ISSN 2282-7994

Tempo di lettura stimato: 24 minuti
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La costruzione del ruolo di psicoterapeuta: intervista a Giuseppe Vinci

The construction of the role of psychotherapist: interview with Giuseppe Vinci

A cura di

Giorgia Albanese, Grazia Barbara Conti, Grazia Cristaldi, Claudia D’Agostini, Caterina Saccardo

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

DOI:

10.69995/YWAG9668
Keywords:
Essere/diventare psicoterapeuti, relazione, formazione, diagnosi | to be/to become psychotherapist, relationship, education, diagnosis.

Giuseppe Vinci, ex manovale, ex funzionario amministrativo, ex sindaco, ex assessore provinciale, ex dirigente della ASL di Taranto, è ancora psicoterapeuta, co-responsabile della Scuola di specializzazione in Psicoterapia “Change” di Bari. Due volte Sindaco di Grottaglie (TA) e Assessore alla Pubblica Istruzione e ai Beni Culturali della Provincia di Taranto. Dal maggio 2021, membro del Consiglio di Amministrazione dell’ENPAP. Ha una lunga esperienza da formatore e supervisore in centri e servizi per la salute mentale, le tossicodipendenze e la famiglia.

Un po’ contadino per tradizione familiare, è un avido lettore di letterature e, forse anche per questo, un po’ scrittore: ha pubblicato, oltre a numerosi articoli e saggi, tre volumi: Lo sguardo riflesso. Psicoterapia e Formazione (Bruni, Vinci & Vittori, 2010), Conversazioni sulla psicoterapia (Vinci & Cancrini, 2013), Essere terapeuti. Forza e fragilità dello psicoterapeuta e della psicoterapia (Vinci, 2022), il suo ultimo lavoro.

 

Giuseppe Vinci, former worker, former administrative officer, former mayor, former provincial councilor, and former manager of the Taranto ASL is currently a psychotherapist, co-responsible for the Bari School of Psychotherapy ‘Change’. He was twice mayor of Grottaglie (TA) and councilor for Education and Cultural Heritage of the Province of Taranto. Since May 2021, he has been a member of the Board of ENPAP. He has long experience as a trainer and supervisor in centres and services for mental health, drug addiction and family.

A bit of a peasant by family tradition, he is an avid reader of literature and perhaps for this reason also a bit of a writer: besides numerous articles and essays, he published three volumes: Lo sguardo riflesso. Psicoterapia e Formazione (Bruni, Vinci & Vittori, 2010), Conversazioni sulla psicoterapia (Vinci & Cancrini, 2013), Essere terapeuti. Forza e fragilità dello psicoterapeuta e della psicoterapia (Vinci, 2022), his latest work.

 

Buon pomeriggio dottor Vinci. Abbiamo preparato un po’ di domande guida per gestire inizialmente questa nostra chiacchierata partendo da ciò che abbiamo letto nella sua biografia. Abbiamo letto che è un ex manovale, ex funzionario amministrativo, ex sindaco ed ex assessore provinciale, ex dirigente ASL, attualmente e ancora psicologo psicoterapeuta, formatore, supervisore, co-responsabile della Scuola di Psicoterapia Change di Bari, consigliere CdA Enpap. Abbiamo letto anche un po’ contadino per tradizione familiare. Quindi è sorta la domanda: secondo lei queste diverse e molteplici sfaccettature della sua persona hanno influenzato la sua costruzione del ruolo di psicoterapeuta? E se sì, in che modo?

Indubbiamente sì, perché anche quando siamo nel ruolo terapeutico non possiamo essere altro che noi stessi. Nel momento in cui siamo noi stessi, siamo anche il riassunto di tutto ciò che ci ha fatto diventare così: una concatenazione infinita e circolare di condizioni subìte e di esperienze, scelte, errori, sofferenze, gioie che ha costruito ciò che siamo, il nostro funzionamento, il nostro modo di essere nel mondo. In Essere terapeuti ho scritto “siamo ciò che ci ha determinati”. In questi giorni ho letto la recensione di un libro che si chiama proprio così: Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio, di Sapolsky, nel quale l’autore sostiene questa idea sino a postulare l’assenza del libero arbitrio. Siamo talmente ciò che ci ha determinato che qualunque cosa noi facciamo è solo una delle pochissime cose che potremmo fare, per non dire “l’unica cosa”. Detta così appare una affermazione insieme estremistica e mortificante, ma a pensarci bene non siamo troppo lontani da lì.

