco corrispondente: “aphairesis”, che indicava il lavoro dello scalpellino. Lo scultore toglie il superfluo e arriva alla forma nascosta nel marmo, come il filosofo eliminando gli accidenti trova l’essenza delle cose.
Parlando dell’arte degli anni 60-70 del 900, Ceccato fa riferimento all’allora giovane Fabro (1936-2007), durante una sua mostra tenuta a Milano. L’artista, è oggi considerato uno dei massimi esponenti dell’avanguardia italiana del XX secolo, soprattutto dell’arte povera, è stato artista concettuale e scultore. Considerando le sue opere, Ceccato generalizza sulle manifestazioni dell’arte contemporanea, evidenziando in esse il prevalere dell’atteggiamento intellettualistico su quello estetico, Ceccato (1975, p. 174): “a mio avviso si sta attraversando un periodo in cui nelle arti la pressione dell’estetico si è fatta molto debole (inavvertita? ignorata? scacciata?) a favore di una pressione mutuata in atmosfera intellettualistica”.
Questa affermazione di Ceccato mi sembra molto importante perché pone l’accento sul fatto che in molta arte contemporanea, pur non venendo meno la componente ritmica, suo elemento costitutivo, essa viene ridotta al limite, quindi: o “ignorata”, o volutamente “scacciata”, o usata senza sentirne l’importanza “inavvertita”.
Le opere di Duchamp, anche le più irritanti (vedi riquadro con “Fontana”, 1917, in Appendice), che nel set dell’arte inizialmente apparvero, ai più, solo come provocazioni, oggi sono considerate veri paradigmi estetici. In esse è sempre presente un’estrema eleganza a livello operativo: interventi minimi sul piano fisico (alterazioni dell’orientamento; spostamento di luogo, cambio di uso; ecc.); invenzione di nuovi pensieri per l’oggetto scelto; cambio d’atteggiamento verso le cose più ordinarie.
Così come Van Gogh nobilitava le sue scarpe rotte dipingendole, Duchamp fa qualcosa di simile, semplicemente scegliendo un oggetto e inventando per esso un nuovo sguardo, un nuovo mondo. Duchamp era un esteta, in questo quadro rientra anche il fatto che fosse un vero campione al gioco degli scacchi.
Nel Minimalismo le opere consistono spesso in forme elementari, costruite applicando simmetrie, ripetute secondo schemi geometrici basati su principi di uniformità, alternanza, crescita/decrescita, sviluppo radiale. Tali schemi non sono di per sé “ritmi”, è bene sottolinearlo, ma li suggeriscono, sono come dei binari su cui possiamo realizzarli o meno. In molti libri scolastici, invece, si trovano spesso didascalie che mostrano l’identificazione tra schemi e ritmi, ingenerando confusione e facendo supporre che l’operare mentale sia inessenziale.
Che la costituzione dei ritmi sia un fatto mentale non riconosciuto come tale è evidente sin dagli albori dell’arte. Uno dei pregiudizi più duri a morire, infatti, lascia supporre che l’opera d’arte, quando è tale, contenga in sé l’artisticità, per certi rapporti fisici incorporati. Viene da pensare subito alla simmetria, che suggerisce stabilità, immobilità, ordine (Arte Egizia), ed alla Sezione Aurea, che suggerisce invece uno sviluppo dinamico, che si può sempre potenzialmente accrescere (Arte Greca).
Assunto l’atteggiamento estetico possiamo formulare dei giudizi utilizzando due modalità espressive, quella oggettiva o quella soggettiva.
(Ceccato 1987):
Per il freddo basterà appoggiare e tenere la mano appoggiata sulla superficie del tavolo. Ora però si consideri che cosa si faccia per passare da questo “freddo” alla sua sensazione. Entra in campo un “io”, un “mio”, che fra l’altro escludono, pena la contraddizione, che quella sensazione possa essere di un altro, mentre niente ostacolava che il freddo venisse pensato comune a tutti coloro che appoggiassero la mano. Questo è dovuto appunto all’aggiunta del soggetto all’operare costitutivo di quel freddo, e fornisce la definizione operativa della sensazione: operare + io. (p. 174)
In relazione ai giudizi estetici, nel caso della forma soggettiva i valori sono: “mi piace” (positivo), “non mi piace” (negativo), ricondotti al soggetto che li ha espressi, indicato genericamente dal pronome personale indiretto “mi”. Nel caso della modalità oggettiva usiamo i valori: “bello” (positivo), “brutto” (negativo), ricondotti mentalmente all’oggetto, come se fossero espressione di sue proprietà fisiche (di cui l’una esclude necessariamente l’altra). Che “bellezza” e “bruttezza” siano considerate filosoficamente qualcosa di reale, di fisicamente osservabile, lo dimostra il lessico e la grammatica stessa, indicandole come “sostantivi” (“sost-” dal latino “substàntia”, “sta-sotto”, da cui “sostanza”), va ribadito però che si tratta solo di un antico pregiudizio difficile da sradicare perché connesso alla svista del raddoppio conoscitivo, cuore pulsante della filosofia.
