Elisabetta Petitbon è una Psicologa Psicoterapeuta che vive e lavora in Irlanda. Ha iniziato la sua carriera nel 2003 come ricercatrice in Psicologia in Italia. Si è trasferita in Irlanda nel 2007 per lavorare come Psicologa Clinica con bambini ed adolescenti per il servizio pubblico sanitario Irlandese, Health Services Executive (HSE). Lavora privatamente a Dublino come Psicoterapeuta in lingua inglese e italiana, offrendo anche valutazioni clinico/educative.
Elisabetta è Chair dell’Irish Constructivist Psychotherapy Association ICPA) e della Psychological Society of Ireland (PSI) (Membership, Qualifications e Registration Committee), è un membro del comitato esecutivo dell’Irish Council for Psychotherapy (ICP). Ha inoltre creato un gruppo di terapia per uomini con problemi nell’esprimere la rabbia in HESED House a Dublino.
Recentemente Elisabetta è impegnata politicamente con il Senato Irlandese e i gruppi che rappresentano gli Psicoterapeuti Irlandesi per portare la Psicoterapia ad essere riconosciuta secondo gli standard Europei, garantendo standard di professionalità ed etica.
Elisabetta Petitbon is a Psychologist and Psychotherapist that lives and works in Ireland. She started her career in 2003, as a Psychology researcher in Italy. She moved in Ireland in 2007 to work as Clinical Psychology with kids and teenagers for the Irish public health service, Health Services Executive (HSE). In Dublin, she works privately as Psychotherapist in English and Italian, and offers clinical/educationals evaluations.
Elisabetta is Chair of the Irish Constructivist Psychotherapy Association (ICPA) and of the Psychological Society of Ireland (PSI) (Membership, Qualifications and Registration Committee), she’s a member of the executive committee of the Irish Council for Psychotherapy (ICP). Furthermore, she created a group of therapy for men with problems with the expression of anger in HESED House in Dublin. Recently, Elisabetta is politically committed with the Irish Senate and the groups that represent the Irish Psichotherapists in order to let psychotherapy recognized according to European standards, and by ensuring professional and ethical standards.
Grazie Elisabetta per aver accettato con entusiasmo questa intervista. Volevamo intanto iniziare col chiederti quale è stato il tuo primo incontro con la Psicologia dei Costrutti Personali[1]?
Una mia amica, Marta Dal Pozzolo, che poi è diventata una delle mie colleghe di corso, quando fu il momento di scegliere la scuola di psicoterapia mi parlò di quella di Massimo Giliberto e del fatto che sarebbe andata all’Open Day per avere un po’ di informazioni. Decisi così di partecipare con lei a diverse giornate di questo tipo (open day): una, appunto, quella dell’Institute of Constructivist Psychology e l’altra di una scuola cognitivo-comportamentale a Verona. Non avevo un’idea precisa, anche se ero già orientata ad una scuola sistemica o ad una costruttivista, come poi alla fine succede alla maggior parte di noi costruttivisti, scegliendo quest’ultima sia per lo stile che per gli insegnanti. Ciò che mi ha aiutato molto in questo, è stato un commento della professoressa Passi Tognazzo. Un giorno, mentre ero disperata, le ho detto: “Sa, Dolores, fra tutte queste scuole, non so quale teoria mi piaccia di più” e lei, con tutta la sua tranquillità da psicoanalista “puro sangue” quale è, e mantenendo un’apertura da vera terapeuta, mi ha detto: “Sa, Elisabetta, alla fine le teorie sono teorie, sarà lei poi a fare la differenza”. Questa cosa mi ha tranquillizzato e sono andata verso quella che ho sentito potesse essere la strada e lo stile più vicino a quello che io sono. Così ho scelto l’ICP.
Con riferimento alla Teoria dei Costrutti Personali, cosa della teoria sentivi più di tutto in comunanza con l’Elisabetta che eri in quella tua fase di vita?
