1. Premessa: un lungo viaggio
Prima di addentrarmi nella trattazione dell’argomento di questo contributo ritengo importante fare un accenno a quello che è stato il mio percorso nell’ambito della Disforia di Genere[1]. Il viaggio è iniziato quasi venti anni addietro, prendendo le mosse dall’incontro con uno specifico capitolo di Salvini (2002) in cui venivano affrontati alcuni degli aspetti relativi al transessualismo. In particolare, venivano analizzati i travagli psicologici che precedono e accompagnano il cambiamento di genere, considerando la rappresentazione di sé quale punto di cerniera attorno al quale ruotano il sentimento di valore personale e la risposta alla domanda “chi sono io?”, viva in coloro che sperimentano un’identità precaria.
Le pagine dedicate alla trattazione gettavano luce su un fenomeno la cui origine resta ancora oggi in parte ignota e trovavano addentellati con i miei interrogativi circa la costruzione e il mantenimento del senso d’identità. All’epoca il transessualismo rappresentava, peraltro, un fenomeno di nicchia di cui pochi si occupavano. Il suo restare ai margini dell’interesse dei più ai miei occhi costituiva un’opportunità per ritagliare uno spazio di “riconoscibilità” professionale, senza tuttavia disporre di riferimenti su come impostare un possibile percorso terapeutico. All’interno di questo contesto insieme incerto e vago è partita l’avventura di esplorazione del mondo associazionistico LGBT e di tessitura di una sempre più fitta rete di conoscenze professionali – ed umane – che hanno consentito a me e agli altri colleghi di studio d’iniziare a percorrere un cammino ricco di fascino e insidie: il lavoro clinico con le persone transessuali.
Ciò ha comportato da un lato l’interrogarmi sulla mia collocazione rispetto a quanto già in essere nel panorama nazionale ed internazionale, dall’altro il riflettere sulle premesse e le implicazioni del mio agire al fine di ritagliare una prassi d’intervento ancorata a solide basi teoriche. In tal senso, sin dalle prime battute ho colto l’importanza di assumere una prospettiva che muovesse da presupposti fenomenologici ed ermeneutici, nella convinzione che il disagio rispetto all’appartenenza di genere necessitasse di una comprensione delle ragioni del malessere più che una spiegazione delle cause. Non si trattava, quindi, di procedere ad un mero inquadramento nosografico, ma di ricostruire il modo in cui le persone costruivano se stesse, gli altri e il mondo (Salvini, 1998). Nondimeno, ho constatato che alla luce degli strumenti di cui disponevo all’epoca l’intervento si limitava ad essere uno spazio di raccolta degli elementi biografici che precorrevano e/o avallavano la percezione di una non corrispondenza di genere e di accompagnamento all’elaborazione delle criticità connesse alle varie fasi dell’iter di transizione[2]. Il che – dal mio punto di vista – avvicinava il lavoro con le persone transessuali più ad una consulenza, che non ad una psicoterapia.
Quello che potevo fare in quel momento era aiutare la persona a districarsi negli ostacoli incontrati lungo il cammino di una massiccia trasformazione fisica e sociale. Ora potrei dire che stavo colludendo con una certa costruzione del disagio, senza peraltro averne la piena consapevolezza. I miei dubbi erano grandi, ma trovavo difficile intravedere un’alternativa percorribile. Mi sentivo in empasse. Dopo l’incontro con il costruttivismo ho, invece, potuto scorgere un diverso orizzonte di lavoro e gettare le basi di una prassi d’intervento che considero a pieno titolo terapeutica. Di pari passo, ho maturato la decisione di occuparmi prevalentemente di adolescenti e giovani che lamentano un disagio legato al genere di appartenenza. Ciò, in quanto a differenza degli adulti – che appaiono solitamente refrattari nel mettersi in gioco e nel “sospendere” determinate certezze identitarie – i ragazzi presentano un’identità ancora abbastanza fluida ed aperta all’esplorazione di sé, sia fuori che dentro la stanza di terapia.
Di questo lungo percorso di ricerca, scoperta e revisione cercherò di trarre le mie attuali e temporanee somme nel corso del presente articolo. In particolare, dedicherò spazio all’esperienza terapeutica con tre delle adolescenti da me seguite, cercando di leggere quanto emerso nel corso dei nostri incontri attraverso gli strumenti della PCP[3], in modo da procedere ad una lettura sovraordinata del disagio, anche in relazione alla costruzione del problema, della terapia e del cambiamento. Il contributo innovativo che a mio avviso può portare una lettura costruttivista del fenomeno riguarda l’attenzione data non ai sintomi in vista della diagnosi nosografica, ma al mondo delle adolescenti, a ciò in cui sono fondamentalmente impegnate e alle direzioni di movimento all’interno del sistema di costruzione (Kelly, 1991, p. 153).
2. Introduzione: una sintetica rassegna della letteratura sull’argomento
Come già anticipato, il presente contributo prende le mosse da considerazioni e ipotesi elaborate a partire dalla richiesta di psicoterapia di tre ragazze adolescenti che ravvisano un disagio rispetto al genere di appartenenza. Di questa fascia d’età gli studiosi del panorama nazionale hanno cominciato ad occuparsi solo in tempi recenti. Fino a qualche anno addietro, le riflessioni in materia erano infatti rimaste confinate agli adulti (Salvini, 2002; Di Ceglie, 2003; Macoratti, 2005; Luciani, Fasola & Inghilleri, 2007; Ruspini & Inghilleri, 2008; Salvini, Faccio & Dondoni, 2011). Il fiorire di pubblicazioni dedicate alla trattazione della Disforia di Genere in età evolutiva lascia, pertanto, ipotizzare un verosimile incremento della domanda d’intervento psicologico da parte di minori e genitori.
Volendo tentare una sintetica rassegna del tipo di tematiche ad oggi affrontate, gli aspetti trasversali alle più aggiornate divulgazioni da me prese in esame (Dèttore, Ristori & Antonelli, 2015; Rigobello & Gamba, 2016) riguardano i punti di seguito sinteticamente elencati.
- L’esplicitazione degli attuali criteri diagnostici distintivi della Disforia di Genere secondo il DSM-5 (APA, 2014).
- Le evoluzioni e rivisitazioni della criteriologia inerente alla classificazione nosografica del disagio rispetto all’appartenenza di genere a partire dall’originaria diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere (APA, 1983) del DSM-III[4].
- La diagnosi differenziale rispetto a: anticonformismo nei riguardi del comportamento stereotipico del ruolo sessuale (profonda alterazione del senso d’identità riferito all’essere maschio o femmina – APA, 2014), condizioni di intersessualità per le quali viene posta una diagnosi di Disturbo della Differenziazione Sessuale (es. Sindrome di Turner, Sindrome adrenogenitale, ermafroditismo, Sindrome di Klinefelter), Transgenderismo (in cui viene ricercata un’integrazione degli aspetti maschili e femminili in sintonia con uno stile androgino), Feticismo di Travestimento (in cui l’indossare abiti del sesso opposto procura eccitamento sessuale – APA, 2014), Disturbo da Dismorfismo Corporeo (in cui viene percepita una grave preoccupazione per un supposto difetto dell’aspetto fisico – APA, 2014), disturbi dello spettro psicotico e Schizofrenia (in cui sono presenti deliri di appartenenza al sesso opposto[5] – APA, 2014).
- Le teorie eziologiche sul ruolo svolto dagli aspetti genetici e dagli ormoni nella differenziazione sessuale del cervello.
- L’identificazione dei fattori biologici, psicologici e sociali implicati nello sviluppo dell’identità di genere.