L’analisi in operazioni mostra ben altro. L’estetico corrisponde, come abbiamo già detto, alla ritmicizzazione di un certo costrutto. Anche l’artistico si costituisce sempre a partire dalla ritmicizzazione ma questa risulta condivisa, è in qualche modo tendenzialmente convenzionata, vissuta intersoggettivamente, con un “bello” o “brutto” costituiti ma non riconosciuti come tali. La condivisione può essere facilitata da molti fattori sociali, culturali, intellettuali: uno stesso credo religioso, il comune interesse per uno sport, l’appartenenza ad un “collettivo”, ecc. È la narrazione storica, con la scelta dei criteri selettivi, con la sua logica più o meno stringente, con i suoi documenti, con le ricostruzioni, a conferire una certa stabilità, a fissare nel tempo, l’attribuzione del valore artistico e il suo riconoscimento sociale.
Gli artisti maggiori sono coloro che hanno saputo gestire, consapevolmente o meno, il dosaggio dei vari atteggiamenti per raggiungere il risultato desiderato. L’arte del regista, in questo senso, è quella che più di altre richiede una consapevolezza non comune circa il ruolo delle operazioni mentali nella narrazione. Lo spettatore è sollecitato a pensare in un certo modo, a sentire determinate emozioni, per lui sono pronti mille trabocchetti per sviarlo e creare suspense, solo così il regista riesce nella sua impresa e il fruitore resta soddisfatto.
Il ritmo è il principio organizzatore di qualsiasi azione o costruzione che si voglia esteticamente interessante, eppure, l’uso del concetto di “ritmo” non è affatto univoco, come ha mostrato Edgar Willems (1954, p.52), raccogliendo più di 400 definizioni, studiando circa 200 autori, dagli antichi greci al XX sec., distinguendo tra quelle “in senso lato”: “vita”, “intelligenza divina”, “Tutto”, “Spirito”, “Dio”, (p. 10); e quelle in “senso stretto”: “rapporti di numeri”, “valori di durata” (pp. 11-12). Nel libro si trova ancora l’associazione del termine “ritmo” a: “movimento” (p. 53); “simmetria” (pp. 54; 62); “ordine” (p. 56), “ripetizione”, “periodicità” (p. 62), durata, intensità (p. 63), ecc. Tutte queste soluzioni mostrano che il tentativo di definire il concetto di “ritmo” si è risolto ogni volta con l’istituzione di vere e proprie metafore irriducibili. Affermare che il ritmo è vita, oppure intelligenza, o ancora movimento, ecc., non è altro che porre un’equazione tra due termini che solitamente hanno significati diversi, ovvero usi in giochi linguistici ben distinti. La tendenza a definire le cose con il ricorso a metafore irriducibili, ad aporie o definizioni negative, è tipica dei discorsi filosoficamente impostati, i quali iniziano sempre dalla fatidica domanda: “che cos’è…?”, procedendo poi alla ricerca di essenze, inseguendo un utopico “adaequatio rei et intellectus” che giustifica l’esistenza della Filosofia stessa (“philosophia perennis”).
La svista filosofica del “raddoppio conoscitivo” è emersa anche nelle teorizzazioni sul ritmo. Come ha evidenziato G. Zotto (1979), infatti, i musicisti nel considerare il rapporto metro/ritmo, indotti dalla mentalità fisicalista, hanno identificato nel “metro” l’aspetto oggettivo, esterno, e nel “ritmo” l’aspetto soggettivo interno (p. 33). Io qui mi richiamo all’analisi del “ritmo” sviluppata in termini di operazioni mentali da Silvio Ceccato (1987, pp. 117-122, 136-146).
Come costrutto attenzionale un “ritmo” termina al cessare stesso delle operazioni costitutive, quindi al cambiamento di atteggiamento, mentre le “cose osservative” sulle quali esso è ottenuto possono durare anche molto più a lungo. A tal proposito voglio eliminare subito un possibile equivoco: le “cose osservative” di cui parlo non sono da intendere come “dati conoscitivi”, bensì come il risultato di altre operazioni, in un altro atteggiamento, in specie, dell’uso del modulo rapportativo costitutivo delle situazioni fisiche:
(1° Osservato spazializzato) – Rapporto – (2° Osservato spazializzato)
Fig. 1
Il “modulo sommativo” con cui costituiamo il “ritmo” può essere illustrato con dei tratti continui, indicanti la durata di costituzione sia delle Unità che del Rapporto, e tratti discontinui, indicanti il loro mantenimento di presenza:
Fig. 2
Per far comprendere meglio la validità di quest’analisi rispondo qui alle critiche fattegli da Giorgio Marchetti nel suo “La Macchina Estetica” (2007). Le osservazioni critiche avanzate in questo libro non mi sembrano affatto smontare la validità del modello elaborato da Ceccato, equivocano più che altro su aspetti già valutati con cura da Ceccato stesso e permettono, chiarendo l’equivoco (voluto o meno), di riaffermarne la validità.