Tornando alle esperienze di vita, e al rapporto con il lavoro di oggi, nel mio lavoro come manovale in un impianto siderurgico a Taranto a cavallo della laurea, ad esempio, i miei compagni erano tutti sottoproletari, persone meno protette socialmente e con famiglie multiproblematiche alle spalle. Questa esperienza è stata essenziale per me quando, pochi anni dopo, ho preso ad occuparmi di tossicodipendenza e, quindi, di persone che venivano anche da ambienti critici e socialmente svantaggiati, quelli che avevo frequentato da manovale, condividendone l’umanità. Aver fatto per tre anni il direttore amministrativo in un istituto scolastico con un bilancio autonomo, mi ha insegnato a leggere il linguaggio burocratico, cosa che a sua volta mi è tornata utile quando sono stato eletto sindaco. Fare il sindaco, come anche fare politica più in generale, significa imparare a navigare nella complessità dei mille vincoli che caratterizzano i sistemi umani e a tentare di darsi una certa capacità di sintesi, e così via.

Insomma, tutto ciò che noi facciamo nella nostra vita, stando nelle relazioni con ogni cosa, ci fa diventare in qualche modo “esperti”. Per diventare esperti c’è solo un modo, infatti: fare esperienza. Uno dei padri fondatori della terapia familiare, Salvador Minuchin, incoraggiava i suoi allievi una volta conclusi gli studi in psicologia a mettere da parte i libri e fare tutt’altro. Sempre le nostre esperienze ci arricchiscono, ci condizionano, ci qualificano e ci limitano; ma poiché il lavoro dello psicologo si svolge nelle vite delle persone, se tu non conosci un po’ la vita e le relazioni di cui è fatta, se non ne hai fatto esperienza, rischi di essere come la mosca cocchiera, che presume di guidare il carro e invece sta semplicemente sul dorso del cavallo. Riassumendo, la risposta è sì: tutte le esperienze di vita, utili e futili, giuste e sbagliate, fanno parte del nostro essere persone e dunque, nel mio caso, del mio essere psicoterapeuta.

 

Collegandoci alla domanda precedente, quali sono state per lei le implicazioni del ricoprire sia i ruoli istituzionali che la professione di psicoterapeuta? Cioè, l’essere psicoterapeuta può aver influenzato in qualche modo i suoi ruoli istituzionali e viceversa?

Le cose sono sempre strettamente intrecciate tra loro e sono ognuna, diciamo così, l’altra faccia dell’altra. Il lavoro psicologico ti allena all’ascolto, perché non si può essere psicologi se non si è capaci di ascoltare. Il lavoro politico è basato sulla stessa cosa, devi avere una visione e degli obiettivi, devi comprendere l’interlocutore che hai davanti, devi imparare a stare nel gioco con gli avversari. Sia la psicoterapia che l’attività politica istituzionale sono tutte e due attività ad altissimo tasso di complessità e, quindi, sono attività che si rinforzano vicendevolmente. D’altro canto, tutto è sempre molto più connesso a ogni altra cosa di quanto non appaia al primo sguardo; e potremmo dire che sono stato un sindaco un po’ psicologo e che sono uno psicologo piuttosto politico.

 

Nel suo libro Essere terapeuti. Forza e fragilità dello psicoterapeuta e della psicoterapia fa riferimento al rifiuto dei “giudizi veloci”, alle “etichette ignoranti” che spesso si traducono in “diagnosi affrettate”. Quali sono, secondo lei, i presupposti e le implicazioni delle diagnosi affrettate? Quali i rischi per il terapeuta e per il paziente?