- Le caratteristiche dell’assessment psicologico finalizzato all’inquadramento diagnostico e alla pianificazione dell’intervento, in particolare per ciò che concerne l’importanza di indagare aree quali: a) lo sviluppo psicosessuale; b) i contesti sociali di appartenenza onde verificare la presenza o meno di supporto, conflittualità o maltrattamento; c) il funzionamento psichico generale e l’esistenza di specifici problemi (es. ansia, idee suicidarie, autolesionismo, condotte sessuali a
- rischio, abuso di sostanze, abbandono scolastico, ecc.); d) la sussistenza di stereotipi individuali e/o familiari riguardo alla Disforia di Genere.
- Le indicazioni in merito all’impiego di strumenti testistici ad hoc e metodi d’indagine diversificati[6].
- Le linee guida e i protocolli nazionali d’intervento per l’iter di adeguamento[7] proposti dall’ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere) ed inspirati agli standards of care del WPATH (World Professional Association for Transgender Health) e dell’APA rispetto alla presa in carico dei minori e delle loro famiglie.
- Le prospettive di trattamento in ambito endocrinologico e chirurgico, soprattutto per ciò che concerne: a) la soppressione dello sviluppo puberale allo scopo di prevenire in modo reversibile la comparsa dei caratteri sessuali secondari, almeno fino al raggiungimento di un’età che consenta di decidere con sufficiente consapevolezza in merito al percorso di riassegnazione di sesso; b) la terapia ormonale cross-sex parzialmente reversibile e finalizzata a promuovere lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari a partire dai 16 anni; c) la riconversione chirurgica dopo il compimento della maggiore età e l’attuazione di un anno di esperienza di real-life[8].
- I riferimenti rispetto alle modalità trattamentali sul fronte psicologico e psicoterapico, con annessa sottolineatura dell’opportunità di assicurare un affiancamento rispetto all’evoluzione della Disforia di Genere (es. attraverso la psico-educazione, il lavoro sulle emozioni, l’intervento sulle distorsioni cognitive, il training assertivo, ecc.) e all’avvio dell’eventuale percorso di transizione, in sinergia e coordinamento con altri specialisti del settore, allo scopo di sostenere l’adolescente nelle difficoltà incontrate sul fronte familiare e sociale.
- I percorsi di sostegno psicologico rivolti ai genitori/familiari in relazione al ruolo esercitato ai fini della salvaguardia dello sviluppo e del benessere dei figli, principalmente per ciò che concerne l’accettazione o il rifiuto della loro non conformità di genere.
In sintesi, l’impressione d’insieme è che gli sforzi siano convogliati nel tentativo di discriminare la “vera” Disforia di Genere da altre condizioni psicopatologiche. Una volta raggiunta la certezza diagnostica, essa rappresenta il punto di partenza per la presa in carico finalizzata alla riduzione della sintomatologia, anche in virtù delle valutazioni circa la sussistenza dei cosiddetti criteri di eleggibilità al trattamento[9]. Poco o nulla viene ipotizzato circa il processo, affatto scontato, attraverso il quale gli adolescenti giungono a sperimentare un malessere che loro stessi – in primis – identificano come disturbo relativo al genere di appartenenza.
Non solo. A ben vedere, il panorama italiano appare povero di proposte terapeutiche diverse da quelle che afferiscono all’approccio cognitivo-comportamentale[10], quanto meno volendo restare nel perimetro della fascia d’età adolescenziale. In tal senso, la sfida costruttivista risiede nel tentativo di suggerire chiavi di lettura ed ipotesi d’intervento alternative a quelle finora sviluppate. Questo, a partire dalla considerazione che la diagnosi transitiva non tende ad incasellare la persona in una costellazione di sintomi, ma a comprenderne formalmente i processi di costruzione.
3. Corpo e costruzione dell’identità in adolescenza
Non si può parlare di Disforia di Genere in età evolutiva senza menzionare l’importanza assunta dal corpo in questa particolare fase dell’esistenza densa di significativi mutamenti fisici e sociali. Gli adolescenti sono, infatti, ingaggiati in una grande impresa di scoperta della loro individualità e di affermazione della loro identità, di distanziamento dalla famiglia e di integrazione con il gruppo dei pari, di confronto con la sessualità e con l’identità sessuale (Erikson, 1968). In tal senso, la trasformazione corporea è la prima sfida in cui vengono chiamati a cimentarsi, dacché la stessa implica un cambiamento del modo di costruire se stessi, gli altri e il mondo.
La pubertà coincide con un periodo di crescita rapida, massiccia e spesso disarmonica, che rende difficile riconoscersi nel proprio corpo. Quest’ultimo, con le sue intense modificazioni, annuncia la fine dell’infanzia ed impone una revisione nella costruzione di sé. I bambini avvertono che qualcosa sta sfuggendo loro di mano e che sta accadendo qualcosa d’importante: un qualcosa che sono, però, impreparati ad affrontare. Non di rado, percepiscono un senso di smarrimento a fronte di un processo di trasformazione fisica in cui vengono chiamati ad abbandonare la sicurezza delle forme e dei movimenti di un corpo infantile. Fanno esperienza di uno squilibrio tra la maturità corporea – in via di veloce realizzazione – ed una sostanziale impreparazione psicologica a fronteggiare i cambiamenti. Lo sviluppo fisico e sessuale è, quindi, spesso accompagnato dall’emergere di incertezze ed inquietudini per un processo di metamorfosi di cui si ravvisano i segni, ma non si conosce l’esito (Palmonari, 1993). Il timore che le trasformazioni in atto possano comportare mutamenti stabili e indesiderabili è molto frequente, richiedendo un notevole lavoro di comprensione ed elaborazione di quanto sta avvenendo. Non di rado, l’attività di “manipolazione” del corpo rientra tra in fenomeni tipici di questa fase della vita, allo scopo di renderlo più presentabile e accettabile sia per se stessi che per gli altri.
La pubertà si configura anche come “compito di sviluppo” (Havighurst, 1952). Il pensiero dell’adolescente diventa più articolato, complesso e in grado di anticipare una molteplicità di opzioni possibili, il che spesso aumenta il livello d’incertezza e conflitto intrapersonale/interpersonale. L’acquisizione della capacità riproduttiva apre le porte al mondo della sessualità. I rapporti con i coetanei rappresentano occasioni per mettere in gioco la propria identità di adulti. Le trasformazioni fisiche, lo sviluppo cognitivo e le nuove esigenze sessuali si traducono in un ambivalente movimento di avvicinamento-allontanamento dalla famiglia, che rende evidente la turbolenta coesistenza tra dipendenza infantile e bisogno di autonomia-libertà.
L’adolescenza è, infine, l’età in cui viene maggiormente affrontato il tema della differenziazione e della definizione della propria identità. Costituisce un’epoca di esplorazione e ricerca guidate da una grande domanda circa se stessi: chi sono e chi voglio diventare. Tipicamente, gli adolescenti si interrogano sui cambiamenti, fanno progetti, si impossessano di una loro chiave di lettura della realtà, scoprono il senso del proprio essere e dei loro comportamenti, cercano di agire liberamente senza cedere a condizionamenti e coercizioni, si aprono a rapporti di confronto con gli altri tentando di costruire un’identità che ai loro occhi possa essere specifica ed irripetibile. Interrogarsi sulla propria identità significa ovviamente anche porsi domande sull’essere maschio o femmina, ossia sulla propria identità sessuale. Ed ancora, comporta prendere consapevolezza del proprio orientamento sessuale e rinegoziare le condotte sesso-tipiche in base alla percezione di una maggiore o minore mascolinità/femminilità, selezionando i repertori di ruolo ritenuti più corrispondenti al senso soggettivo del genere (Simonelli, Rossi, Petruccelli & Tripodi, 2006).
