Tempo di lettura stimato: 32 minuti
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La costruzione del corpo al tempo
del COVID-19: una ricerca costruttivista

Body construction in the time of Covid: a PCP research

di

Elisa Cappellari e Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

La pandemia di Covid-19 ci ha messo di fronte ad un nuovo modo di costruire il mondo. Parole come lockdown, quarantena, distanziamento sociale, assembramenti hanno iniziato a permeare il nostro linguaggio, delineando una realtà a volte incomprensibile, altre volte spaventosa. Il corpo, in particolare, è diventato luogo di verifica delle più minacciose previsioni o, meglio, anticipazioni (Kelly, 1991) su di noi e sul nostro futuro, e talvolta il nostro campo percettivo si è esaurito nella preoccupazione per i nostri sintomi fisici. Nell’ottica di un superamento della dicotomia mente-corpo, con questa ricerca ci siamo chieste se, in questi anni e, in particolare, a seguito del lockdown, sia cambiata/stia cambiando la costruzione che le persone hanno del proprio corpo. Per fare ciò abbiamo utilizzato, entro la cornice della Psicologia dei Costrutti Personali, un’intervista semi strutturata, che abbiamo poi analizzato tramite tecniche di analisi testuale.

The Covid-19 pandemic has confronted us with a new way of building the world. Words like lockdown, quarantine, social distancing, gatherings have begun permeating our language, outlining a sometimes incomprehensible, other times frightening reality. The body, in particular, has become a place of validation of the most threatening predictions or, better, anticipations (Kelly, 1991) about us and our future, and sometimes our perceptive field has exhausted itself in the concern for our physical symptoms. With a view to overcoming the mind-body dichotomy, with this research we asked ourselves whether, in recent years and, in particular, following the lockdown, the construction people have of their bodies has changed/is changing. To do this we used, within the framework of Personal Construct Psychology, a semi-structured interview, which we then analyzed using textual analysis techniques.

Keywords:
Psicologia dei Costrutti Personali, COVID-19, costruzione del corpo, immagine corporea, dicotomia mente-corpo | Personal Construct Psychology, COVID-19, body construction, body image, mind-body dichotomy
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1. Introduzione

Dai primi mesi del 2020 la nostra vita è mutata: la pandemia scatenata dal nuovo coronavirus, “il Covid”, ci ha posto di fronte alla responsabilità di costruire un nuovo modo di vivere, senza chiederci se fossimo pronti ad un cambiamento. L’attenzione del mondo sanitario si è rivolta principalmente alle implicazioni mediche della pandemia, mentre quelle di natura psicologica sono state largamente trascurate, secondo l’implicito presupposto per cui “mente” e “corpo” sono entità separate e distinte. Con questa ricerca ci proponiamo di riflettere su una tematica che possa rappresentare l’unione tra questi domini di significato, ovvero se e come, durante la pandemia e, in particolare, a seguito del lockdown, cambi/sia cambiata/stia cambiando la costruzione che le persone hanno del proprio corpo.

La cornice di riferimento teorica all’interno della quale la ricerca si colloca è quella della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) di George Kelly (1991) che riteniamo un potente strumento per comprendere i significati personali attraverso i quali le persone costruiscono il mondo ed agiscono in esso.

Abbiamo scelto di utilizzare una modalità di raccolta dei dati che permettesse di accedere all’esperienza delle persone, ovvero l’intervista semi-strutturata, che abbiamo poi analizzato attraverso tecniche di analisi testuale. L’ipotesi che ha guidato la ricerca è che il modo in cui le persone vivono il proprio corpo sia cambiato anche a seguito delle limitazioni imposte nei mesi di marzo-maggio 2020. In particolare, ipotizziamo, in linea con Winter e Reed (2020), che le persone, nell’incontro con la pandemia, possano aver attraversato transizioni[1] di ansia, minaccia e colpa[2] e, nell’esperienza del lockdown, possano aver scelto di fare fronte a quelle stesse transizioni attraverso processi costrittivi[3] e di restringimento[4] in cui il corpo è diventato anche luogo di verifica delle più spaventose previsioni su di loro e sul loro futuro.

 

2. La pandemia

Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi riferiscono all’OMS la presenza di una strana polmonite che sta colpendo gli abitanti di Wuhan, città della Cina centrale che conta 11 milioni di abitanti. Dopo pochi giorni, il nuovo virus ha un nome: 2019-nCov (in seguito Sars–CoV–2). Una nuova parola entra nel nostro vocabolario: lockdown. Entro la fine di gennaio, infatti, Wuhan e la circostante provincia di Hubei diventano zone blindate, dove non è più possibile uscire di casa e la stragrande maggioranza dei servizi – tranne quelli essenziali – viene chiusa. L’Italia intanto osserva da lontano, fino a quando – a fine gennaio – arriva la notizia che due turisti cinesi in visita a Roma risultano positivi al coronavirus. Viene dichiarata l’emergenza sanitaria nazionale, ma è solo il 21 febbraio 2020 che il Covid diventa una realtà tangibile: a Codogno, in Lombardia, un uomo di 38 anni è il “paziente 1”. Dopo una serie di chiusure circoscritte, l’Italia arriva al vero e proprio lockdown nazionale il 9 marzo 2020. L’11 marzo l’OMS dichiara lo stato di pandemia. Inizia una fase fatta di limitazioni agli spostamenti, di chiusura di tutte le attività al di fuori di quelle ritenute “essenziali”, di divieto di raggiungere i propri cari o incontrare persone al di fuori del proprio nucleo familiare. È un nuovo modo di vivere fatto di lontananza, in cui le mascherine iniziano a sostituire i volti, nelle poche occasioni in cui è consentito muoversi. Lo spazio vitale diventa sempre più circoscritto, il lavoro in presenza viene fortemente limitato e si inizia a parlare con insistenza di smart working. È il momento delle videochiamate come forma di contatto, di amicizie, amori e aperitivi filtrati da uno schermo. Non è possibile fare visita agli ammalati in ospedale, né salutarli, né celebrare i funerali.