Marchetti (2007), ha scritto:
Il puro sommare e tenere presente i vari frammenti costitutivi dell’opera d’arte, infatti, non può rendere conto di come questi si rapportino l’un l’altro, di come essi interagiscano, si combinano e contribuiscono infine a stabilire un certo ritmo. (p. 69)
Qui egli sembra trascurare il fatto che il “modulo sommativo” non è l’analisi operativa di un particolare ritmo, e che per questo motivo non può presentare specificatamente nessuno dei rapporti da lui elencati, nella stessa pagina: né di “simmetria” o “asimmetria”, né di “crescita” o “decrescita”, né di “flusso” o di “accumulo”, né di “conflitto” o di “soluzione”, né di “rapidità” o di “arresto”, né di “eccitazione” o di “calma”, ecc.
Quando Marchetti osserva che anche erigendo un muro dobbiamo porre attenzione ai suoi vari elementi perché non cada, concludendo che “il puro mantenere mentalmente presente i vari pezzi e le varie relazioni non è perciò distintivo ed esclusivo del solo fare estetici e artistico” (pag. 71), sta trascurando almeno per il momento una considerazione fondamentale, ovvero che i rapporti ritmici vengono costituiti all’“interno” della “cosa”, che viene così “estetizzata”, mentre i rapporti strumentali sono costituiti all’“esterno” della “cosa”, che viene così “finalizzata”. Questi “esterno” ed “interno” sono chiaramente mentali, nulla impedisce infatti di passare da un atteggiamento all’altro, dal porre una situazione in chiave strumentale o in chiave estetica, oppure, di affrontare una certa situazione combinando più atteggiamenti per arricchirla con un dosaggio accurato di questi. Ad esempio, osservando un cavatappi in atteggiamento estetico posso porvi rapporti di simmetria o asimmetria; valutarne le proporzioni tra le parti in cui lo scompongo; posso costituirne il profilo ed operarvi una frammentazione ritmica; ecc. Se invece miro ad usarlo solo per stappare una bottiglia i rapporti che vado ad instaurare non riguardano più solo il cavatappi, ma questo e la bottiglia da stappare. Se poi vogliamo applicare l’atteggiamento estetico ai due oggetti in questione, per ben disporli nella vetrina di un’enoteca o per aprire la bottiglia con eleganza e abilità, come fanno i barman acrobatici, è di nuovo all’interno di questi nuovi contesti mentalmente costituiti che si organizzano i rapporti ritmici.
Con l’esempio della costruzione del muro, Marchetti trascura il fatto che l’atteggiamento estetico, costitutivo dei ritmi, non di rado è applicato anche in aggiunta ad attività svolte in atteggiamenti meno piacevoli. Aggiunto all’atteggiamento lavorativo, per esempio, esso può rendere l’attività stessa meno estraniante e faticosa. Si pensi a tal proposito a certi canti di lavoro analizzati, sulla scia delle ricerche dell’antropologo russo Plechanov, da Dario Fo, nel suo spettacolo del 1966-77, “Ci ragiono e canto” (9, 2006) e soprattutto nelle celebri lezioni di teatro del 1984, al Teatro Argentina, registrate in video e pubblicate più volte (Fo, 2006, pp. 42, 43-46, 47). Solo più avanti Marchetti recupera molte delle analisi già fatte da Ceccato, descrivendo i rapporti costitutivi dei vari atteggiamenti: da quello ludico a quello lavorativo, da quello tecnico a quello magico, dal religioso al mistico, ecc., sottolineando come soltanto nell’atteggiamento estetico, Marchetti (2007, p. 81): “le varie relazioni e i vari elementi sono riferiti l’uno all’altro, sono fini a sé stessi e non sono subordinati a nient’altro se non al loro reciproco rapportarsi”.
A questo punto pure Marchetti (2007) nota che anche gli scopi secondari rientrano sempre e comunque nell’attività estetica, sotto forma di quello che egli chiama “inquadramento” (p. 91). Ma ciò non costituisce una novità giacché lo stesso Gastone Zotto (1979) parlava di un “già fatto” (p. 31) mentale che è in grado di orientare e condizionare l’assunzione dell’atteggiamento estetico, e soprattutto Ceccato, a tal riguardo, recuperava opportunamente l’etimologia della parola “contemplazione”.