4. Il disagio rispetto all’appartenenza di genere da una prospettiva PCP
4.1 Ritratti di personaggi in cerca di autore
Quelle che seguono sono le brevi descrizioni di tre diverse adolescenti da me incontrate in terapia[11] (il percorso in un caso è stato interrotto, mentre negli altri due è stato avviato da qualche mese ed è ancora in essere). Si tratta di storie che ho deliberatamente cercato di rendere in forma sintetica e poco dettagliata, così da proteggere la privacy delle ragazze, i cui nomi non corrispondono a quelli reali. Ho scelto di inserirle per fornire gli elementi di partenza in relazione ai quali ho cominciato ad elaborare le prime ipotesi di lettura circa i processi di costruzione implicati nel disagio rispetto ad un corpo percepito come difforme dall’appartenenza di genere (comunanza)[12]. Nel corso della successiva trattazione farò ricorso ad alcune nozioni kelliane, dando in qualche modo per implicito che il lettore possegga sufficiente dimestichezza con i costrutti professionali della PCP.
4.1.1 Lucia: la collezionista di etichette
Lucia è una ragazza di 13 anni piccola e minuta, dall’aspetto simile a quello di un personaggio dei manga giapponesi. Il taglio corto di capelli, gli occhi grandi e incorniciati dal trucco, l’abbigliamento in stile nipponico mi ricordano da vicino quello degli anime, che sono una delle sue passioni. Parla con un tono di voce flebile, quasi sussurrato. Dapprima si definisce non-binary in quanto appartenente al “terzo sesso”, per poi affermare di aver recentemente scoperto di provare sollievo nel momento in cui gli altri si rivolgono a lei utilizzando il maschile. Di tale preferenza non sa spiegarmi le ragioni, salvo limitarsi a sostenere che lo stare “meglio” rappresenti la prova del suo essere maschio: conclusione a cui è giunta solo negli ultimi mesi, dopo aver iniziato ad imitare una compagna di scuola che si faceva chiamare al maschile. A richiesta di approfondimento rispetto al disagio che sta provando, resta in silenzio e mi guarda con occhi smarriti. Riferisce di vivere una “relazione tossica” con una coetanea che ritiene di essere maschio e di far fatica a rapportarsi ai compagni del sesso opposto, da cui si sente esclusa, emarginata, non considerata e criticata per il suo aspetto fisico. A questo riguardo, racconta che prima di “scoprire di avere una Disforia di Genere” aveva iniziato una dieta al fine di perdere i chili di troppo, per i quali veniva pesantemente derisa dai maschi. Malgrado l’importante calo ponderale a cui è andata incontro (fino alla scomparsa del ciclo), ammette di non piacersi e di utilizzare abiti ampi e morbidi, così da celare pancia e gambe. Si nutre in maniera selettiva e a volte si procura il vomito a fronte del timore di ingrassare (mi dice che pensa di “avere un DCA”). Accenna di sfuggita al fatto che in passato sia stata attratta da un ragazzino, che l’ha però rifiutata e messa in ridicolo. Mi parla poi dell’irrefrenabile impulso di tagliarsi le braccia e mi spiega che il cutting le consente di gestire la rabbia che la assale in certi momenti: rabbia verso se stessa e nei confronti degli altri, da cui si sente giudicata e sottomessa, restando però passiva e incapace di reagire. Nondimeno, mostra determinazione nell’affermare di essere certa del genere a cui appartiene e mi chiede alleanza rispetto all’obiettivo di farsi chiamare Lucio dai familiari. Ai suoi occhi questo rappresenta il primo passo di un cambiamento più grande, mosso dal desiderio di liberarsi di un corpo che non le piace e non sente suo.
4.1.2 Maria: l’attivista per i diritti LGBT
Maria è una ragazza vicina alla maggiore età. È leggermente in sovrappeso e mostra una muscolatura massiccia, possente. Ha i capelli corti – quasi rasati – e indossa un abbigliamento sportivo da rapper studiato fin nei minimi dettagli. Abbina con estrema cura i diversi capi e accessori, per quanto affermi di averli scelti nella fretta dell’ultimo momento. Assume un’andatura studiatamente disinvolta e si pone con un’aria da “spaccona” sicura di sé che non teme niente e nessuno. Mi racconta del suo essere diventata il punto di riferimento della classe – tutta al femminile – per via dei suoi modi simpatici e dissacratori da clown. Dalla descrizione di sé lascia trapelare poco in termini biografici, salvo che è stata pesantemente derisa dai maschi per il suo aspetto fisico e che non ha buoni rapporti con i genitori, soprattutto con il padre (definito come lontano). Appare barricata e chiusa alla narrazione, si limita ad affermare di non ricordare granché del passato. Ciò su cui punta i riflettori è invece il sentirsi arrabbiata, perché vincolata e costretta all’interno delle convenzioni sociali: un mondo dai confini stretti, in cui avverte l’impossibilità di collocarsi e riconoscersi, tant’è che intende combattere per i diritti LGBT e farsi portavoce della diversità. Per altri versi, manifesta l’esigenza di incasellare la sua identità e definirla sulla base dell’identificazione con una categoria. Mi dice che nell’urgenza di affrontare il disagio provato a partire dall’epoca delle scuole medie si è scoperta prima lesbica attraverso la visione di un programma tv e successivamente trans dinanzi ad un video FtM[13] pubblicato su YouTube, grazie al quale ha rintracciato un mondo social popolato da coetanei che come lei si sono sempre sentiti diversi. Lo scambio virtuale le ha permesso di “avere l’illuminazione” tanto cercata e di “trovare” la sua identità. Ritiene che la diagnosi di “persona trans” le abbia consentito di disporre di una chiave di lettura attraverso cui dare un senso al disagio e al sentirsi tagliata fuori socialmente. Ha, quindi, realizzato di voler prendere in mano le redini della propria esistenza e di rivolgersi a me perché intende diventare “maschio a tutti gli effetti”, avviando il trattamento ormonale per “alleviare” il malessere associato ad un corpo che è per lei fonte di imbarazzo e vergogna: un corpo che è la causa di ogni male.
4.1.3 Daniela: la guerriera senza armatura
Daniela è una ragazzina di 15 anni dall’aspetto esile. Ha un viso dolce e diafano che mi ricorda quello di una bambola di porcellana. Veste in maniera sportiva, utilizzando spesso ampie felpe unisex dai colori pastello. Nel suo passato albergano un tentato suicidio risalente all’anno precedente e l’allontanamento del padre, che ha ricostruito un nuovo nucleo familiare con la seconda moglie, da cui ha avuto altri tre figli. Racconta che a seguito della nascita dell’ultimogenito l’uomo non l’ha più trattata come la figlia “prediletta” e l’ha inspiegabilmente privata delle attenzioni che le riservava in precedenza, tant’è che lei ha deciso di non incontrarlo più. Sin dalle prime battute ci tiene a sottolineare che il problema per cui si rivolge a me è, comunque, dettato dal desiderio di essere “neutra” e “asessuata” come i ragazzini coreani. Afferma di non aver avuto dubbi sulla sua identità di genere fino al momento dello sviluppo fisico, in cui ha ravvisato cambiamenti corporei indesiderati, tra cui la comparsa del ciclo e la crescita del seno. Si descrive come chiusa ed introversa, proiettata sulla dimensione dell’incontro nel mondo digitale. Non ha buoni rapporti con i compagni di scuola – soprattutto con i maschi – con cui tende ad entrare in competizione e conflitto. Riporta che inizialmente ha “creduto” di essere omosessuale, mentre negli ultimi mesi ha maturato la convinzione di essere transessuale. Mi spiega che l’essere chiamata al maschile la fa “sentire più al sicuro”. In tal senso, desidera che le persone che si rivolgono a lei utilizzino la forma maschile e mi chiede alleanza rispetto alle criticità che intuisce di dover affrontare nel contesto del coming-out sociale. Dice di voler trovare in me un interlocutore con cui confrontarsi sulle domande che si pone circa se stessa, ma appare piuttosto ferma su un punto: vuole diventare fisicamente maschio per non “sottomettersi” più al maschile o essere trattata da persona “fragile e sensibile”, così da poter finalmente rapportarsi alla pari.