Le misure di contenimento vengono prorogate nel corso dei mesi, fino alla cosiddetta “fase due”: dal 18 maggio 2020 è possibile spostarsi, le attività riaprono e l’Italia torna a respirare. Mentre l’estate sembra trascorrere nella sensazione di aver controllato la pandemia, a ottobre si fa concreto lo spettro della “seconda ondata” e si affaccia la necessità di ripristinare le restrizioni. Nel mentre, si inizia a concretizzare la strada delle vaccinazioni. Al momento del completamento della ricerca, a maggio 2021, la situazione sembra in lento miglioramento, complice il procedere della campagna vaccinale.

 

3. La Psicologia dei Costrutti Personali

Come già accennato, la teoria di riferimento di questa ricerca è la Psicologia dei Costrutti Personali di George Kelly (1991). La sua formulazione si inserisce nella cornice del Costruttivismo, il cui assunto di base è che non ci muoviamo in un mondo di fatti oggettivi, bensì navighiamo fra le nostre personali interpretazioni della realtà. Osserviamo il mondo diventando parte del processo di costruzione dello stesso: la nostra conoscenza della realtà non può prescindere dall’esperienza che ne facciamo (ad esempio von Glasersfeld, 1995/2016).

Maturana e Varela (1987/1992) scrivono: “ogni azione è conoscenza, e ogni conoscenza è azione” (p. 45) e aggiungono: “ogni cosa detta è detta da qualcuno” (p. 46); non esistono dunque “fatti esterni”: è la struttura umana che rende possibile l’esperienza di ciò che “sta fuori”. La circolarità è la matrice della conoscenza, poiché proprio tramite quest’ultima ci rendiamo oggetto del nostro processo conoscitivo e ci interroghiamo su di esso (vedi anche Piaget, 1937/1984).

La PCP condivide l’assunto che la realtà non prescinda dall’osservatore e vede l’uomo come uno scienziato, costantemente impegnato a formulare ipotesi sul suo mondo, su se stesso e sugli altri, e a metterle alla prova attraverso il suo comportamento (Kelly, 1970). L’esperienza[5] è la chiave del processo di costruzione: essa fornisce infatti il feedback necessario a modificare le ipotesi che si rivelano poco utili per comprendere il mondo. Al cuore della teoria vi è una visione dell’uomo come creatore della propria realtà, in movimento su coordinate e direzioni che esso stesso delinea: “man creates his own ways of seeing the world in which he lives; the world does not create them for him” (Kelly, 1991, p. 9). L’altra importante implicazione di questa concezione è che, se la realtà non prescinde da come la interpretiamo, allora ci sono diversi modi per costruirla (il principio dell’“alternativismo costruttivo”[6]).

 

4. Il “corpo” in psicologia, nel costruttivismo kelliano e nella teoria dell’autopoiesi

Quando, in psicologia, ci troviamo di fronte al concetto di “corpo”, inevitabilmente ci imbattiamo nella questione del dualismo mente – corpo. La visione dominante li considera infatti come due entità separate, i cui fenomeni sono tutt’al più connessi da una relazione di tipo causa – effetto. Il classico esempio è quello del punto di vista di Freud (ad esempio 1979/2012), che vede il corpo come il luogo in cui vengono espressi conflitti psichici irrisolti. Un’alternativa al pensiero dualistico è il monismo ingenuo, presupposto delle teorie psicosomatiche (ad esempio Alexander, 1950/1951) che, pur proponendosi di ricondurre mente e corpo ad un’unica sostanza, rintracciano un nesso esplicativo tra i due domini (es. una gastrite è causata da uno stress psicologico), riproponendo quindi il dualismo precedentemente negato (Giliberto, 2014).

La PCP è piuttosto scarna quando si tratta di corpo. Questo è in parte dovuto al fatto che la teoria ha un impianto formale più che contenutistico: non propone una visione della realtà ma offre strumenti attraverso cui comprendere le visioni del mondo delle persone. Il “corpo”, entro questa teoria, non è considerato un oggetto presente nel mondo ma può essere visto come il frutto di una discriminazione, come un elemento nel campo di pertinenza[7] di un costrutto. Definiamo il costrutto come un atto conoscitivo che crea conoscenza attraverso una discriminazione (Kelly, 1991, p. 35): riconosciamo qualcosa quando ne cogliamo le caratteristiche e la differenziamo da qualcos’altro. I costrutti hanno natura dicotomica, si compongono di due poli opposti, in quanto discriminano contemporaneamente ciò che è simile e ciò che è diverso (ibidem, p. 42). I poli non si contrappongono per via logica, ma “personale”: prendono significato all’interno dell’esperienza di ciascuno. In questo senso, ad esempio, il “corpo” (umano) può essere un elemento all’interno del campo di pertinenza del costrutto cose presenti nel mondo vs cose presenti solo nella fantasia. “Corpo”, tuttavia può essere anche il polo di un costrutto ed opporsi, nell’esperienza di molti di noi, a “mente”. Considerare corpo e mente come poli di un costrutto o come elementi nel campo di pertinenza di un costrutto sovraordinato (Centomo & Del Rizzo, 2016), implica affermare anche che essi non sono due entità esistenti nella “realtà”, separate o connesse che siano (Giliberto, 2004). Poiché sono elementi distinti secondo specifici criteri, altri costrutti, il nostro compito è parlarne senza perdere di vista le operazioni implicate nella loro distinzione (Chiari & Nuzzo, 1988). Possiamo definire questo punto di vista come “monismo costruttivista” (Giliberto, 2004, p. 46).

Un passo ulteriore nel superamento del dualismo mente-corpo si compie integrando la prospettiva kelliana con la teoria dell’autopoiesi (Maturana & Varela, 1980).

Mente e corpo, all’interno di questa teoria, sono visti come domini fenomenici co-emergenti specificati dalle operazioni di distinzione operate da un osservatore.

“Co-emergenti” indica che qualsiasi cambiamento in un dominio corrisponde ad un cambiamento nell’altro, al di fuori di ogni ottica esplicativa. Un esempio molto concreto, come l’abbraccio, può chiarire cosa intendiamo. Parlando di un abbraccio in quanto gesto quotidiano ci riferiamo a dimensioni come vicinanza, amicizia, amore, mentre nel momento in cui rivolgiamo la nostra attenzione alle fasce muscolari che ci permettono di abbracciare una persona abbiamo a che fare con la natura, l’ordine e la forza delle contrazioni muscolari necessarie per realizzarlo. In nessun modo i parametri sull’allungamento del tricipite possono esserci d’aiuto nell’esplorare il significato relazionale dell’abbraccio o viceversa. Si tratta dunque di due domini di significato che, pur in una condizione di reciproca dipendenza, non sono collegati da alcun nesso causale. La relazione che si instaura fra di loro è di tipo circolare, o di “specificazione reciproca”: è possibile leggere i cambiamenti che avvengono in un dominio facendo riferimento anche ai cambiamenti strutturali che avvengono nell’altro (Maturana, 1987).