Il nostro modo di nominare oggetti e processi del nostro lavoro, l’apparato terminologico e nosologico che abbiamo costruito nei decenni da Freud in poi, risente molto di un vizio di origine, cioè che la comprensione del funzionamento psicologico e relazionale umano, e della follia, da un certo momento della storia umana in poi è stato inglobato nell’ambito della medicina. Quindi, noi non facciamo altro che imitare terminologie e prassi che appartengono a, diciamo così, scienze più naturali (lineari, materiali) della nostra. Dal mio punto di vista, l’approccio diagnostico in psicologia risente fortissimamente di una posizione “scientista”, non adeguata a ciò di cui noi ci occupiamo. Non ci occupiamo di malattie originate da un virus o da un deficit di un apparato o, nel nostro caso, potremmo dire quasi sempre, del sistema nervoso. Non abbiamo questi elementi di “semplicità”. Il nostro è un mondo molto più complesso, fatto di un intrico di relazioni tra la persona che noi incontriamo e il resto del suo e del nostro mondo, tra la persona che noi incontriamo e la sua storia, tra la persona che noi incontriamo, noi stessi e il modo in cui stiamo con lui/lei in quel momento. Quindi, ancora una volta, la parola chiave è complessità. Utilizzare un approccio “scientista”, o imitare la medicina, ci porta ad apporre etichette riduzionistiche a fenomeni che hanno molteplici sfaccettature, riducendo la complessità che ogni individuo è ad uno solo dei suoi aspetti, tipicamente quello meno funzionante. Ve ne sarete già rese conto nei vostri studi e ve ne renderete conto ancora meglio facendo la scuola di specializzazione, ma nel momento in cui, per esempio, usiamo per una persona l’etichetta “borderline”, oppure “bipolare”, noi stiamo riducendo drasticamente la nostra capacità di conoscere davvero quella persona e di conoscere tutti gli altri suoi aspetti (numerosissimi) in cui non c’è il funzionamento borderline; in sostanza disumanizzando la persona cui quella etichetta si riferisce. Paradossalmente, potremmo dire che più la diagnosi appare precisa e dettagliata, più è fuorviante. Neanche la persona che definiamo “psicotica cronica” è sempre e solo all’interno del funzionamento psicotico. La riduzione della persona alla sua etichetta diagnostica genera l’impossibilità della cura e genera cronicità, come abbiamo visto nella storia della psichiatria con i manicomi, le manipolazioni chirurgiche del cervello (che fruttarono nel 1949 un premio Nobel per la medicina al suo ideatore!) e come vediamo nel funzionamento attuale di tanti servizi di salute mentale.

Secondo me è necessario darsi il tempo di conoscere la persona di cui dobbiamo prenderci cura e abituarsi a stare nell’incertezza, ad accogliere e tollerare il dubbio, piuttosto che precipitarsi a definire e “diagnosticare”, nell’illusione di aver capito e risolto. La diagnosi, lo sapete come me, è una parola che deriva dal greco e significa riconoscere attraverso”. Attraverso cosa, in psicoterapia? Attraverso la relazione che proveremo a creare con le persone con le quali lavoriamo. Relazione in cui dispiegare la nostra sensibilità, la nostra umanità, tutto ciò che abbiamo studiato e capito della vita e delle persone, e la nostra capacità di co-costruire vicinanza e significato; e “riconoscere attraverso” in quel modo è già terapia.

Fare diagnosi è la cosa più difficile, ma più è fluida, più ha confini morbidi permeabili, estensibili, riducibili, più è di aiuto. Perché tutta questa flessibilità ti permette di entrare meglio in contatto con la realtà contraddittoria e paradossale della persona che si ha di fronte, come di tutti. Naturalmente c’è un’eccezione a tutto questo: bisogna fare attenzione ai disturbi “pericolosi”, che bisogna imparare a riconoscere il più velocemente possibile, come il disturbo paranoide, il disturbo narcisistico al massimo livello, il disturbo antisociale. Bisogna essere capaci di individuarli e bisognerebbe imparare a farlo nel processo formativo, per disporsi nel modo giusto e non lavorando da soli.

In generale, il lavoro dello psicoterapeuta non è un lavoro che si possa fare in solitudine, ma nel lavoro sui gravi disturbi ciò è ancora più importante. Non necessariamente perché sia pericoloso di per sé, ma perché il disturbo grave attiva dentro di noi reazioni controtransferali che possono ostacolare o bloccare o persino rendere iatrogeno il processo terapeutico. Su questo è necessario stare attenti. Per il resto, non vi preoccupate se la diagnosi della persona vi sembra non sufficientemente precisa. Anzi, se vi sembra imprecisa, se vi sembra troppo fluida, probabilmente siete più vicini al vero. Se vi sembra, invece, troppo precisa, è sicuro che vi state sbagliando. Perché è più facile che assomigli alla realtà la cosa imprecisa e fluida che non quella rigida e in apparenza perfettamente strutturata.

Diffidate di coloro che affibbiano diagnosi precisissime, in realtà sono dentro a meccanismi di difesa loro, che non c’entrano niente con le persone. Più siete aperti, dubbiosi, incerti, più siete pronti alla conoscenza; e aderirete meglio alla specificità assoluta e irripetibile che ciascuna persona è.

 

Nello stesso libro sopracitato, lei parla spesso del tema della “qualità nelle relazioni e degli elementi essenziali che la compongono”. Come è arrivato a considerare questo tema così importante? E perché?

Dopo molti anni di psicoterapia e formazione (fatte e ricevute) mi sono convinto piuttosto fortemente che dovremmo concentrarci costantemente su ciò che nel nostro lavoro è essenziale, sui suoi fondamentali. L’aggettivo “fondamentale” evoca il sostantivo “fondazione”, cioè quella parte della costruzione conficcata nel terreno che la rende capace di sopportare il peso di tutto ciò che verrà costruito sopra. Se per un edificio non costruisci bene le fondamenta, esso crollerà, o per il suo stesso peso o alla minima scossa.