4.2 Le mie prime impressioni nella stanza di terapia
Lucia, Maria e Daniela. Ragazze così diverse tra loro – nell’aspetto, nel modo di comportarsi e di parlare, nelle circostanze di vita e perfino nelle etichette verbali che usano per definire se stesse – ma che ai miei occhi appaiono in parte simili nei processi di costruzione e nella canalizzazione delle anticipazioni.
Volendo provare ad identificare una prima affinità rispetto alla costruzione del disagio, noto che ne parlano in maniera sommaria e sintetica, utilizzando termini “tecnici” che sembrano presi a prestito da un manuale psicodiagnostico e da un manifesto dell’ideologia gender. Tendono a portare non una traiettoria di vita all’interno della quale il malessere assume un senso, ma un’etichetta diagnostica che chiedono di validare. Ipotizzo che questo modo di procedere consenta loro di affermare qualcosa – ovverosia il senso di non appartenenza al genere femminile – che viene assunto come punto di arrivo su cui trovare un’intesa piuttosto che essere considerato quale domanda da cui partire per avventurarci nelle esplorazioni nella stanza di terapia. Lo leggo anche come un modo per controllare la relazione e farla gravitare attorno ad aspetti avvertiti come maggiormente padroneggiabili e rassicuranti. Il che mi porta ad ipotizzare un processo di tipo costrittivo a fronte della possibilità di prendere in considerazione altro di sé e dell’annessa minaccia di entrare in contatto con questioni della loro vita che destano sofferenza, turbamento, angoscia.
Alla stessa stregua, mi colpisce il modo in cui narrano di essere giunte a trarre le conclusioni circa la loro identità di genere: un modo fatto di rapidi passaggi, istantanee identificazioni con l’esperienza altrui, repentine epifanie ed altrettanto fulminei cambiamenti di prospettiva rispetto all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Mostrano l’urgenza di definirsi e sono ricche di dettagli sulla crisi d’identità a cui cercano di trovare una soluzione, ma avverto qualcosa di stonato nelle loro espressioni “studiate”, nei loro ragionamenti collocati ad un livello decisamente astratto e razionalizzato. Il problema non mi pare tanto che “abbiano” le difficoltà che riferiscono di ravvisare, ma che ne parlino in “un certo modo”. Quello che a tratti si profila come un abbozzo di capacità auto-riflessiva sembra poi allontanarle anni luce da ciò che vivono, dalle loro sensazioni e dal loro corpo. Ho l’impressione che le parole usate non esprimano ciò che percepiscono, ma lo determinino. Di fronte a questo modo di stare in relazione con se stesse come sorta di “osservatrici” mi sento a mia volta estraniata, distante, lontana. A volte mi pare che stiano recitando un copione: il che, in qualche modo, potrebbe aiutare a comprendere il problema che portano. Nonostante mostrino il piglio delle ragazze che sanno chi sono e che cosa vogliono, mi sembrano confuse, disorientate rispetto alla loro identità (forse perché sfuggente, vaga e confusa) e al cambiamento corporeo in atto, spaventate dalle difficoltà relazionali che stanno incontrando, deluse dal comportamento delle persone care e sollevate dallo scorgere un appiglio nella possibilità di “corrispondere a qualcosa”, fosse anche solo una mera etichetta o una definizione che consenta di fare ordine nel mare di disordine in cui navigano.
Ed ancora, rilevo che a partire dall’ancoraggio con l’essersi “scoperte” maschi, ricercano prove e indizi nel passato che possano attestare la validità della loro ipotesi, considerata quale chiave di volta che consente di spiegare e dare un senso a tutto. Mettono in campo passaggi dimostrativi che ai loro occhi appaiono “logici” ed esaustivi, ma che ai miei restano sospesi e scollati dal resto della loro esistenza, di cui tacciono o raccontano ben poco. La biografia narrata – a ben vedere – è composta di fotogrammi e istantanee che vengono estrapolate dal passato per ricostruire il film di una vita: una pellicola che assume significato a partire dell’essere sempre stati maschi, senza tuttavia accorgersene prima di varcare le soglie della pubertà. Nel ripensare all’infanzia, ne ripercorrono allora selettivamente le tappe, giungendo alla conclusione che quell’impalpabile e sfuggente malessere da cui sono pervase riguarda l’essere nate in un corpo sbagliato.
Rispetto alla relazione con me sin dalle prime battute ho l’impressione che siano fortemente minacciate dalla terapia e da ciò che lo starci comporta: la messa in gioco di sé e la possibilità di scoprire che le cose non stiano esattamente come ciascuna di loro ha stabilito che debbano essere. Non portano una domanda di terapia, ma la richiesta di un “punto di vista esterno” da parte di un “esperto” che validi le conclusioni a cui sono giunte e con cui cercano di stringere alleanza al fine di affrontare gli ostacoli disseminati lungo la battaglia per l’affermazione identitaria in cui sono ingaggiate. Al contempo, si chiedono se anziché essere un’alleata sarò una nemica che le intralcerà o creerà loro difficoltà. Non sanno come “funziona” il percorso terapeutico e come posso muovermi nei loro riguardi: se le rispetterò nelle scelte, le comprenderò, le giudicherò o le metterò in discussione.
A fronte dell’elevato livello di minaccia implicato nell’esporsi, fanno gravitare la conversazione attorno alle certezze maturate a proposito del disagio identitario oppure entrano nel merito dei loro progetti di modificazione corporea (talora nella sua globalità, talora in riferimento ai caratteri sessuali primari e/o secondari), in virtù del desiderio di “nascere” per la seconda volta. Nell’ascoltarle, ho la sensazione che si costruiscano come vittime della biologia, dei genitori, delle ingiustizie di un mondo che non le capisce e che soprattutto non le appaga nelle richieste di collusione rispetto a chi affermano di essere. Laddove mostro interesse rispetto a questi aspetti, appaiono a loro agio e desiderose di raccontarsi. Viceversa, nel momento in cui cerco di allargare la prospettiva ad altri ambiti restano maggiormente reticenti e vaghe, tanto da escludere dal campo percettivo – e dal nostro campo relazionale – elementi ritenuti incompatibili o insostenibili con una certa costruzione di sé.
Mi accorgo che il corpo resta sempre il centro di gravità verso cui convergono dubbi e riflessioni, il campo in cui vengono combattute battaglie plurime in un ruolo attivo (es. cutting, restrizioni alimentari, agiti suicidari), l’ordito a partire dal quale viene tessuto il senso del loro essere al mondo, il principale veicolo di espressione e comunicazione. Un corpo che canalizza quindi l’esperienza di sé e degli altri, quale cerniera che apre varchi di libertà o chiude entro confini asfittici. Ed ancora, un corpo scomodo e ingombrante sia quando viene criticato e magari rifiutato, sia quando viene considerato esteticamente piacevole e sessualmente attraente. Un corpo che le adolescenti vorrebbero spogliare di tutti gli attributi tipici del femminile per evitare l’imbarazzo dell’essere guardate[14], giudicate, desiderate e forse oggettivate (nel senso di essere rese oggetto), deprivando di spessore e valore il loro essere prima di tutto ragazze che pensano, riflettono, sentono e sognano.