Da un punto di vista clinico, spesso osserviamo come profondi cambiamenti nella vita di una persona si accompagnino a importanti cambiamenti nel suo stato di salute e/o nei suoi ritmi sonno-veglia. Come è possibile costruire professionalmente da un punto di vista kelliano questa co-occorrenza? Partiamo da un caso concreto: immaginiamo una persona che, dopo essere stata licenziata, comincia a soffrire di insonnia. Cosa possiamo ipotizzare che le stia succedendo? In una prospettiva PCP possiamo descrivere questo evento dicendo che c’è un cambiamento nei suoi processi di mantenimento, cioè i processi vitali attraverso cui mantiene la sua esistenza e identità (Kelly, 1991, p. 356), e in cui rientrano i processi che regolano il ritmo sonno-veglia. Secondo la teoria, i processi di mantenimento sono governati dai costrutti nucleari, i costrutti che stanno al cuore del sistema. Quindi possiamo dire che osserviamo che un cambiamento a livello di processi di mantenimento – quelli che di solito cadono nel campo di pertinenza della medicina o della fisiologia – co-occorre con un cambiamento a livello di costrutti nucleari – quelli che collochiamo nel campo di pertinenza della psicologia (ibidem, p. 246). Nel caso in esempio, possiamo ipotizzare che questo cambiamento abbia a che fare con il passaggio dal costruirsi come lavoratore al vedersi come privo di lavoro, oppure senza un reddito vs con un reddito, oppure ancora rifiutato vs apprezzato. Nell’ottica della co-emergenza, un cambiamento nel sistema di costrutti della persona (il dominio della “mente”) corrisponde ad un cambiamento incarnato per la persona (il dominio del “corpo”).

 

5. Le reazioni psicologiche alla pandemia e al lockdown

Poiché il corpo ci appare come uno dei modi attraverso cui prende forma il nostro significare il mondo e noi stessi, ci siamo chieste se l’esperienza del lockdown e la pandemia abbiano modificato anche il modo in cui lo costruiamo e ci rapportiamo ad esso, e se sì in quali direzioni.

Secondo Treccani, lockdown significa “isolamento, chiusura, blocco d’emergenza”. Esso implica infatti “limitazioni”: lo spazio di movimento si restringe fino ad includere, nel peggiore dei casi, solo la propria casa. La chiusura di gran parte delle attività e l’adozione di politiche di smart working canalizzano infatti, in senso letterale, una modificazione dell’ambiente in cui fare esperienza. Il corpo diventa quindi prigioniero di luoghi monotoni, rinchiuso in una dimensione regnante (cioé che attribuisce i suoi elementi secondo la modalità tutto-nulla) che divide lo spazio in fuori vs dentro. Nel suo lavoro sull’esperienza della prigione, Giliberto (2004) costruisce la reclusione come un evento in cui le persone sono impegnate a mantenere la propria identità e a continuare a dare un senso al mondo in un contesto di costante costrizione. In carcere il corpo, parte del più ampio concetto del “sé in relazione”, sembra diventare il terreno su cui mantenere un minimo di anticipabilità, in una situazione in cui i riferimenti sono persi, assieme alle relazioni su cui in precedenza si costruiva l’esistenza. Mutilazioni, tatuaggi, il suicidio stesso, sembrano modi per sopravvivere all’impotenza e alla colpa. Come vedremo più avanti, ipotizziamo che, anche nel caso del lockdown, la costrizione del campo percettivo abbia avuto come implicazione una attenzione crescente per il proprio corpo.

Ipotizziamo anche che le limitazioni del lockdown possano aver favorito transizioni di ansia, minaccia e colpa, così come suggerito da Winter e Reed (2020) nella loro lettura delle reazioni psicologiche delle persone alla pandemia. Infatti, la chiusura legata al lockdown ha rappresentato una situazione inedita, di fronte alla quale alcune persone si possono essere trovate sprovviste di strumenti di anticipazione. Ma, assieme a questo vuoto di costruzione, ipotizziamo che la reclusione e le sue implicazioni abbiano potenziato la minaccia alla nostra salute che il Covid già di per sé rappresentava: le relazioni sono state messe a dura prova dall’impossibilità di frequentarsi in presenza, le disponibilità finanziarie personali potenzialmente danneggiate dalla sospensione delle attività economiche. Inoltre, il cambio repentino dei contesti relazionali, la mancanza della possibilità di stare assieme alle persone care e, per alcuni, l’impossibilità di lavorare possono aver favorito la perdita di alcuni ruoli e quindi la colpa.

 

6. Il corpo nell’era del Covid – una ricerca

 

6.1 La pandemia e il rapporto con il corpo in letteratura

Diverse ricerche hanno affrontato questa tematica. La gran parte si concentra sulla correlazione fra l’aumento dei disturbi del comportamento alimentare e vari aspetti della pandemia. È il caso, per citarne alcune, di Di Gesto e Cheli (2021), che sottolineano come la pandemia intensifichi abitudini alimentari disfunzionali e riduca significativamente i livelli di benessere; Pineda-García, Serrano-Medina, Ochoa-Ruíz e Martínez (2021) sostengono che ansia e insoddisfazione per l’immagine corporea influenzino il comportamento bulimico; Schneider et al. (2022), riportano un aumento di preoccupazioni su forma fisica e peso e un peggioramento dei disturbi alimentari, in linea con Rodgers et al. (2020) e Buckley, Hall, Lassemillante e Belski (2021) che estendono il campo di ricerca agli atleti. Schneider et al. (2022) rintracciano anche un aumento di comportamenti positivi, in alcuni casi, come diminuzione dei sintomi, più tempo dedicato al prendersi cura di sé e del proprio corpo. Un ampio studio condotto su una popolazione non patologica da Di Renzo et al. (2020) ha evidenziato la percezione di un incremento di peso nel 48.6% del campione, mentre per il 38.3% degli intervistati c’è stato un aumento dell’attività fisica, in particolare di esercizi a corpo libero. La ricerca, tuttavia, non indaga i motivi e i significati di questi cambiamenti. Robertson et al. (2021) hanno concluso che le donne, più frequentemente degli uomini, riferivano difficoltà nella regolazione dei pasti, preoccupazione per il cibo e la percezione di un peggioramento dell’immagine corporea.