Sapevo davvero poco di costruttivismo all’epoca, ma la cosa che mi ha colpito da subito è stato il concetto di esperimento, ovvero il pensiero che ciascuno di noi fa al momento giusto la cosa che gli appare più giusta. In particolare il postulato fondamentale della teoria è stato di certo ciò che mi ha guidato di più. All’inizio non lo chiamavo “postulato fondamentale”, ma dalla partecipazione all’open day questo era ciò che avevo colto essere il cuore della teoria dei costrutti personali.
Noi sappiamo della tua esperienza nell’ambito dell’Anger Therapy in Irlanda, e ci chiediamo da dove arrivi questo tuo interesse e quale percorso, personale o professionale, ti abbia condotto verso l’esplorazione del tema della rabbia…
All’inizio, in preda alla disperazione, a Dublino mi sono inserita in qualsiasi cosa potesse darmi l’opportunità di crescere professionalmente. In quest’ottica, uno degli incontri più significativi per l’approfondimento di questo tema è stato quello con una psicoterapeuta dello Sri Lanka, Laksmy, con cui sono entrata in contatto grazie ai miei tutor di tirocinio. Questa terapeuta faceva all’epoca la facilitatrice per il MOVE (Man Overcoming Violence Emotion) e allora accanto a lei sono entrata a co-condurre il gruppo del martedì. Successivamente, ciò che mi ha portato a dedicare il mio tempo a questo tipo di interesse e attività è stato il fatto che si trattasse di qualcosa di nuovo: laddove la maggior parte degli interventi si ponevano come obiettivo quello di supportare le donne vittime di violenza, trovavo innovativo il fatto che questi interventi si basassero sul tentativo di interagire con il punto di vista degli uomini che usavano violenza. Con il tempo, poi, l’approfondimento di questo tema dal punto di vista della teoria dei costrutti personali mi ha posto nella condizione di cominciare a riflettere sul mio personale modo di vivere la rabbia. Mi sono così resa conto di come nel mio vissuto la rabbia sia stata per lungo tempo un’esperienza emotiva prevalentemente silente e vissuta come qualcosa di estremamente negativo, in quanto, se espressa, avrebbe significato la fine di una relazione. Lavorare in ottica PCP con gli uomini definiti “violenti” mi ha quindi aiutato anche a comprendere la mia rabbia che, non esprimendosi come violenza nei confronti degli altri, si sviluppava come violenza verso me stessa attraverso un certo uso del cibo o il fumare tremila sigarette.
In PCP si parla di Anger Therapy. Dal tuo punto di vista, quali sono le differenze o le somiglianze tra un percorso di Anger Therapy e un percorso di Anger Management?
La differenza è proprio quella a cui accennavo prima, cioè il fatto di considerare la rabbia come qualcosa di negativo. Da questo presupposto deriva una forma di intervento di cinque sessioni, mediante un protocollo tramite cui si porta la persona nella direzione di sviluppare competenze per gestire la rabbia prima ancora di comprenderla, ovvero di gestirla quasi per eliminarla dal proprio campo di esperienza, poiché è assolutissimamente negativa. Nella Anger Therapy, invece, ci si focalizza sulla considerazione per cui la rabbia è un’emozione, e che come tale ha tutta la sua dignità di esistere, e si invita a riflettere sul fatto che è ciò che noi scegliamo di fare con la rabbia che potrebbe metterci nei guai. Scegliere di usare la violenza come modalità personale di espressione della rabbia è, appunto, una scelta possibile che va al di là del vissuto emotivo o del “sentirsi arrabbiati”.
L’Anger Therapy è una terapia, dà l’idea di qualcosa che può avere un movimento, che è una scelta, che poi di nuovo mi riporta al grande “respiro” della PCP. Un’esperienza di questo tipo permette alla persona di andare nella direzione di un cambiamento nel proprio sistema di costrutti, mentre il focus dell’Anger Management sta nella gestione della rabbia come qualcosa che non passa, e che non passerà mai. Sinceramente ritengo che tali metodi non funzionano poi così tanto, dopo un po’, il protocollo non trova più applicazione nella vita di queste persone che, pertanto, si trovano a dover intraprendere dei ripetuti cicli di Anger Management.