Ceccato (1987) ha scritto:
Un’osservazione che dovesse avvenire con una certa rapidità, non permetterebbe all’atteggiamento estetico di costituirsi, ed anche quando non trovasse un arresto, ci fosse cioè sempre del nuovo da guardare e da vedere, difficilmente avrebbe inizio l’atteggiamento. Di qui la “contemplazione” estetica, cioè l’orizzonte che si chiude, dal latino “templum” (greco “tèmno”, tagliare), e l’esteticità di un paesaggio naturale inquadrato, per esempio da una finestra. Né l’atteggiamento estetico si costituisce mentre sull’osservato si applica un altro atteggiamento, per esempio quello strumentale o economico. (…) Gli stati composti caratteristici dell’atteggiamento estetico sono certo numerosi ma sembra possibile isolare in essi la presenza costante dell’uno o dell’altro di due stati polari riconducibili ad un’unica attività. (p. 83)
Per definire l’“inquadramento” anche Marchetti (2007, p. 91) ricorre all’etimologia suddetta: “l’inquadramento permette di stabilire anzitempo le coordinate entro cui si svolgerà l’attività, isolandone e ritagliandone l’ambito (ricordo l’etimologia di “contemplare”, dal greco témnein, “tagliare”, “suddividere”)”.
In un bell’articolo di Ceccato sul rapporto tra arte e libertà egli rammenta come Stravinskij si sentisse molto più libero proprio quando nella commissione di un’opera gli venivano fissati precisi limiti da rispettare. L’articolo smonta il pregiudizio, duro a morire, che l’arte abbia un legame speciale con la libertà.
Ceccato (1978), mostra infatti che ogni azione può essere presentata come “libera” se: a) sia stata inserita in una alternativa; b) sia stata scelta in questa; c) sia stata vista compiuta. La libertà risulta dai due “potere”: quello della possibilità e quello della capacità; e presuppone una fantasia. L’inserimento nel quadro operativo di qualcosa di unico rende al contrario l’azione determinata, vincolata, condizionata, ecc.
Marchetti, del “modulo sommativo” critica il limite posto a tre elementi: U-U-R, (Marchetti, 2007, p. 70). Gli esempi da lui proposti del colonnato o del filare di alberi, rispetto ai cui elementi si può operare costituendo diversi raggruppamenti, sono derivati però spudoratamente dall’esempio, proposto spesso da Ceccato, delle file di punti che si possono variamente raggruppare (Ceccato, 1988, pp. 164-167).
Marchetti suggerisce anche di pensare ai temi musicali “che sono composti da ben più di due note” (Marchetti, 2007, p. 70), ma questo rasenta per me il ridicolo, può egli seriamente credere che il Ceccato musicista non se ne fosse mai accorto? L’amico von Glasersfeld ricorda che Ceccato “in poco tempo aveva composto un’opera (….) presentata con il titolo “Le maschere di Don Giovanni” (Glasersfeld, 1999, p. 17).
Il “modulo sommativo” del “ritmo” (U-U-R), e il “modulo sostitutivo” del “pensiero” (U-R-U), sono presentati da Ceccato con i loro elementi costitutivi, sottolineandone principalmente il differente e caratterizzante ordine d’ingresso temporale. Marchetti però confronta i due moduli concentrandosi su un aspetto secondario, il meno rilevante, ovvero, il numero degli elementi. Egli trascura il fatto che porre un rapporto significa sempre costituire almeno due pezzi da correlare, con un terzo pezzo correlatore; che il numero delle unità aumenta con l’aumentare delle correlazioni; che le “unità” sono soprattutto dei costrutti mentali, nella metrica, per esempio, l’unità più piccola del verso è costituita dalle sillabe (greco “syllabé”, da “syllambanein”= “prendere insieme”), ma si possono prendere come unità anche i singoli versi per rapportarli tra loro. Nella costituzione di un “ritmo” ogni unità che si aggiunge viene costituita sempre tenendo presente quelle già fatte, per esempio: un passo può dirsi “uguale” al precedente, o “diverso” da esso, solo dopo averli confrontati tra loro. Il risultato del rapporto posto, cioè in questo caso il ritmo, non può che seguire la costituzione delle due unità e l’introduzione del rapporto, ma nulla impedisce di poter cambiare oltre al rapporto stesso anche le singole unità. Si possono costituire così “ritmi regolari”, “ritmi semiregolari” o “ritmi irregolari”, analogamente a quel che accade con le “tassellature periodiche”, “semiperiodiche” e “non-periodiche”. Questo smonta la definizione comune del “ritmo” come “successione regolare nel tempo di qualcosa”.