 

6.2 Ipotesi di ricerca

Come già articolato, ipotizziamo:

1. che nelle interviste si possano riconoscere transizioni di ansia, minaccia e colpa, relativamente sia alla pandemia che al lockdown, in linea con quanto ipotizzato da Winter e Reed (2020);

2. che la costruzione e il rapporto che la maggior parte delle persone ha con il proprio corpo siano cambiati, anche a seguito della necessità di fare fronte a quelle stesse transizioni;

3. che alcuni cambiamenti siano leggibili come frutto di una costrizione, ovvero di una attenzione circoscritta al corpo, e di un restringimento finalizzato, in particolare, a verificare la presenza o meno di eventuali sintomi, per ristabilire un senso di anticipabilità di fronte alla minaccia del Covid-19, coerentemente con quanto ipotizzato da Giliberto (2014) relativamente all’esperienza del carcere.

 

6.3 La struttura dell’intervista

Per esplorare le direzioni del cambiamento ipotizzato, abbiamo costruito un’intervista semi-strutturata che permettesse alle persone di scegliere, sulla base del loro modo di dare senso alle domande iniziali, la direzione da imprimere alla conversazione. Abbiamo quindi utilizzato le risposte fornite per ridefinire il nostro campo di indagine attraverso le domande successive. Questa scelta, sebbene più complessa dal punto di vista dell’analisi, ci ha permesso di navigare nell’esperienza altrui lasciando che la mappa di questo viaggio venisse costruita di volta in volta dalla persona.

La sequenza delle domande comuni a tutti i partecipanti è la seguente:

1. Ricordi come hai vissuto la notizia dell’arrivo del virus in Italia?

2. Come hai vissuto l’introduzione delle misure restrittive? Nel corso di questo anno (da marzo 2020 a maggio 2021) è cambiato il tuo modo di viverle? Perché? Se sì, come?

3. Pensi che il rapporto con il tuo corpo sia cambiato nel corso di questo anno?

4. Se sì, in cosa/come?

5. Da cosa te ne sei accorto?

6. Come te lo spieghi?

7. Se invece pensi che non sia cambiato, come te lo spieghi?

Lo scopo delle prime due domande introduttive era quello di permetterci di comprendere come la persona avesse vissuto la pandemia in generale. La terza domanda invece introduce l’oggetto della ricerca e viene specificata dalle domande 4, 5 e 6. Implicitamente, queste domande indagano anche la costruzione personale di ciò che per l’intervistato è il “rapporto con il proprio corpo”. La sesta domanda intende rintracciare le teorie con cui ognuno dà senso agli eventuali cambiamenti. La settima mira ad approfondire l’eventualità che l’intervistato non percepisse alcun cambiamento, ritenendola parimenti interessante. Ulteriori domande di esplorazione e specificazione sono state formulate nel corso delle interviste per mantenere il flusso della conversazione e consentire agli intervistati di esprimere ampiamente i propri vissuti.

 

6.4 Criteri di analisi delle interviste

Per l’analisi testuale delle interviste abbiamo utilizzato la metodologia proposta da Kelly (1991, p. 239) per l’analisi dell’autocaratterizzazione[8]. Abbiamo infatti scelto di considerare le parole dell’intervistato come un’unità coerente dotata di un proprio significato, tenendo conto di come essa rimandasse a dimensioni di senso personali. Una metodologia simile è stata usata da Del Rizzo (2020) per analizzare gli scritti di Eva Kor, una sopravvissuta ad Auschwitz, da Reed et al. (2014) per analizzare l’autobiografia di Rudolf Hoess e da Winter e Tschudi (2015) per formulare la diagnosi transitiva di Anders Behring.

L’analisi in particolare si è concentrata su queste dimensioni:

a) l’analisi delle aree contestuali richiamate dal testo: come riportano Armezzani, Grimaldi e Pezzullo (2003), questa analisi è utile per evidenziare i “campi di interesse” della persona, ciò di cui ci parla;

b) la collazione dei termini e la ricerca degli equivalenti personali: con il primo concetto Kelly (1991) si riferisce alla ripetizione di una parola, ipotizzando che il ripeterla denoti una dimensione di significato particolarmente rilevante; gli equivalenti personali sono invece sinonimi, frasi, avverbi che “sembrano esprimere ripetutamente lo stesso costrutto” (Armezzani et al., 2003, p. 214) che quindi appare significativo;

c) l’analisi tematica delle relazioni causa-effetto: si tratta di rintracciare i nessi causali, anche quelli impliciti poiché siamo interessati a comprendere come la persona si spieghi ciò che le accade;

d) l’analisi delle dimensioni: si cercano somiglianze e opposizioni nel significato, rintracciando quelle dimensioni considerate simili/in contrasto, prestando attenzione anche a ciò che la persona implicitamente comunica.

 

6.5 I partecipanti

Abbiamo raccolto 14 interviste. I partecipanti, 6 maschi e 8 femmine, sono stati coinvolti tramite passaparola e non sono stati utilizzati particolari criteri di inclusione o esclusione. La loro età è compresa tra i 25 e i 63 anni. Le interviste sono state raccolte da una di noi, svolte vis-à-vis, registrate (previo consenso) ed in seguito trascritte.