Ci pare che nell’ambito della PCP l’Anger Therapy abbia maturato una buona prassi con un’utenza prevalentemente maschile; fra l’altro, come dicevi prima, questo è stata un po’ la novità nell’approccio alla violenza intesa anche come violenza di genere.
Come mai secondo te questa connotazione di genere? In che modo essa può essere utile e in che modo essa può andare a validare una certa regnanza e prelatività dei ruoli di genere?
In effetti, parlarne in questi termini inevitabilmente valida una certa regnanza, ma vedo che ogni singolo atto di questa società continua a costruire i generi in questo modo. Tendenzialmente i gruppi sono composti da uomini che agiscono violenza poiché le donne, sebbene anch’esse possano sceglierla come espressione della propria rabbia, probabilmente sono più abituate a parlare delle proprie emozioni, sono più facilitate nel condividerle, anche a livello amicale, e a parlare quotidianamente delle proprie esperienze e di quello che non va. Penso, però, che il focus sia sugli uomini perché, di fatto, è questo quello che succede. Mi permetto di ripetere di fatto perché le statistiche riportano in tutta Europa che le donne muoiono di atti violenti in relazioni intime ogni giorno.
Sempre a proposito di ruoli di genere, però questa volta guardando un po’ al terapeuta, in che modo pensi che il tuo essere donna possa aver favorito, o reso più complicato, il lavoro che hai fatto con gli uomini nell’ambito dell’Anger Therapy?
Ha favorito… Ha favorito perché porto un punto di vista altro a delle persone che hanno una grossissima difficoltà a costruire un punto di vista alternativo al proprio, soprattutto se si tratta della prospettiva femminile.
Rispetto a questa esperienza che hai fatto come Anger Therapist, come è cambiato il tuo modo di costruire la rabbia? Quale diresti oggi essere il tuo polo opposto di rabbia?
Se c’è un polo opposto di rabbia in questo momento è “pace”, ma forse pace è il polo opposto di molte cose in questo momento della mia vita… Però, questa esperienza mi ha aiutato a costruire il punto di vista di un uomo in estrema difficoltà, con poche risorse intellettive e sociali. E quindi, in qualche modo, mi ha aiutato a essere un po’ più… indulgente[2], mentre prima tendevo ad essere più giudicante.
È stato fatto un tentativo di portare un progetto di Anger Therapy anche a Padova, che tuttavia non ha avuto seguito; quali sono, secondo te, i fattori che potrebbero in qualche modo aver canalizzato un esito di questo tipo?
Il mio contributo ha riguardato esclusivamente la formazione dei terapeuti, mentre non mi sono occupata della costruzione del progetto sul territorio di Padova. L’idea che mi sono fatta a riguardo è che, ahimè, la società italiana è pure peggio di quella irlandese, quindi non si può toccare l’idea che l’uomo possa fare qualcosa di sbagliato e che ci possa essere un rimedio per questo. Di conseguenza medici, assistenti sociali e qualsiasi altra professionalità che entri in contatto con queste realtà non suggerisce un percorso del genere, tanto quanto probabilmente non suggerisce neanche una psicoterapia in generale. In Irlanda la realtà dell’Anger Therapy è più conosciuta per via di una pubblicità che viene fatta a tappeto. A Padova, purtroppo, non c’è stato supporto a livello politico, una presa in considerazione di questa opportunità particolarmente importante in questo ambito. Questo non ha favorito la possibilità di far conoscere il servizio e di promuovere un passaparola tra i professionisti.
Utilizzando questa domanda per restringere su quello che hai appena detto: secondo te, rispetto al vissuto della rabbia, quali sono le differenze tra l’Irlanda e l’Italia, oltre alle somiglianze di cui ci hai appena parlato? E se ci sono, come possono assumere importanza nei percorsi di Anger Therapy?