Che dire di me e degli interrogativi che inizio a pormi? A fronte della messa in campo di questi massicci processi di strutturazione e costrizione mi chiedo se possano essere impulsive in termini kelliani (indebito accorciamento della fase di circospezione del ciclo CPC) e se per caso possano andare precipitosamente in prelazione rispetto alla scelta di presentarsi al mondo come maschi oppure accarezzare da vicino la prospettiva di avviare un trattamento ormonale, su cui sono peraltro ben informate. Costruisco la loro dichiarazione d’intenti come un lanciarsi senza rete di protezione all’interno di una realtà complessa e articolata, di cui mi pare scorgano a malapena i contorni e i confini, nonché le implicazioni di vasta portata che un cambiamento rispetto al genere potrebbe avere per la loro esistenza. Intuendo il rischio insito nel basarsi su una costruzione prelativa del disagio (da cui la ricerca del cambiamento corporeo) e costrutti di dipendenza (da cui la richiesta di conferma), ipotizzo che sia utile promuovere un allargamento del terreno di esplorazione ad una visione più ampia di quella corporea, che riguardi loro come persone, aldilà dell’etichetta diagnostica che si sono attribuite. Ciò fermo restando, percepisco distintamente la loro dislocazione rispetto a me: metaforicamente si trovano dall’altra parte della strada che conduce al portone d’ingresso dello stabile in cui ricevo. Di conseguenza, considero che il primo obiettivo su cui lavorare consista nel creare le premesse affinché possano costruire il percorso terapeutico come un’esperienza che desti la loro curiosità e il loro interesse, in cui possano scoprire le ragioni per entrare … e … chissà magari per restare.
4.3 La costruzione dello spazio di lavoro
Volendo ora approfondire alcuni degli aspetti già toccati nel precedente paragrafo, cercherò di entrare nel merito della costruzione della terapia e del terapeuta. Rispetto a questo punto, premetto di essere partita dalla considerazione che – diversamente da altre richieste – quella fatta dalle tre adolescenti da me incontrate si incastonasse nella più ampia cornice del cosiddetto “percorso di transizione”. Con ciò intendo fare riferimento all’intento – accarezzato, vagheggiato o apertamente dichiarato – di modificare il corpo attraverso l’accesso alla terapia ormonale mascolinizzante e l’avvio dell’esperienza di real-life. Alla luce degli elementi emersi a colloquio ho, cioè, ipotizzato che quello che veniva da loro immaginato fosse un ulteriore proseguo del cammino, tramite la richiesta dell’intervento di riconversione chirurgica e di rettifica dei dati anagrafici al fine di diventare “maschio” sia a livello corporeo che sociale[15]. In tal senso, ho tenuto presente che la terapia avrebbe potuto costituire solo uno dei tasselli di un disegno di ben più vasta portata, rappresentando un momento di “passaggio” in funzione della buona riuscita dell’impresa di cambiamento corporeo che dichiaravano di voler perseguire nell’immediato o avevano in mente come concreta possibilità per un non lontano futuro.
In virtù delle suddette riflessioni ho reputato opportuno dedicare spazio ad una preliminare rivisitazione del tradizionale processo diagnostico attraverso il quale il terapeuta giunge a formulare un’ipotesi che lo guidi nella relazione con la persona. La diagnosi transitiva contempla, infatti, la classica tripartizione: a) sistema di costruzione del paziente; b) comprensione da parte del terapeuta del sistema di costruzione del paziente; c) costruzione professionale della comprensione del sistema di costruzione del paziente (Chiari, 2016, pp. 47-49). Ebbene, fermo restando questa articolazione di base, nel caso delle tre ragazze da me seguite ho supposto che assumesse rilevanza anche l’orizzonte esterno entro il quale la terapia si collocava. Come già sottolineato, ho quindi anticipato che nella macro-cornice di una lamentata Disforia di Genere la terapia potesse costituire il primo passo – e forse non l’unico – mediante il quale più o meno consapevolmente e strumentalmente stavano cercando di validare l’etichetta nosografica attribuita in autonomia attraverso un processo di strutturazione di sé (prelazione). La lettura da cui sono partita era che la conferma dell’auto-diagnosi da parte dello “specialista” avrebbe potuto rappresentare il viatico per ulteriori passi, in un campo d’azione che si dispiegava dall’individuale al sociale[16].
Detta ipotesi è stata validata nel corso dei primi incontri. La terapia veniva, infatti, da loro costruita come: a) modo per modificare le circostanze esterne a proprio favore (Kelly, 1991, p. 11); b) spazio all’interno del quale ottenere consenso, alleanza, suggerimenti e indicazioni rispetto alla possibilità di procedere in maniera quanto più agevole e fluida lungo il percorso di transizione dal femminile al maschile (ibidem, p. 12). Di pari passo, il terapeuta veniva costruito come: a) autorità o esperto del settore che – in quanto depositario di un sapere specialistico – detiene il potere della diagnosi (ibidem, p. 16); b) “spalla” kellianamente intesa, ovvero alleato nella lotta per l’affermazione della propria identità di genere o pericoloso nemico da cui difendersi, in quanto passibile di rallentare, intralciare o addirittura impedire la realizzazione del percorso di cambiamento corporeo desiderato (ibidem, p. 18). Sia che acquisisse una valenza positiva, sia che ne assumesse una negativa, al pari dell’endocrinologo e degli altri professionisti con cui avrebbero potuto avere a che fare nel corso del tempo rappresentavo un mezzo per arrivare a concretizzare l’obiettivo di diventare il maschio che ritenevano di essere.
Stanti tali premesse, sin dall’incipit del percorso terapeutico ho cercato di prestare attenzione alle implicazioni di una mancata adesione alle aspettative – implicite o esplicite – nutrite dalle tre adolescenti. Ad esempio, l’invalidazione della costruzione del terapeuta come esperto del settore avrebbe potuto comportare l’eventualità che decidessero di rivolgersi altrove. Lo stesso dicasi dell’invalidazione dell’aspettativa di conferma della diagnosi (nosografica) o di appoggio/alleanza rispetto al superamento delle criticità insite nell’iter di affermazione al maschile (es. coming-out con genitori, docenti e coetanei). Il rischio che poteva profilarsi era quello di un precoce abbandono, da intendersi come “svolta” – e non come drop-out – in quanto non veniva portata una domanda di terapia, ma una richiesta di validazione della costruzione del disagio e della “soluzione” che veniva intravista al fine di “andare oltre” il malessere.
Rispetto alla “forma” della relazione con loro ho poi ritenuto che la sfida risiedesse nel muoversi in modo ortogonale, onde evitare di entrare in émpasse. Ho, quindi, tentato di convogliare gli sforzi nel tentativo di far emergere la costruzione della terapia e di far evolvere la domanda attraverso l’apertura al confronto e al dialogo, per capire e decidere insieme quale fosse la strada più utile da percorrere, in modo da favorire l’investimento personale e l’assunzione di responsabilità rispetto al proseguo del percorso. Il primo passo in questa direzione ha riguardato lo scivolare fuori dalla costruzione del terapeuta “esperto” del settore e “spalla” per mostrare curiosità ed interesse, ma non esattamente nei termini che ciascuna delle tre ragazze proponeva: interesse per ciò che ritenevano importante, per i lori “colori”, per le esperienze in cui erano ingaggiate e le difficoltà che stavano incontrando. Ciò ha implicato l’assumere una posizione per cui non validavo la richiesta di aiuto/collusione rispetto agli obiettivi “esterni” al percorso terapeutico, ma manifestavo coinvolgimento rispetto al cammino di vita. L’idea di base che mi ha guidato è stata quella di poter diventare un “alleato” sì, ma non pro o contro qualcuno/qualcosa, quanto “per qualcosa”, benché ciò restasse ancora vago e indefinito.
Il secondo aspetto che ho preso in considerazione ha riguardato l’importanza di legittimare ciascuna adolescente in quanto persona che stava cercando di scoprire – e soprattutto affermare – la sua identità, piuttosto che il tipo di disturbo per il quale chiedeva una specifica conferma diagnostica. Il che ha comportato il promuovere il passaggio dalla logica utilitaristica e pragmatica – centrata sul tentativo di usare gli altri per ottenere ciò che si vuole – alla logica della comprensione focalizzata sull’incontro, lo scambio e la condivisione (Kenny & Gardner, 2002). Ed ancora, ho reputato utile permettere di far fare esperienza di un rapporto diverso da quelli sperimentati con gli altri adulti del contesto relazionale di riferimento e che sembravano declinarsi in termini di accondiscendenza vs contrapposizione: questo, chiarendo apertamente che il mio compito non era quello di dire loro cosa fare e come comportarsi, ma di entrare nel loro mondo per tentare di comprenderne il punto di vista e la prospettiva sul mondo.