 

6.6 Analisi delle interviste

Per quel che riguarda la prima ipotesi, ovvero il vissuto dell’arrivo del Covid e dell’introduzione delle misure restrittive, trasversalmente alle interviste ci è sembrato di cogliere un filone principale: quello dell’iniziale incomprensione della situazione, spesso accompagnata da una minimizzazione della sua gravità. A fronte della novità assoluta dell’evento e della sua non costruibilità, le persone sembrano aver inizialmente scelto di costringere, non andando oltre le informazioni proposte dai mass media. La dimensione della lontananza geografica sembra aver contribuito a tutto ciò. Racconta Giorgio, 34 anni: “prima sembrava un virus molto lontano, che non ci avrebbe toccato direttamente […] poi tutto d’un colpo il caso Vo’ ci ha toccati da vicino. […]”. Mentre Sofia, 32 anni, dice: “Non ho dato molto peso alla notizia… perché l’arrivo mi sembrava un qualcosa di ovvio e scontato data la velocità degli scambi commerciali… i flussi turistici… e tutti gli spostamenti del mondo globalizzato. Al tempo stesso non avevo capito la gravità e la portata della cosa, proprio a causa di una cattiva e sregolata informazione, e soprattutto della totale paralisi decisionale delle istituzioni […] E poi questa prima sensazione si è trasformata in una forte inquietudine, e vera paura, quando sono state accertate le prime vittime di Vò e Codogno […]. Mi sono resa conto che non solo il virus era giunto in penisola, ma che fosse proprio tra noi, nell’area che io considero casa”. Queste ultime parole ci permettono di ipotizzare che, quando il virus è diventato “di casa”, le persone si sono spesso trovate ad attraversare sia transizioni di ansia che di minaccia. Racconta Annamaria, 63 anni: “E poi non si capiva niente… come lo prendi, cosa succede se lo prendi, cosa ti fa, cosa non ti fa, come lo curi… ossigeno, robe”.

La dimensione della “non anticipabilità”, assieme a quella del “minimizzare” è presente in 10 interviste su 14, espressa anche attraverso l’uso di parole o frasi quali “sottovalutato”, “non ci avrebbe toccato”, “minimizzato”, “inconsapevole”, “pareva ‘na roba impossibile”, “non si capiva”. Ipotizziamo che la minimizzazione sia spia di un processo di costrizione rispetto alle implicazioni della pandemia, vissute come minacciose. Molti partecipanti pensano che la loro iniziale fatica a comprendere fosse causata dalla poca chiarezza della comunicazione istituzionale/televisiva, caratterizzata dalla non definizione o dalla definizione della situazione in modi spesso contrastanti, in termini PCP, lassi[9].

Ipotizziamo che, con il passare del tempo e il progredire della pandemia – e favorita dallo stile comunicativo adottato dai media – la minaccia sia cresciuta ulteriormente. Come si può evincere dalle parole di Sofia riportate più sopra, le implicazioni del contagio diventavano sempre più chiare e, fra di esse, l’idea della morte come possibile esito.

Per quel che riguarda l’introduzione delle misure restrittive, la totalità degli intervistati ha ritenuto inizialmente che fossero necessarie, 9 partecipanti raccontano però che il loro modo di viverle è cambiato nel tempo. Nelle loro interviste ci è sembrato di cogliere dei costrutti che potrebbero essere ricompresi in costruzioni sovraordinate come senza senso vs necessario e impotenza vs efficacia. Racconta Marta, 31 anni: “[…] sinceramente più passava il tempo più mi sentivo impotente: stai chiusa in casa, non vedi nessuno, rispetti tutto, fai quello che ti dicono e la situazione sembra un’altalena, anzi, a volte andava sempre peggio, dopo un anno di pandemia, contagi che aumentano… Allora ti chiedi <ma a cosa serve tutta ‘sta roba?> e non capisci più cosa puoi fare per cambiare le cose”. Mentre Annamaria sottolinea: “[…] comunque a ‘na certa ero proprio stufa, perché mi sono sentita come se stessi perdendo la vita… sai a ‘na certa età non sai neanche quanto vivi, e dici <Dio varda se ‘sti ultimi anni devo passarmeli così>, e chissà per quanto poi… ti pare di perdere tempo, anche perché non cambia niente, e adesso lo fai per abitudine e quasi non ci credi”. Questa costruzione sembra rimandare alla perdita della possibilità di anticipare e di agire efficacemente nel mondo, dimensione che nell’ambito di altri orientamenti teorici viene definita agency (Bandura, 1997), perdita che potremmo costruire come un processo caratterizzato da transizioni sia di ansia che di colpa. Queste partecipanti sembrano costruirsi infatti come impotenti a fronte di una precedente costruzione di efficacia. A riprova parziale di tale ipotesi consideriamo il fatto che gli intervistati che hanno condiviso questo vissuto lo hanno attribuito all’incapacità di comprendere cosa fare per “debellare” il virus e alla percezione che nulla stesse cambiando grazie ai dispositivi adottati.

Per quanto riguarda la seconda ipotesi, 11 intervistati su 14 hanno ritenuto che il loro rapporto con il corpo fosse cambiato durante la pandemia.

Al fine di testare la terza ipotesi, che prevedeva che alcuni cambiamenti fossero leggibili come frutto di una costrizione, ovvero di una attenzione circoscritta al corpo, e di un restringimento finalizzato, in particolare, a verificare la presenza o meno di eventuali sintomi, per ristabilire un senso di anticipabilità di fronte alla minaccia del Covid-19 ci è sembrato utile individuare delle macro-aree di significato che ci permettessero di sovraordinare rispetto alle tematiche personali implicate:

 

1. corpo come strumento di verifica della validità delle proprie anticipazioni. Per Giorgio: “Ho iniziato ad ascoltare il mio corpo veramente tanto, quasi in maniera maniacale, e questo mi ha portato in realtà ad avere più problemi che altro. Anche prima della pandemia conoscevo e ascoltavo le reazioni del mio corpo, in questo caso invece è quasi come uno stato continuo di apprensione”. La spiegazione che si dà è: “[…] il ritrovarmi rinchiuso in casa, con un taglio netto a tutta quella che era la mia libertà, mi ha trascinato in una specie di loop, dove è come se io parlavo con me stesso cercando di darmi forza, e sono costretto a parlare ed ascoltare me stesso. […] Quindi anche lì ogni sera chiuso in casa, sentendo un giorno un dolorino al costato, un giorno i battiti che salgono per un nervoso, un giorno magari l’allergia o la mascherina ti chiudono un po’ il naso, e allora si iniziava con termometro e poi pulsossimetro, e il tutto perché alla fine l’unica cosa sulla quale ci si poteva concentrare era se stessi!”. Marta racconta: “mi è rimasta la cosa di controllare il mio corpo. Non solo per il Covid, ma è diventata un’attenzione costante a come sto… i battiti del cuore, la testa pesante, formicolii, sensazioni… poi mi faccio le visite, e mi sembra di aggrapparmi a qualche certezza, a qualcosa di oggettivo in questo mare di caos”. Prosegue: “il corpo è stato tipo sotto attacco… secondo me mi sono sentita appesa ad un filo, tipo… davvero la mia vita è così fragile? E tutte le certezze di avere un corpo sano, comunque giovane, a cosa mi sono servite?”. Come avevamo ipotizzato, il corpo sembra divenire un luogo prediletto di restringimento e di verifica delle proprie anticipazioni, e costringere focalizzando la propria attenzione su di esso appare una strategia per fare fronte all’ansia ed alla minaccia.