Mi sembra che, essendo la cultura italiana un po’ più “calda” di quella irlandese, più esplosiva ed espressiva, in Italia venga quasi giustificato un uomo che usa violenza, un uomo che per una volta, solo per una volta, tira uno schiaffo. Noto che in alcune occasioni, come ad esempio durante la campagna #MeToo, in Italia le stesse donne non si mostrino propense a una riflessione e, forse, ad una condanna della violenza maschile. Ciò che è accaduto sembrava andare più nella direzione di una responsabilizzazione della donna, considerata istigatrice e pertanto crocifissa in modo abominevole. Questo tipo di atteggiamento c’è anche qua in Irlanda, sebbene abbia notato che sia presente in misura minore. Forse era più presente trent’anni fa.
E in Irlanda, invece, che tipo di atteggiamento c’è?
Qua c’è un sistema sanitario e legislativo in cui, non essendoci possibilità e fondi per assicurare alle persone una terapia personale, vengono organizzati molti più gruppi. Quindi qualsiasi operatore sociale, se vuole che il proprio cliente possa vedere il suo bambino che è in custodia alla madre, ha una serie di possibilità da offrire. Tra queste, una è la partecipazione dell’uomo che usa violenza ai gruppi di Anger Therapy. Quindi, se è il professionista stesso a proporla e ad averla in mente come alternativa possibile, ecco che allora diventa più presente sul territorio.
Provando a mantenere un po’ questo esercizio di confronto e di costruzione delle differenze tra l’Italia e l’Irlanda, secondo te che cosa può insegnare l’esperienza della psicologia irlandese alla psicologia italiana e, viceversa, cosa può insegnare l’esperienza italiana?
Gli psicologi irlandesi non hanno assolutissimamente niente da insegnare agli psicologi italiani. La psicologia in Irlanda è una psicologia di 25 anni fa, è limitata e limitante, affetta da un narcisismo che cresce e pochissima possibilità di apertura. In qualche modo, gli psicologi irlandesi non si aprono, preferiscono confrontarsi solo tra di loro. L’Italia ha tantissimo da insegnare sotto il profilo dell’apertura, delle tecniche, del respiro delle teorie, del modo di presentarsi di uno psicologo italiano, che si differenzia da quello irlandese per l’accoglienza del dubbio, l’accoglienza dell’opinione, l’accoglienza delle differenze ecc. Spostandosi più sulla psicoterapia, gli psicoterapeuti irlandesi, che sono diversi dagli psicologi sia per training sia per costituzione e, probabilmente, per DNA, hanno più similarità con gli psicoterapeuti italiani.
Nel tuo percorso, oltre all’interesse per l’Anger Therapy, c’è stata anche un’esperienza di co-didattica che hai svolto in Italia presso l’Institute of Constructivist Psychology, che ti ha visto accompagnare il percorso di un gruppo di psicoterapeuti in formazione. Cosa ha significato per te?
La scuola per me è stata uno degli investimenti più belli che ho fatto nella mia vita, come studente e, di conseguenza, come co-didatta è stata la stessa cosa. È stata un’esperienza a volte difficile, perché la mia percezione era di avere davanti a me undici pazienti che, però, non erano pazienti. Mi potevo permettere qualcosa di più, e più velocemente soprattutto, rispetto a quello che avrei potuto fare con un paziente, lasciando però a loro il tempo di arrivare a determinate cose e, se ne avevano voglia, di risolverle. Io potevo solamente facilitarli. E quindi a volte era una sedia un pochettino… scomoda. A volte più comoda che con un paziente, a volte meno comoda. La cosa che mi ha dato sia preoccupazione che molta soddisfazione, è il fatto di avere avuto la responsabilità di affidare un paziente a loro senza pensarci due volte, col cuore. Quando sentivo di poter dire: “Sì, qualsiasi paziente a questa persona”, allora io mi sentivo bene.