4.4 Di quale disagio stiamo parlando? Una lettura PCP del sistema di costrutti
Entrando nel merito di una lettura costruttivista delle possibili comunanze rintracciabili tra le tre adolescenti da me seguite, è da notare come le storie di vita narrate rimandino ad una costruzione di sé come ragazze contraddistinte da un profondo senso di estraneità rispetto al corpo sessualmente connotato al femminile. La loro posizione rispetto a come poter affrontare questo disagio si colloca su gradienti diversi di disponibilità. In un unico caso, viene mostrata una maggiore apertura ad esplorare quanto sta accadendo, nonostante le prime provvisorie conclusioni circa l’appartenenza di genere maschile. Nei restanti due viene, invece, manifestata fermezza in merito a quale sia la “causa” della sofferenza e l’annessa via d’uscita (la transizione): convinzione che viene espressa con forza e rigidità, dando quasi l’impressione di irremovibilità.
In entrambi i frangenti, la via più percorribile sembra essere quella della definizione di sé come “maschio trans” (strutturazione). La scelta più elaborativa[17] pare, cioè, essere rappresentata dalla percezione di un corpo che non “corrisponde” al proprio intimo sentire: auto-diagnosi che verosimilmente gioca un ruolo non al fine di identificarsi con l’adolescente che “soffre di un disturbo”, ma di disporre di un contenitore o di una cornice per un’identità avvertita come fragile, sfuggente e confusa. Seguendo le linee di implicazione di questa costruzione, l’anticipazione è che il cambiamento fisico costituisca la principale opzione che potrà aiutare a trovare sollievo al malessere, per cui viene avvertita l’urgenza di rimodellare il corpo, così da assumere un aspetto maschile quanto più credibile e convincente.
Relativamente al sistema di costrutti entro cui si colloca il disagio, va osservato come le poche dimensioni di significato che canalizzano l’esperienza di se stesse e degli altri appaiano regnanti, strette e prelative. La principale costruzione superordinata che mi pare accumunare le diverse ragazze è essere qualcuno vs essere nessuno. I costrutti ad essa correlati riguardano dimensioni quali: giusto vs sbagliato, forte vs debole, speciale vs banale, superiore vs inferiore, inclusione vs esclusione, agire vs subire, adeguarsi vs ribellarsi, libertà vs vincolo. Non vengono impiegati costrutti di ruolo. La dipendenza è poco distribuita e altresì poco differenziata.
Le tre adolescenti tendono, inoltre, a strutturare se stesse e gli altri (validatori vs invalidatori). La loro identità viene, pertanto, definita dal punto di vista altrui (dipendenza dal giudizio) e gli sguardi di quanti incontrano – anche fugacemente – veicolano la costante minaccia della disconferma rispetto a chi affermano di essere. Ne consegue che chiedono quasi indistintamente di essere riconosciute nel genere che sentono come corrispondente a se stesse e che tutti possono avere il potere di mettere a repentaglio l’identità rivendicata, non riconoscendole in quanto maschi.
Per ciò che riguarda la costruzione degli altri, va osservato che il loro mondo è popolato da poche persone degne e speciali (alleati/validatori) di contro ad una maggioranza di individui dalla mentalità chiusa e carica di pregiudizi (nemici/invalidatori). In termini generali, anticipano che quanti le circondano siano perlopiù incapaci di comprendere i loro bisogni e il loro punto di vista. Le relazioni con gli altri vengono giocate sulla dimensione accettazione vs rifiuto. Nella misura in cui ravvisano un atteggiamento sminuente/critico nei propri riguardi o velatamente non accondiscendente operano una costrizione rispetto alla relazione, fino al punto di prenderne le distanze, quale manovra auto-protettiva allo scopo di mantenere l’integrità dei costrutti nucleari.
Ipotizzo che il processo principalmente implicato riguardi la costrizione sul corpo, costruito prelativamente quale unica fonte di malessere (la causa per cui c’è una soluzione, ossia la transizione da un genere all’altro). Possono, così, essere lasciati fuori dalla costruzione di sé gli aspetti che rinviano a loro in maniera più ampia. Ritenere che l’errore risieda nel corpo – suscettibile di manipolazione e modificazione anche grazie ai ritrovati della moderna Medicina – è, quindi, il male minore di fronte al pericolo di dover fare i conti con un’identità avvertita come labile e precaria. Rispetto all’eventualità d’intervenire su tale fronte avvertono che poco o nulla possono, mentre rispetto al cambiamento del corpo anticipano di avere maggiori margini di movimento. In tal senso, il disagio può essere per loro solo che corporeo e non anche psicologico.
Il processo costrittivo investe anche i ricordi e le esperienze di vita che vengono menzionate a colloquio, per cui citano esclusivamente quegli episodi o elementi che validano la costruzione di sé come maschio transessuale e vengono esclusi dal campo percettivo elementi ritenuti incompatibili con la stessa o insostenibili. Non da meno, la costrizione viene operata rispetto alle emozioni, fatta eccezione per la rabbia, che viene sperimentata in maniera pressoché costante, soprattutto a fronte di rimandi percepiti come giudicanti, umilianti, invasivi della propria privacy ed irrispettosi (o anche solo tali da non assicurare legittimazione ed approvazione rispetto al loro volere).
Ed ancora, suppongo che la transizione kelliana prevalentemente implicata sia l’ostilità. A più riprese le tre adolescenti riportano di sentirsi “sollevate” nel momento in cui gli altri le “scambiano” per maschi, si rivolgono a loro utilizzando la forma maschile o le trattano come esponenti del sesso opposto. Di pari passo affermano di ravvisare irritazione, fastidio e finanche collera laddove le persone le identificano come femmine o magari fanno commenti – anche positivi – sul loro aspetto fisico. Dinanzi alla minaccia di essere considerate come ragazze, perseverano nel voler essere costruite come “maschio sui generis”, che risulta tale nella biografia, nel modo di sentire e di agire, negli atteggiamenti e negli interessi. Una unicità per la quale cercano costante validazione e che consente loro di distinguersi in positivo dai “maschi biologici” (la versione migliore), ma che non tutti sono in grado di riconoscere e comprendere. Di conseguenza, leggono il rifiuto di colludere con la loro costruzione di sé quale conseguenza dei limiti altrui. Ritengono, cioè, che siano coloro che le circondano a sbagliare, non essendo in grado di sviluppare una visione open-mind, di capire il loro punto di vista, di avere gli strumenti adatti per confrontarsi con la complessità del loro mondo e soprattutto per accondiscendere alle loro richieste (ossia, trattarle in base al genere percepito come proprio).
Limiti, questi, che combattono con determinazione, minacciando di arrivare a compiere gesti più o meno estremi (dal cutting al suicidio) oppure assumendo un piglio ideologico e psico-educativo nel portare avanti la missione di contrasto alle ingiustizie e alle regole di una società che ai loro occhi è gretta e transfobica. Attraverso il coming-out relativo all’identità di genere scoprono, peraltro, che hanno un doppio grande palco: quello dei gruppi “reali” o virtuali dei coetanei che nutrono un simile disagio e che rappresentano degli interlocutori a cui chiedere accoglienza, legittimazione, sostegno, informazioni e consigli; quello del contesto familiare e sociale (compagni di classe, insegnanti e perfino concittadini nel caso di piccoli centri urbani), al cospetto del quale possono rivestire i panni della persona speciale, dalla traiettoria esistenziale che spiazza, sorprende, desta scalpore, suscita riprovazione o ammirazione. Pur percependo di non venir esattamente comprese nei loro termini, avvertono di riuscire a tenere alta l’attenzione. Possono essere un “personaggio” piuttosto che una ragazza anonima, invisibile (a se stessa prima ancora che agli altri), smarrita rispetto alla propria identità e in grande difficoltà: un personaggio alle cui gesta gli altri possono interessarsi nel bene o nel male, piuttosto che un’entità indefinita che non lascia traccia del suo passaggio sulla terra.