In una frase come: “l’albero a destra / della finestra”, la “rima” verrà attenuata da chi non la trova affatto piacevole, oppure, accentuata da chi la ritiene essenziale nella versificazione. In assenza di parole che “rimano” tra loro si possono cercare “assonanze”, mentre è sempre possibile agire sugli “accenti”, creando contrasti con marcature “forti” e “deboli” .
Nella poesia la frammentazione in versi e l’invenzione di metafore mirano ad ostacolare la costituzione dei rapporti denotativi più comuni. Viene quindi valorizzato al massimo l’apporto individuale sia nella costituzione del ritmo che dei significati connotativi. In poesia il “ritmo” non è da confondere con gli schemi della “metrica”, è piuttosto il “principio organizzatore” del discorso poetico, al quale si assommano, i “valori sonori” ed i “valori semantici” delle parole che il poeta usa. La frase proposta, in una poesia o canzone, potrebbe apparire come segue:
L’albero a destra
della finestra
Nel “pensiero” le unità sono inserite tra i due correlati, ad esempio: “cani e gatti”; “mangiare i fagioli”; ecc.
La frase di prima: “L’albero a destra della finestra” si può analizzare come “pensiero”, con uno schema d’ispirazione topologica, scomponendola in una prima microtriade e articolandola poi in triadi e macrotriadi:
Fig. 3 – Il punto, • , sta per il “correlatore di mantenimento”, la più semplice delle categorie di rapporto, costituita da un passaggio attenzionale da “cosa” a “cosa”, senza apportare né interruzioni né articolazioni più complesse.
Alla “memoria” si riconducono diverse funzioni: dal mantenimento di presenza dei vari costrutti, alla loro condensazione e ripresa; il già fatto può indurre a certi sviluppi, e questo vuol dire che ne inibisce altri.
Marchetti (2007) sostiene che il “modulo sommativo” non rende conto della possibilità, riscontrabile nella storia dell’arte, di rompere le convenzioni invalse (pp. 69, 70).
Ceccato non ha mai affermato che il “modulo sommativo” costitutivo del ritmo, renda conto delle innovazioni dell’arte, ma il modello di Ceccato non è incapace di rendere conto delle innovazioni dell’arte. Ceccato ha scritto più volte in relazione al problema della “rottura degli stereotipi operativi”.
Per esempio, Ceccato (1975):
Ecco così la mia comprensione per un accompagnare cose divenute linguistiche con cose che non sono divenute linguistiche, e nei cui confronti il presentatore potrebbe anche lasciare incerta l’alternativa, di assumerle comunque come segni, cioè come qualcosa che rimandi ad altro, o proprio come semplici percepiti, dai quali non staccarsi: sì, si tratta sempre di operazioni nostre, e come tali nel fondo omogenee, componibili. Tuttavia noi all’opera d’arte chiediamo qualcosa di ben preciso, che ci sostenga in una frammentazione ritmica attenzionale dell’operare, e questo sostegno è ottenuto proprio a prezzo di un bel numero di rigide convenzioni, di regolarità invalse ed imposte attraverso la ripetizione, fra cui figurano gli accenti, arsi e tesi, cesure, l’andare a capo del verso, ecc. Anche la pittura e la musica hanno le loro, e con queste ci incatenano appunto alle frammentazioni e ai ritmi. Resterei così piuttosto guardingo di fronte ad un comporre che deliberatamente infrange un corpo di convenzioni tanto elaborato come quello linguistico ed in vista di una sollecitazione già tanto complessa come quella dell’opera poetica. Sicuramente si indebolisce la presa sul fruitore. E per ricostituire il patrimonio delle convenzioni occorrerebbe un lavoro molto lungo e di stretta collaborazione. (p. 151)
Marchetti (2007), sostiene d’aver trovato l’origine dell’errore insito nell’analisi operativa dell’estetico, fatta da Ceccato, nella descrizione in termini fisici del “mantenere presente” dell’attività correlazionale, con una
“effettiva coesistenza o presenza nello stesso tempo di più e diverse attività e cose.” ( p. 72)
Qui Marchetti mi sembra poco corretto. Ceccato ha criticato fin quasi all’esaurimento l’errore fisicalista, accusarlo proprio di esservi incorso è davvero ingiusto, soprattutto se viene fatto con tanta superficialità. Per smentire Marchetti basta leggere questa affermazione:
Ceccato (1975):
… quando il cibernetico ci racconta che con quattro elementi da lui prescelti e quattro regole per combinarli ed un po’ di numeri a caso egli ha fatto la macchina che “compone” musica, o poesia, o pittura, etc., non bisogna credergli. Egli ci sta ingannando e quasi certamente sta ingannando anche se stesso. (p. 147)
Ceccato (1959) descrive la sua ricerca nei termini di una “circolarità” il cui “meccanismo” è ottenuto “istituendo tre ordini di ricerca” con i relativi “passaggi fra questi”. Nel primo “le cose sono assunte come oggetti, cioè come qualcosa che ci è dato e che ci si trova di fronte (ob–jectus; Gegen–stand; ecc..)”. Nel secondo “le cose sono assunte come operazioni, cioè come qualcosa che si fa.”. Nel terzo, “le operazioni sono considerate come funzioni di organi, e questi sono individuati come osservati particolari, per esempio in parti del corpo umano.” (p. 72).