Abbiamo toccato fino ad ora solo alcune aree della tua esperienza e alcuni tuoi interessi. Ci piacerebbe un po’ conoscere i progetti in cui sei coinvolta o le aree tematiche a cui ti stai interessando attualmente…
In questo momento mi sono un po’ spostata dalla ricerca sul campo, o dall’intervento sul campo, verso la politica. Molto del mio tempo e dei miei sforzi sono rivolti, da un lato a mantenere vivo il gruppo di costruttivisti irlandesi e dall’altro a fare in modo di collaborare col Senato, affinché la psicoterapia venga riconosciuta, con alti livelli di formazione, come qualcosa di diverso dal counseling (cosa che so che in Italia è già successa). È molto più un lavoro di rete con i politici, un essere presente su un network dove ci sia un dibattito, a volte spiacevole, a volte ignorante, dove però è importante che ci sia la voce di almeno uno psicoterapeuta, che non sia solo psicologo, che non sia un counselor. Questa è una cosa che ultimamente mi muove molto e a cui sto dedicando molto tempo.
Ritornando per un attimo alla Psicologia dei Costrutti Personali, entro quali ambiti clinici credi che questa possa favorire importanti cambiamenti?
I bambini… La PCP e i bambini… è meravigliosa, divertente sia dal punto di vista dei bambini, sia dal mio punto di vista quando lavoro con loro. Per una società chiusa e giudicante come, a volte, è quella irlandese, è un respiro meraviglioso. Ci sarebbe bisogno di più passione, più studi, più ricerche, più rivisitazioni anche di teorie vecchie, forse, con una narrativa più snella, e di conseguenza costruttivista, riguardo ai bambini.
Spesso, lavorando con loro, mi sono rivolta a quelli che sono i nostri testi di riferimento, non trovando già disponibile un approfondimento teorico in ambito evolutivo. E quindi, in questo senso, rimane l’ambito PCP in cui secondo me ci potrebbe essere maggiore sviluppo.
Ritornando invece all’impegno politico che stai esercitando in questo periodo e di cui ci parlavi prima, in che modo, se così è nella tua esperienza, la PCP ti sta dando una mano?
Mi dà sempre una mano, perché scopro sempre di più che quando ci sono diversi dialoghi, noi costruttivisti siamo quelli che, in qualche modo, mettiamo le cose a posto, almeno qua in Irlanda. Facciamo vedere i diversi punti di vista, e sovra-ordiniamo il tutto. Le persone non sono felici comunque, o vanno via un po’ più incazzate. Ma, in qualche modo, vanno via pensando che il loro punto di vista è stato rispettato sebbene, ahimè per loro, ce ne siano anche altri. Quindi vedo che sempre di più riusciamo a mediare. La PCP è una teoria della mediazione ottima, dal mio punto di vista.
Quindi, sintetizzando un po’, è il principio dell’alternativismo costruttivo quello che aiuta il tuo lavoro in questo momento…
Sì… Assolutamente…
Per concludere, forse un po’ nostalgicamente, ti chiediamo se c’è qualcosa che ti tiene ancora legata all’Italia…
Di positivo la scuola, sicuramente, che è diventata sempre di più e rimane per me un punto fisso; gli amici… Ahimè mia madre… Il prosecco.
Non so se vuoi aggiungere altro, se ti viene in mente qualche domanda che ritieni possa essere utile per la completezza di questa intervista… o qualcosa che vorresti dire tu, oltre alle domande che ti abbiamo fatto…
No. Una cosa che mi auguro è che ci disseminiamo e ci moltiplichiamo, in qualche modo. Perché il costruttivismo è bellissimo, e io spero che questa bellezza possa disseminarsi… Tant’è che un giorno, uno va in una città dove non si aspetta di incontrare nessuno in particolare, e trova un personaggio come voi! Non è male eh…
Grazie Betta, in bocca al lupo per tutto!
Grazie a voi.
Note
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