 

2.corpo come possibilità. Per 4 partecipanti il lockdown sembra essere stato l’occasione in cui il corpo è diventato elemento importante del loro campo percettivo, ma in un’ottica di “possibilità”, attraverso una transizione che Kelly (1991, p. 374) definisce “aggressività”: l’elaborazione attiva del proprio campo percettivo, la propensione ad agire con lo scopo di verificare la validità delle proprie ipotesi. Sembra che la chiusura, nel loro caso, abbia aperto alla possibilità di sperimentare nuovi modi di vivere, conoscere e agire il proprio corpo. Ad esempio, Michele, 29 anni, racconta: “Diciamo che è aumentato il tempo a disposizione in cui mi ci sono ritrovato a pensare al mio corpo e sono diminuite le scuse e i pretesti per non dedicarci tempo […] Ho ripreso a fare cose che non facevo da molti anni, come a concedermi di considerare il mio corpo piuttosto che escluderlo, ed è iniziato come gioco […] Dedicarmi all’attività fisica mi ha fatto sentire bene… ma mi ha anche permesso di vedere ancora di più i limiti del mio corpo che tanto rifuggivo. Ma questa consapevolezza mi ha permesso di scegliere di dedicarmici, almeno in piccola parte […] La situazione lockdown, le limitazioni e le restrizioni sono state un’occasione per ragionare su cosa fosse superfluo e cosa fosse più essenziale. Ho rivisto le mie priorità, tra cui anche il rapporto con il corpo che in passato avevo evitato […]”. Mentre per Sofia: “ho iniziato ad apprezzare me stessa e a riconsiderare le mie priorità ed anche i miei valori. Ho raggiunto in poco tempo degli obiettivi di forma e peso che solo pochi mesi prima mi sembravano irraggiungibili […] Mi sono goduta l’estate… ho scoperto non solo una nuova fisicità ma anche nuove capacità, stimoli ed interessi”. Sembra che questo riordino delle priorità e questo vivere diversamente il corpo siano stati resi possibili proprio dalla natura delle misure restrittive. In altri termini, l’aver costretto il proprio campo percettivo sembra aver favorito, per alcune persone, il venir meno di una precedente costrizione rispetto al corpo e il restringimento rispetto alle loro abitudini alimentari e di allenamento. In questo modo, con aggressività, queste persone hanno risignificato l’esperienza di chiusura, validando la loro costruzione di sé come persone di valore, capaci, attive, superando le transizioni di ansia, minaccia e colpa. Dice Sara, 33 anni: “Le regole portano regole. Quindi alla fine mi sono reinventata il mio percorso di rinascita grazie al Covid che ci ha privato degli svaghi, di quelle situazioni di convivialità che fanno uscire dalle regole che ci impone la dieta”.

 

3. corpo come strumento di riconoscimento e mantenimento della propria identità attraverso il feedback degli altri. In 4 contributi ci è sembrato di cogliere che le misure restrittive abbiano in qualche modo ostacolato la ricerca, nello sguardo dell’altro, di validazioni rispetto alla propria adeguatezza sul piano fisico. Ascoltiamo Stefano, 38 anni: “non avendo un confronto se non con me stesso durante i mesi di restrizione, ho esagerato di più e compensato meno […] Credo che […] la cosa centrale sia questa, cioè che per me che vivo tutto come una performance quello che mi è mancata di più è stata la possibilità di esibire il mio corpo, di dover essere accettabile, gradevole. Di dovermi vestire bene per andare al lavoro o al teatro. Una motivazione sociale, insomma, per essere alla pari degli altri […] ho sempre cercato di curare la mia estetica anche tra quattro mura, ma non è la stessa cosa, perché per me il giudizio del pubblico è fondamentale per sentirmi accettato”. Sembra che per Stefano prendersi cura del proprio corpo abbia senso nella misura in cui c’è uno sguardo che ne sancisce l’adeguatezza, che il corpo sia per lui uno strumento attraverso cui sentirsi riconosciuti e accettati. Anche nelle parole di Giulia, 32 anni, sembra delinearsi la perdita di senso della cura del corpo, nel momento in cui questa non è sostenuta da una relazione: “E poi mi sono anche ingrassata, proprio non mi interessava più, quindi da quel punto di vista è strano, perché da un lato hai tutta l’attenzione sul male e non più sul benessere del corpo… io comunque non ho mai fatto tanto sport, ma adesso proprio non aveva senso, tanto non devi vedere nessuno, non ti devi mettere vestitini, uscire”. E anche Annamaria sembra avere un’opinione simile: “[…] e ti passa lo stimolo a fare tante cose… curarti, farti i capelli, tanto chi ti vede… nessuno, e allora a cosa serve. […] ti vedi solo tu e non ti vedono gli altri… nessuno ti fa un complimento o ‘na roba, magari, o anche il contrario, ma almeno ti dice qualcosa, e quindi sei sempre lì che ti controlli tu, e dici <varda che brutta>, ma ti vedi solo così… perché è importante che qualcuno ti veda, se no che senso ha, cioè per carità ha un senso perché uno dovrebbe pensare anche per sé, ma noi siamo animali sociali dicono, no?”. Marta collega questo sentire allo spostamento online di gran parte delle relazioni: “mi rendo conto che non guardo le altre persone ma guardo me, la mia immagine… per vedere se sono a posto. E penso che non sono così, e magari tanti che mi vedono solo online non sapranno mai qual è la mia ‘vera faccia’… non sono così brutta! È come se fosse diventato più difficile far capire chi sei”. Ipotizziamo che per queste persone il rapporto con il proprio corpo sia cambiato perché il corpo stesso ha perso la sua funzione di strumento attraverso cui ottenere validazione di dimensioni nucleari come adeguatezza, accettabilità, gradevolezza. Leggendo queste esperienze attraverso la lente della dispersione[10] della dipendenza, potremmo dire che queste persone disperdono completamente sugli altri il bisogno di sentirsi apprezzate e non attribuiscono a se stesse questo compito.