Una cosa è incidere il legno per ottenere delle “tacche”, un’altra è contare le “tacche”. Nel primo caso il legno viene modificato fisicamente, nel secondo caso le operazioni compiute non modificano il legno in alcun modo. Il primo ordine di operazioni è quello “trasformativo” l’altro è quello “costitutivo”.
Analogamente, un martello e l’incudine si possono localizzare spazialmente e categorizzare come “oggetti”, “strumenti”, “organi”, ecc. ma la “funzione” che si attribuisce loro non si può localizzare, essa si può solo attribuire a ciò che è localizzato, ed in questo caso si può indicare, a seconda dei rapporti, con un “battere”, con un “colpire” o un “picchiare”, ecc.
Con la localizzazione spaziale si costituisce l’ambito osservativo, quello delle situazioni fisiche, l’ambito mentale è invece quello costitutivo. Perché si possa parlare di qualcosa come di un “organo” occorre prima aver stabilito la “funzione” da attribuire alla cosa stessa, rendendola così un “organo” (in rapporto alla funzione stabilita). Quando parliamo di “corpo umano” pensiamo al complesso delle sue “membra”, mentre quando parliamo di “organismo umano” pensiamo allo stesso corpo suddiviso in più parti, che diventano “organi” per la funzione loro attribuita (la mancanza di un certo “organo” rende impossibile anche la “funzione” attribuita a quella parte dell’“organismo”). Al sistema nervoso centrale è assegnato il ruolo di “organo” la cui “funzione” è quella di rendere possibili le operazioni mentali stesse. L’attenzione, corrispettivo mentale dell’energia nervosa, si può applicare, attraverso il sistema nervoso periferico, al funzionamento fisico delle diverse parti del corpo, “organi”, rendendo tale funzionamento mentalmente presente.
Nella sua ricerca Ceccato ha stabilito, da subito, tre livelli operativi, ciascuno con precisi limiti, posti programmaticamente, alla analisi come alla sintesi. Nessuna nozione in essa presentata, a qualsiasi livello, poteva essere giudicata in sé “irriducibile”, o assoluta (es. per il muratore l’elemento primo può essere il mattone, ma non per chi fabbrica i mattoni).
La questione va posta in connessione anche col rifiuto di Ceccato del modello semantico di Vaccarino (Vaccarino, 1981, p. 13). Il sistema di Vaccarino ammette infatti la possibilità di una “attenzione interrotta”, mentre per Ceccato il contrario dell’attenzione attiva è sostanzialmente “l’encefalogramma piatto”. L’ipotesi di una “attenzione interrotta” può indurre a pensare, ma sbagliando, che si possa uscire dal meccanismo attenzionale. Tuttavia l’equivoco può e deve essere superato.
Ceccato (1972), infatti, afferma che:
Un modo di operare dell’attenzione consiste nel suo applicarsi al funzionamento di altri nostri organi, funzionamento che in tal modo viene non solo reso mentale, ma anche frammentato, spezzettato, secondo unità che vanno pressappoco dal decimo di secondo al secondo e mezzo. (p. 57)
Questo significa semplicemente che l’attenzione viene applicata ad un organo o all’altro, non che sia interrotta in senso stretto. D’altra parte Ceccato sostiene pure che le “categorie” vengono costituite con l’altro modo di operare dell’attenzione, quando essa viene applicata a se stessa (Ceccato, 1972, p. 57), e Vaccarino (2007) su questo punto segue fedelmente Ceccato:
I momenti attenzionali possono però prescindere dalla applicazione al funzionamento di qualche organo sensorio, cioè possono essere puri. In questo caso essi intervengono nella costituzione delle categorie, intendendo con questa parola i significati provenienti da operazioni mentali indipendenti dalla sfera osservativa. (p. 3)
Ma cosa vuol dire applicare l’attenzione a se stessa? Potrebbe sembrare un’espressione metaforica (analoga a quella della “retta che giace sul piano”?) ma a ben considerare non è così: con l’attenzione operiamo per costituire una certa cosa, possiamo quindi tenerla presente con l’ausilio della memoria mentre ne costituiamo una seconda. Costituite queste possiamo operarvi in almeno due modi, ovvero, o ponendole in certi rapporti tra loro (consecutivo) o analizzandole ciascuna per suo conto riconducendole agli elementi con cui sono state costituite (costitutivo).