Giunta a questo punto dell’analisi, ritengo opportuno effettuare un ulteriore passo avanti, in quanto la costruzione superordinata essere qualcuno vs nessuno non rende forse pienamente conto di come mai – tra i tanti personaggi da mettere in scena – le tre adolescenti sembrino impegnate nel costruire se stesse in un certo modo, ossia come “maschio sui generis”. Questo senza contare che il sentirsi maschio pare stridere con la loro costruzione stereotipata del maschile, ritenuto a seconda dei casi dominante, rifiutante, critico, giudicante, indifferente o superficiale: strutturazione a partire dalla quale giustificano la presa di distanza e il rifiuto di stabilire una qualche forma di relazione o condivisione. La loro percezione di essere maschi è, cioè, tale per cui rivendicano non un’identificazione, ma una collocazione per contrasto: direttamente o indirettamente comunicano la volontà di essere non il “solito maschio”, ma un maschio assai diverso e – come già detto – “migliore”. Il che denota un implicito o esplicito atteggiamento di rivalsa e competizione. Il maschile che invocano per se stesse non ha, quindi, niente a che fare con una preferenza razionalmente pensata, né con un viscerale senso di assonanza o appartenenza.
Altrettanto significativo – in tale cornice – appare il ruolo giocato dalla costruzione della sessualità e del corpo sessualizzato. Più precisamente, l’impressione è che intendano restare fuori dalla sessualità, o quantomeno da un certo tipo di sessualità. Riferiscono di avere poche o nulle esperienze con il maschile, verosimilmente per via di esperienze percepite come invalidanti (un interesse non corrisposto o corrisposto, ma non nei termini dei loro bisogni relazionali). Verso il femminile mostrano una maggiore apertura, per quanto affermino di non tollerare l’essere toccate fisicamente e di vivere l’imbarazzo di mostrarsi nude. Il disagio rispetto ad una sessualità incarnata viene da loro giustificato come derivante dal non aver ancora acquisito un corpo pienamente maschile. Quale che sia la ragione trovata e l’orientamento sessuale dichiarato – spesso definito etero a partire dalla percezione di sé al maschile – quello che viene lasciato fuori è il contatto e il confronto con il maschile, sia nell’area sessuale che in quella relazionale in senso lato.
Il tutto mi fa pensare ad una sofisticata architettura esplicativa che tiene in piedi un evitamento del maschile (costrizione) per far fronte ad un malessere di fondo. La natura di tale disagio resta, però, opaca. Che cosa stanno rifiutando queste tre adolescenti? Forse, il cambiamento di un corpo che sta assumendo connotati femminili chiaramente sessuali e che proprio per questo diviene fonte d’imbarazzo e vergogna, in quanto tale da attirare su di sé un diverso ed insostenibile sguardo. Forse, una costruzione prelativa o tutt’al più costellatoria del genere di appartenenza (es. femmina fragile, compiacente, sottomessa e passiva). Forse, il rapporto con il sesso opposto – anch’esso costruito in maniera stereotipata – e con il desiderio sessuale maschile. Forse, una sessualità costruita come esercizio di potere, ovvero tale da essere percepita come dominante, oggettivante e prevaricante sul femminile. Una sessualità subita, insomma, o magari fonte di chissà quali ineffabili inquietudini e turbamenti. Le ipotesi in campo sono diverse e vanno verificate o invalidate in terapia, man mano che il percorso procede.
4.5 I passi successivi: quali possibili direzioni di lavoro?
Alla luce delle considerazioni fin qui espresse, tenterò ora di proporre in termini “macro” le ipotesi circa le possibili direzioni di lavoro con le tre adolescenti da me seguite: questo, senza voler di certo uniformare l’approccio d’intervento o trascurare le specificità di ciascun singolo percorso terapeutico.
Ciò premesso, ritengo che – come già altrove evidenziato – la base di partenza sia costituita dal tentativo d’instaurare una relazione di scambio aperto ed onesto. Un ulteriore e correlato aspetto attiene, a mio avviso, all’esercitare una minaccia attenuata che faciliti il passaggio dalla focalizzazione sul corpo – considerato quale catalizzatore di attenzioni e oggetto/strumento da manipolare a proprio piacimento – alla centratura sulla storia di vita e sull’esplorazione di sé, prendendo magari spunto da tecniche quali l’autocaratterizzazione o il fiume della vita per facilitare il raccontarsi, o quanto meno il cominciare a farlo. Ciò, attraverso un invito alla ricerca e alla scoperta congiunta, in cui io possa assumere il ruolo di adulta coinvolta nel “dramma” che ciascuna singola ragazza sta vivendo, senza però colludere con la richiesta di aiutarla a diventare il maschio che desidera essere.
Per altri versi, reputo possa essere utile promuovere il consolidamento di un’identità non prelativamente imperniata sul corpo pianificando i seguenti passi in terapia: a) permeabilizzare e proposizionalizzare il costrutto maschile vs femminile, in quanto essere uomini o donne non riguarda solo il corpo (per quanto esso sia implicato), ma modi in parte comuni e in parte diversi di costruire e vivere; b) agevolare la costruzione di sé come persona con le sue peculiarità e specificità, così da arricchire ed ampliare il sistema di costrutti, nonché favorire la possibilità di un confronto con gli altri a partire da una certa conoscenza di sé; c) far emergere le difficoltà eventualmente ravvisate nell’area sessuale e nella percezione di sé come essere sessuato; d) favorire una maggiore differenziazione della dipendenza, identificando quali altri bisogni entrino in campo aldilà della validazione come maschio; e) promuovere lo sviluppo di costrutti di ruolo (socialità) al fine di distribuire la dipendenza e scoprire alternative percorribili alla relazione giocata sulla dimensione accettazione vs rifiuto.
5. Considerazioni conclusive
Attraverso il presente contributo ho cercato di avviare una prima esplorazione in chiave costruttivista del disagio di un corpo sentito come non corrispondente alla propria appartenenza di genere: questo a partire dalle impressioni e riflessioni sviluppate nel contesto della terapia con le tre adolescenti da me seguite. Il filo rosso che mi ha guidato ha riguardato il tentativo di rintracciare possibili comunanze nei processi di costruzione – ivi inclusa la costruzione della terapia e del terapeuta – ponendo attenzione non ai sintomi e alla diagnosi nosografica, ma al loro mondo, a ciò in cui sono fondamentalmente impegnate e alle direzioni di movimento all’interno del sistema di costruzione[18].
Come messo in luce nel corso della trattazione, ho supposto che la percezione di essere imprigionate nel corpo sbagliato permetta loro di mantenere integre le anticipazioni di se stesse e del mondo. Ho, altresì, ipotizzato che possa essere implicata una doppia strutturazione – personale e dell’altro sesso – come “maschio” e “femmina” stereotipati, nonché una costruzione della relazione reciproca e della sessualità come esercizio di potere del maschile sul femminile.
Ritengo che le considerazioni fin qui espresse e le provvisorie conclusioni a cui sono giunta non possano essere generalizzate o reputate quali chiavi di lettura standard da adottare in riferimento alla richiesta di terapia da parte di ragazze e ragazzi che sperimentano un disagio rispetto all’appartenenza di genere (ogni intervento va, infatti, valutato e pianificato tenendo conto dell’unicità della persona e della relazione terapeutica). Ciò fermo restando, rappresentano uno spunto ai fini di un eventuale confronto professionale ed un invito per ulteriori approfondimenti, sia sul fronte terapeutico che della ricerca.