 

4.corpo come mezzo per esprimere i propri sentimenti. Per 2 persone, la mancanza di un contatto fisico con gli altri sembrava avere come esito l’impossibilità di esprimere appieno i propri sentimenti entro le relazioni significative. Lucia, 40 anni, ad esempio racconta: “forse è il fatto del non contatto fisico, ossia non baci/abbracci, […] anche questa è sicuramente una grande mancanza per la gente. Alla fine, penso che boh… ti serve per esprimere qualcosa… tipo abbracciarsi, e magari senza farlo è più difficile, devi trovare altre… altri modi di essere affettuoso…”. Ipotizziamo che in questo caso il corpo abbia perso il suo ruolo di veicolo di affetti e di vicinanza e che le persone abbiano potuto sperimentare un senso di perdita ed una transizione di colpa, venendo loro a mancare la possibilità di sentirsi accolti ed amati, e di percepirsi accoglienti e amorevoli, anche attraverso i gesti d’affetto.

 

5.corpo come veicolo di contagio. Francesca, 25 anni, dice: “mi ha fatto tanto strano vedere le persone che magari al supermercato così ti vedevano e tendevano ad allontanarsi da te quindi il tuo corpo, cioè tu, mah non è tanto il corpo, cioè tu come persona sei come ripugnante”. Ipotizziamo che costruire il corpo come veicolo di contagio possa aver favorito transizioni di colpa e vergogna[11], nel momento in cui le persone hanno scoperto di poter essere, ai propri occhi e a quelli altrui, dannose o pericolose per la salute, la vita e la morte, degli altri. È quello che sembra raccontare anche Annamaria: “avevo anche paura, ma anche poi di attaccarlo, pensa che colpa”. Mentre Giulia dice: “adesso ti controlli sempre. Perché hai paura di contagiarti… e di contagiare gli altri… e non sai cosa capita se succede, ma pensi al peggio”. Giulia sembra aver fatto fronte a questa sensazione attraverso costrizione e restringimento del legame fra i costrutti controllo-non controllo e non contagio-contagio.

 

Infine, per 3 intervistati il rapporto con il corpo sembra non essere cambiato. Francesca dice: “Col corpo… perché avrebbe dovuto cambiare? Non capisco proprio […] Per me non è cambiato niente, non essendo una persona fisica non mi è mancato toccare la gente, quelle cose lì. Non vederle certo, ma non per il corpo. […] Ma io non mi esprimo con il corpo, sarà per quello. Il corpo non è una cosa che sento di sfruttare”. Anche per gli altri due partecipanti sembra che il corpo fosse un’area poco esplorata già in precedenza. Danilo, 41 anni, ad esempio racconta: “No non è cambiato, cosa vuol dire? Mangio uguale, non mi sono mai mosso tanto, ma neanche prima, non è che mi interessa più di tanto come sono fisicamente, mai interessato… comunque sono fortunato che sono magro, ma non ci ho mai dato peso, non mi interessa perché non mi ha mai dato problemi il mio corpo […]”. Possiamo quindi ipotizzare che per alcune persone il corpo sia rimasto un’area di costrizione.

 

7. Conclusioni

Nei racconti delle persone che abbiamo intervistato ci sembra di aver individuato la presenza di esperienze riconducibili alle transizioni di ansia, minaccia e colpa che anche Winter e Reed (2020) hanno ipotizzato come possibili reazioni psicologiche alla pandemia ed al lockdown.

Come avevamo anticipato, per molte persone la costruzione del proprio corpo è cambiata nel corso del lockdown. Il cambiamento è andato nella direzione da noi prevista, ma anche in direzioni inaspettate. Per alcuni intervistati, infatti, il corpo pare essere diventato il “luogo” dove mettere a verifica le loro anticipazioni, in un processo di costrizione e restringimento che ha permesso di recuperare anticipabilità, facendo fronte così all’ansia ed alla minaccia favorite dal Covid-19. Non avevamo invece anticipato come per altri il corpo potesse rappresentare un’area di aggressività. Sembra infatti che, proprio grazie alla minaccia a cui il loro corpo e la loro intera esistenza sono stati sottoposti, alcune persone abbiano colto, in un’esperienza limite come il lockdown, l’opportunità per una ricostruzione della loro vita e del loro rapporto con se stesse. Karl Jaspers (1919/1950) introduce la locuzione “situazioni limite”, o Grenzsituationen, ad indicare quegli accadimenti come la morte, le malattie, la sofferenza e le difficoltà che nella loro inevitabilità ci mettono di fronte alla finitezza della vita e il cui superamento può servire ad avvicinarsi ad una comprensione del significato della vita stessa, nel senso di “Existenz”, esistenza. Anche Yalom (1989/1990, 2008/2017) argomenta come la vicinanza con la morte e con ciò che la evoca possano costituire un’“esperienza di risveglio, un catalizzatore profondamente utile per cambiamenti importanti nella nostra esistenza” (ibidem, p. 35).

In un altro ambito teorico, si potrebbe costruire questo processo come “resiliente”, considerando la resilienza come “un processo dinamico che comprende un adattamento positivo in un contesto di significativa avversità”[12] (Luthar, Cicchetti, & Becker, 2000, p. 543, tda).

Ipotizziamo inoltre che possa essere stata parte sia di un processo costrittivo che di un movimento aggressivo anche la scelta di chi, nella presenza di regole “esterne” finalizzate a ridurre le possibilità di sperimentazione anche sociale, ha colto l’opportunità di costruire in modo più stretto il proprio rapporto con l’alimentazione o l’attività fisica.