Quando analizziamo le categorie consideriamo le cose come risultato di operazioni costitutive e quindi non abbiamo bisogno di ricorrere alla “sfera osservativa”, quel che di osservativo resta nel nostro operare (grafie, fonemi, ecc.) è accessorio, strumentale, non costitutivo. Questo significa che la nostra indagine esclude sia il primo ordine di ricerca (quello in cui le cose si assumono come dati, oggetti, ecc.) che il terzo ordine d’indagine (quello in cui le operazioni sono considerate funzioni di organi, individuati questi in base alle funzioni attribuite, per esempio, a certe parti del corpo umano).
Con questo voglio rispondere anche alla recente critica avanzata da Felice Accame (2016, p. 78): “che l’attività costitutiva non cambi “alcunché” potrebbe essere discutibile: – non cambia alcunché del proprio oggetto, ma se le assegniamo un organo che la esegue questo cambia eccome”.
L’osservazione sembra voler gettare un’ombra sulla distinzione posta da Ceccato tra il “mentale” (costitutivo) e il “fisico” (trasformativo), facendola apparire inadeguata. La critica è piuttosto strana. Accame sa bene che se riconduciamo un’operazione mentale ad un certo organo e al suo funzionamento l’ambito operativo non è più propriamente categoriale. Come avverte Ceccato (1988) un tipico errore filosofico è quello di nascondere il mentale nel fisico, per cui qualcuno può cercare la “volontà nei muscoli e la passività nei tendini”, o “il libero arbitrio […] nei bottoni sinaptici” (p. 160).
I Generi Artistici come Ritmi
Mi sembra importante ricordare ora alcune consapevolezze operative a proposito dei generi artistici, indicati con i termini: “poetico”, “lirico”, “drammatico”, “tragico”, “comico”. Nel “poetico” l’attenzione resta applicata nel costituire i vari momenti attenzionali (5-7 sec.), ottenendo quel senso di immobilismo, di arresto senza tempo. Nel costituire il rapporto semantico nell’ambito del poetico tendiamo a valorizzare sia il significante, con cui costituiamo un certo ritmo, una certa musicalità, sia il significato, ovvero il contenuto informativo, emotivo, ecc., costituito sul primo. Il senso di maggior pienezza del linguaggio poetico, rispetto a quello prosastico, deriva proprio da questo tenere attenzionale esteso su tutto. Per ottenere questo risultato è richiesto, a chi scrive e a chi legge, un maggiore sforzo mentale, perciò la forma poetica è caratterizzata solitamente da brevità.
Nel “lirico” l’attenzione costituisce delle unità minori, formate ciascuna da un paio di momenti attenzionali, unità che poi sono tenute insieme per costituirvi uno svolgimento caratterizzato da leggerezza. Nel costituire il senso del “drammatico”, l’attenzione rimane sospesa, non focalizzata, in riferimento a certi rapporti, nella costituzione dei primi momenti, generando quello stato psichico di attesa, tensione, che è tipico del genere.
Fig. 4
Nel costituire il senso del “tragico”, si opera al contrario di quello che si fa per costituire il senso del drammatico. Infatti, nel tragico l’attenzione si focalizza subito, nel costituire i primi momenti, in riferimento a certi rapporti. L’attenzione risulta così sollevata, liberata nel proseguo delle situazioni. Nel tragico cioè non si aspetta nulla, tutto è compiuto sin dall’inizio, la tensione del dramma è subito lasciata. Aristotele (Poetica, 1449b 25. 2015, p. 600), parlava in questi casi di “katharsis” (“purificazione”, stato psichico liberatorio, che fa ipotizzare una funzione curativa dell’arte). Nel “comico” l’attenzione opera con un dinamismo molto accelerato, rispetto alla norma, costituendo dei momenti attenzionali brevissimi, vengono in mente, come esempi, certe composizioni umoristiche di Mozart e le gag comiche Buster Keaton il cui ritmo è esaltato dalla musica di commento, in un serrato contrappunto visivo-sonoro.
Sul comico, voglio dire ancora alcune cose.
Nella drammaturgia (“Drammaturgo” da “drama” = “azione”, “scrittore di azioni”) per generare un effetto comico si elabora in forma esasperata una situazione anche comune, con l’obiettivo di produrre uno shock che risulti in modo chiaro, improvvisamente inoffensivo.