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Note sull’autore
Simona Luciani
Centro InterattivaMente
Psicologa e Psicoterapeuta formata dapprima presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interattivo-Cognitiva dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia di Padova e successivamente presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Costruttivista dell’Institute of Constructivist Psychology (ICP) di Padova. Esercita come psicoterapeuta, consulente in psicologia forense e ausiliario di P.G. Il focus d’interesse nel suo lavoro riguarda la sessuologia e il dolore vulvare cronico.
È co-direttore del Centro InterattivaMente di Padova e segretario della S.I.S.E.S. (Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale).
Note
- Etichetta diagnostica utilizzata nell’ambito del DSM-5 (APA, 2014) per designare le situazioni in cui viene riscontrata una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato, della durata di almeno 6 mesi. Detta condizione è associata a sofferenza clinicamente significativa o ad una compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita della persona. ↑
- Termine che designa il processo di passaggio da un genere all’altro e che contempla diversi step: diagnosi di Disforia di Genere, avvio della terapia ormonale femminilizzante o mascolinizzante, richiesta di rettificazione di attribuzione di sesso presso il tribunale di competenza, riconversione chirurgica e anagrafica. ↑
- L’approccio PCP si differenzia da altre prospettive in quanto: 1) non è interessato ad incasellare la persona in una costellazione di sintomi, ma a comprenderne formalmente i processi di costruzione; 2) è basato sulla nozione di costrutto, che designa un’azione e non un pensiero o una cognizione. Ciò implica che la psicoterapia non si focalizzi sulla relazione tra i presunti sottosistemi del paziente, né sulla coscienza razionale, ma sulla sua intera esperienza (Giliberto, 2017). In tal senso, il primo laboratorio in cui poter fare esperienza è rappresentato dalla relazione terapeutica. Il terapeuta – comprendendo i processi di costruzione – tenta di fare qualcosa con la persona e non sulla persona (Bannister & Fransella, 1986). ↑
- Con il DSM-III viene effettuato un tentativo di unificazione delle condizioni accomunate da un persistente malessere verso il sesso assegnato, in linea con il concetto di “salute sessuale” espresso dall’OMS nel 1974. A fronte della revisione del DSM-III e dell’annessa pubblicazione del DSM-III-R i diversi quadri diagnostici relativi all’identità di genere vengono unificati sotto l’etichetta di “Disturbi Psicosessuali” nella sezione “Disturbi di solito evidenti nell’infanzia e nell’adolescenza” (APA, 1988). Nelle successive versioni del DSM-IV (APA, 1995) e DSM-4-TR (APA, 2001) vengono apportati ulteriori cambiamenti alla criteriologia riguardante la diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere per l’infanzia e l’adolescenza. ↑
- Al riguardo va rilevato che la dichiarazione di appartenere al sesso opposto non venga considerata delirante, dacché la persona afferma di sentire di essere come un membro del sesso opposto e non di credere di esserlo davvero. ↑
- Tra gli altri vengono menzionati il Gender Identity/Gender Dysphoria Questionnaire for Adolescent and Adults (GIDYQ, Deogracias, Johnson, Meyer-Bahlburg, Kessler, Schober & Zucker, 2007; versione italiana di Prunas, Mognetti, Hartmann & Bini, 2013), il Symptom Checklist-90-R (SCL 90-R, Derogatis, 1994; versione italiana Sarno, Preti, Prunas & Madeddu, 2011), il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-Adolescent (MMPI-A, Butcher, Williams, Graham, Archer, Tellegen, Ben-Porath & Kaemmer, 1992), l’Attachment Interview for Childhood and Adolescence (AICA, Ammaniti, van IJzendoorn, Speranza & Tambelli, 2000), l’analisi della storia di vita, l’autocaratterizzazione (Kelly, 1991, pp. 239-267) e il genogramma familiare. ↑
- Dicitura utilizzata per indicare le diverse fasi del percorso di transizione che la persona intenzionata ad effettuare il cosiddetto cambio di sesso concorda con le figure professionali interessate al processo di adeguamento. ↑
- Termine che designa un arco di tempo di durata variabile, ma non inferiore ad un anno, in cui la persona che intende effettuare il cambio di sesso mette alla prova le proprie aspettative sulla possibilità di vivere nei diversi contesti sociali nel ruolo di genere sentito come maggiormente affine al proprio sentire. ↑
- Al riguardo, va comunque evidenziato come la presa in carico degli adolescenti rappresenti un terreno su cui non esiste ancora consenso nella comunità scientifica internazionale. Allo stato attuale, restano aperti dibattiti e controversie sia sul piano clinico che su quello etico. ↑
- Il percorso terapeutico si articola in diversi passaggi che risultano sostanzialmente sovrapponibili a quelli della terapia cognitivo-comportamentale standard per l’età evolutiva, per quanto vengano tenute in debita considerazione le specificità inerenti alla Disforia di Genere (Rigobello & Gamba, 2016). ↑
- Come ricorda Mair (1998) comprendere riguarda, infatti, il modo in cui giungiamo “a conoscere vivendo un’esperienza personale di qualcosa, a sapere personalmente attraverso un diretto coinvolgimento in una qualche situazione … non c’è alcun modo di separare la comprensione dalla persona. La comprensione è necessariamente personale. La comprensione deve essere comprensione di qualcosa da parte di qualcuno” (pp. 16-17). ↑
- Nell’occuparmi delle ipotesi circa la comunanza dei processi tra le tre adolescenti da me seguite, sono ben consapevole di effettuare una scelta di campo che inevitabilmente sottrae spazio all’approfondimento delle traiettorie di vita individuali e alle specificità del mondo di ciascuna ragazza. Nondimeno, ritengo che il presente contributo possa costituire una prima base di partenza per una più analitica trattazione dell’argomento. In tal senso, reputo che le considerazioni da me espresse – e nate all’interno di un contesto clinico – possano offrire un qualche spunto alla ricerca, ad esempio ai fini dell’avvio di uno studio pilota condotto in chiave costruttivista, attraverso le metodologie e le tecniche proprie dell’approccio: opzione che consentirebbe di elaborare ipotesi maggiormente suffragate dagli elementi a disposizione. ↑
- Sigla usata per designare il percorso che una donna sta effettuando per passare dal sesso femminile a quello maschile. ↑
- La rilevanza assunta dallo “sguardo” – proprio ed altrui – appare alquanto centrale nelle ragazze da me seguite. ↑
- Detti passaggi vedono coinvolte discipline e figure professionali “altre” rispetto a quella del terapeuta (endocrinologi, chirurghi, legali, giudici, ecc.), con cui non è raro che lo stesso venga chiamato ad interfacciarsi. ↑
- Onde evitare possibili fraintendimenti, ritengo importante sottolineare che le ipotesi da me formulate in merito alla costruzione della terapia e del terapeuta sono da considerarsi come possibili chiavi di lettura solo in riferimento alle tre adolescenti da me seguite e non anche in relazione ad altre persone o situazioni in cui venga lamentato un disagio verso il genere di appartenenza. ↑
- Come suggerisce Kelly (1991): “Una persona sceglie per se stessa quell’alternativa in un costrutto dicotomico attraverso la quale anticipa le maggiori possibilità di estensione e definizione del suo sistema” (p. 45). ↑
- Questo in quanto “mentre la definizione fissa i significati facendone realtà immobili, la diagnosi transitiva è fatta per ‘andare oltre’, per proporre vie più agevoli da percorrere, per rimettere in movimento un sistema bloccato nella ripetizione di passi fermi su se stessi” (Armezzani, Grimaldi & Pezzullo, 2003, p. 59). ↑
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