L’evidenza, molto presente nella letteratura di riferimento, relativa ad una maggiore attenzione all’aspetto e alla forma fisica, appare però solo parzialmente confermata. L’attenzione al corpo è “rinata” in alcuni intervistati, come già argomentato, mentre per altri la cura del proprio aspetto ha perso di senso in assenza della conferma e della validazione fornite dallo sguardo altrui. La costruzione di queste persone del corpo come “strumento utile per ottenere validazione” è cambiata nel senso che è stata temporaneamente sospesa[13], poiché è venuto a mancare il contesto in cui poterlo utilizzare a tal fine.

Ipotizziamo che, alla base della scelta di alcune persone di operare un restringimento, in termini di adesione a diete o programmi di esercizio fisico, vi sia la ricerca di un ruolo attivo in una situazione che di molto limitava le possibilità di azione, e di ricerca di anticipabilità in un contesto di imprevedibilità e caos. Crediamo infatti che sperimentare un senso di padronanza sugli eventi, anche attraverso i buoni risultati di una dieta, di fronte all’ansia generata da una situazione come la pandemia di Covid-19, possa essere servito a mantenere un’area di costruibilità, un’area in cui sentire di poter giocare un ruolo, in analogia a quanto sostenuto da Giliberto (1998, 2004) nel caso del carcere.

 

8. Limiti e possibilità

Il numero limitato di interviste raccolte è senza dubbio il primo limite di questa ricerca, così come il range di età dei partecipanti. Un maggiore approfondimento dovrebbe senza dubbio rivolgersi ad una fascia di età più ampia. Un ampliamento di questa ricerca potrebbe inoltre riguardare le implicazioni a lungo termine dei cambiamenti avvenuti. Un’ulteriore area di interesse potrebbe coinvolgere i vissuti delle persone che sono state portatrici del virus, o addirittura coloro i quali sono stati veicolo di contagio.

Sappiamo che le esperienze da noi raccolte nel corso di queste interviste ci hanno permesso di riflettere sulla complessità delle costruzioni legate al corpo che le persone sono in grado di verbalizzare riflettendo sulla propria esperienza, sulle proprie sensazioni, sui propri processi. Siamo consapevoli che questo è solo un frammento dell’esperienza effettivamente vissuta nel corso del lockdown e più in generale della pandemia e che molti processi si sono svolti ad un livello molto basso di consapevolezza cognitiva e coinvolgendo costrutti non verbali.

 

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Sitografia:

Lockdown in Vocabolario, Treccani, 2021

https://www.treccani.it/vocabolario/lockdown_%28Neologismi%29/

 

Note sulle autrici

 

Elisa Cappellari

Institute of Constructivist Psychology

info@elisacappellari.it

Psicologa psicoterapeuta e codidatta presso l’Institute of Constructivist Psychology (PD). Si occupa prevalentemente di attività clinica, affiancandola alla formazione e alla psicologia del lavoro, trovando uno spazio per il canto, la musica e la creatività.

 

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

delrizzo.francesca@gmail.com, contatto@francescadelrizzo.it

Psicologa psicoterapeuta e didatta dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si occupa di psicoterapia e didattica della psicoterapia, supervisione clinica, psicologia dello sport e di psicoterapia e outdoor training a mezzo del cavallo.

 

Note:

  1. La PCP non utilizza il costrutto teorico di “emozione”. Ansia, minaccia, colpa, ostilità, paura ed aggressività sono un tipo particolare di costrutti: costrutti che evidenziano alcuni aspetti di un sistema di costruzione in cambiamento (Kelly, 1991; Bannister e Fransella, 1971/1986).
  2. L’ansia è la consapevolezza che non abbiamo costrutti precisi per affrontare ciò che ci sta accadendo, la minaccia è la consapevolezza che il nostro sistema sta per cambiare in modo importante, la colpa è la sensazione di non essere più le persone che credevamo di essere (Kelly, 1991, p. 359).
  3. La costrizione è il processo grazie al quale limitiamo l’ampiezza del nostro campo percettivo (Kelly, 1991, p. 352) riducendo il numero e la varietà degli eventi cui prestiamo attenzione.
  4. Il restringimento è un processo grazie al quale rendiamo invariabili le anticipazioni legate ad un costrutto (Kelly, 1991, p. 357).
  5. Il corollario dell’esperienza recita: “Il sistema di costruzione di una persona varia a mano a mano che essa costruisce la replica degli event”i (Bannister & Fransella, 1971/1986, p. 35).
  6. L’alternativismo costruttivo è l’assunto filosofico alla base della PCP e consiste nell’affermazione che: “di qualsiasi natura possa essere, o in qualsiasi modo risulti alla fine la ricerca della verità, gli eventi che affrontiamo oggi sono soggetti a tanto numerose costruzioni quanto la nostra intelligenza ci permette di concepire” (Kelly, 1970).
  7. Il campo di pertinenza di un costrutto comprende tutte quelle cose alle quali l’utente potrebbe trovare utile la sua applicazione (Kelly, 1955, in Epting, 1984, p. 46).
  8. L’autocaratterizzazione (Kelly, 1991) è una tecnica d’indagine che consiste nell’invito alla persona a raccontarci di sé attraverso la scrittura, in terza persona, come se fosse la protagonista di un racconto, e come se a scrivere fosse un amico che la conosce intimamente. Il suo scopo non è la ricerca di oggettività, bensì esplorare i significati personali.
  9. I costrutti si dicono lassi quando conducono a previsioni variabili (Kelly, 1991, p. 357), pur mantenendo una loro identità.
  10. La PCP ipotizza che le persone siano tutte “dipendenti” da qualcosa e da qualcuno: adulti e bambini hanno molti bisogni che devono essere soddisfatti affinché le loro vite siano soddisfacenti. Ciò che diversifica i bambini dagli adulti e gli adulti fra di loro, è il numero delle risorse cui fanno riferimento per vedere soddisfatti i loro bisogni. Differiscono quindi per il grado di dispersione delle loro dipendenze (Kelly, 1991, pp. 249-250).
  11. La vergogna è una transizione originariamente non proposta da Kelly ma introdotta in seguito da McCoy (1979). Si tratta della consapevolezza di non essere più, agli occhi degli altri, il tipo di persona che pensavano fossimo (p. 113).
  12. “A dynamic process encompassing positive adaptation within the context of significant adversity.”
  13. Una struttura di significato viene sospesa quando in quel momento è incompatibile con il sistema più generale che la persona sta utilizzando (Kelly, 1991, p. 349).