I comici, gli umoristi, giocano sui tempi, operano quindi in un ambito prettamente psichico. Essi sono abili nel generare delle attese, per disattenderle e sorprendere piacevolmente lo spettatore. Quest’ultimo passa quindi da uno stato di “stress” (dal francese “estrece”, “oppressione”, dal latino “strictus” = “stretto”), a uno “shock” (inglese “shock”, “colpo”, da “(to) shock”, “percuotere”), ma con uno scarto tra i due momenti che fa valutare in modo positivo il risultato. Il sollievo ricavato si traduce nella risata che esprime pubblicamente il piacere provato. L’energia nervosa si scarica contraendo il muscolo maggiore zigomatico “levator anguli oris”, insieme col muscolo dell’occhio detto “pars lateralis” .
Il genere tragico è stato giustificato moralmente e socialmente nobilitato, per la sua funzione purificatrice, catartica, che si traduce in un effetto positivo per la società. Al contrario, il genere comico è stato giudicato ignobile, per i suoi aspetti più esteriori, riducendone la valenza etica. Questa sorta di immoralità del comico, è tuttavia falsa. La catarsi comica è solo apparentemente un fatto personale: come ha sottolineato il filosofo francese, Nobel nel 1927, Henri Bergson, la risata è un’esperienza corale, di comunicazione, per questo si ride meglio quando siamo in compagnia (Bergson, 1990/2011, pp. 15-16).
Voglio far notare che le strutture sopra illustrate sono molto povere, sono cioè gli schemi costitutivi dei generi suddetti, che, sul piano consecutivo non s’incontrano mai così, nudi e crudi, ma vengono arricchiti da tanti elementi che in parte hanno già ricevuto un valore informativo e in parte lo assumono nel contesto, venendo subordinati alle esigenze espressive di questo.
Bibliografia
Accame, F. (2016). Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto. Milano: Mimesis Edizioni.
Aristotele (2004). Retorica e poetica. M. Zanatta (Ed.). Torino: UTET.
Bergson, H. (2011). Il riso. Saggio sul significato del comico. (F. Sossi, Trad.). Milano: Feltrinelli. (Opera originale pubblicata 1990).
Buonarroti, M. (1954). Rime. Milano: Rizzoli.
Ceccato, S. -(1959). Tappe nello studio dell’uomo. Dalla filosofia alla tecnica. Quaderni di Methodos, 1. Milano: Feltrinelli.
Ceccato, S. (1972). La Mente vista da un cibernetico. Torino: Eri.
Ceccato, S. (1975). Cibernetica per tutti (II ed.). Milano: Feltrinelli.
Ceccato, S. (1978, Dicembre 29). Esiste un rapporto tra arte e libertà? Corriere della Sera.
Ceccato, S. (1985). Ingegneria della felicità. Milano: Rizzoli.
Ceccato, S. (1987). La fabbrica del bello. Milano: Rizzoli.
Ceccato, S. (1988). Il perfetto filosofo. Bari: Laterza.
Fo, D. (2006). Ci ragiono e canto + DVD. Torino: Einaudi.
Fo, D. (2009). Manuale Minimo dell’attore. Torino: Einaudi.
Marchetti, G. (1997). La macchina estetica. Il percorso operativo nella costruzione dell’atteggiamento estetico. Milano: Franco Angeli.
Vaccarino, G. (1981). Analisi dei significati. Roma: Armando Editore.
Vaccarino, G. (2007). Prolegomeni. Dalle operazioni mentali alla semantica. Rimini: Edizioni CIDDO.
Von Glasersfeld, E. (1999). Studi in memoria di Silvio Ceccato. Quaderni di Methodologia, 7. Roma: Società Stampa Sportiva.
Willems, E. (1966). Il ritmo musicale. (P. Mengotti, Trad.). Torino: SEI. (Opera originale pubblicata 1954).
Zotto, G., Ceccato, S., & Porzionato, G. (1979). Dalla cibernetica all’arte musicale. Padova: Zanibon.
APPENDICE
Note sull’autore
Stefano Gambini
Docente di Arte e Immagine, studia da anni il lavoro di Silvio Ceccato, soprattutto in relazione alle questioni dell’estetica, dell’arte e della percezione. Ha conosciuto e frequentato Felice Accame, Pino Parini e Renzo Beltrame. Ha scritto alcuni contributi pubblicati sul sito “Methodologia” ed alcuni libri, nei quali ha cercato di sviluppare delle analisi coerenti con i presupposti della scuola operativa. Nei libri in questione l’autore ha dato vita ad una proficua collaborazione con l’artista contemporaneo Massimo Biagi.
- Traduzione a cura di Paola Monteroppi ↑
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