Qual è la caratteristica essenziale di una cosa? Il fatto che senza quella caratteristica, quell’oggetto o quel fenomeno non si potrebbe più chiamare così. Qual è l’essenziale del coltello per esempio? La sua capacità di tagliare qualcosa. Qual è la caratteristica essenziale della sedia? Il fatto che tu ti ci possa sedere sopra. Qual è la caratteristica essenziale della psicoterapia? La qualità della relazione tra le persone coinvolte in quel processo. Anzi, io dico che la psicoterapia è nient’altro che la proprietà emergente di una relazione di alta qualità, ciò che affiora dall’intreccio dei tanti elementi positivi che la compongono.

Conosciamo bene le relazioni di alta qualità perché le abbiamo sperimentate ogni volta che siamo stati bene con qualcuno, ogni volta che abbiamo avvertito la sensazione della pienezza, vivendole. Ben più difficile è però costruire quelle relazioni nell’ambito professionale, nelle relazioni di cura, delle quali abbiamo responsabilità deontologiche. Per questo è richiesta accurata formazione, per la costruzione e la manutenzione dello strumento che lo psicoterapeuta è. Occorre studiare bene, naturalmente, ma soprattutto è necessario conoscersi, avere una sufficiente competenza di sé.

Il nostro lavoro, infatti, ha questa straordinaria caratteristica: lo strumento e l’operatore dello strumento sono la stessa cosa. Il terapeuta è, insieme e nello stesso momento, il pilota e la sua macchina, il pianoforte e il pianista. Noi siamo lo strumento della terapia, noi facciamo terapia attraverso noi stessi, stando in un certo modo nella relazione con l’altro che ci chiede aiuto. Per questo, dobbiamo essere consapevoli che tale condizione comporta la necessità di sapere sufficientemente bene chi siamo e come stiamo in quel momento. Quindi, se tu sei lo strumento del tuo lavoro e lo sei con tutto il tuo corpo, con tutta la tua comunicazione non verbale, con tutto ciò che pensi, affermi e dici, con le mille sfaccettature della tua postura nella relazione, tu devi sufficientemente sapere in ogni momento chi sei, come stai. “Buongiorno dottoressa, come sta?” dovrebbe essere il paziente a chiederlo, perché ciò che gli dirai, dipende da chi sei e da come stai tu in quel momento della tua vita.

 

Questo è un approccio molto interessante, una prospettiva diversa da quel che si studia durante gli anni di psicologia universitaria.

È mia convinzione che gli insegnamenti universitari ai futuri psicologi siano a volte pura esercitazione accademica: non sono nocivi, solo molto distanti da quello che serve a chi deve fare poi quel lavoro. Durante la mia attività didattica, mi rendo conto sempre di più che il grosso del mio insegnamento è un’azione di destrutturazione di posture e convincimenti errati che l’allievo porta con sé dalla propria storia, dal proprio bisogno profondo di fare quel mestiere, da ciò che gli è stato insegnato (più precisamente: che non gli è stato insegnato) durante il percorso universitario, dalle false aspettative sul ruolo terapeutico e sul “terapeuta ideale” che dovrebbe essere. Una gran fatica, che mi viene di chiamare persino “un lavoro di scrostatura”, ma creativa e arricchente, divertente per tutti, in fondo.

Per questo, preferisco andare all’essenziale dello studio della psicologia e trovo che la buona letteratura sia molto arricchente e aiuti a vedere le sfumature della vita, dei sentimenti, i tormenti esistenziali che negli studi accademici vengono spesso trascurati.

 

E riguardo alla formazione degli psichiatri, per quel che ha potuto comprendere nella sua esperienza?

La psichiatria è una specializzazione della medicina, che è di grande aiuto nel nostro ambito nei casi in cui la persona presenta un disturbo suscettibile di interventi farmacologici appropriati, come nelle psicosi, o di altri interventi connessi a un malfunzionamento del sistema nervoso in quanto tale. Tuttavia, l’approccio psichiatrico può rappresentare un limite grave in quelle situazioni in cui, invece, la priorità per aiutare la persona è chiedersi il significato della difficoltà che ci propone, il suo funzionamento relazionale, magari cercando e analizzando gli effetti di una condizione traumatica subìta, ove esistente.

Gli psichiatri che non hanno ricevuto una formazione psicoterapeutica, in genere non sono abituati a porsi domande che riguardano le relazioni attuali e presenti, il senso della vita, della morte o di altri temi molto vicini all’essere umano, come il merito o il demerito.

 

In che senso, merito e demerito?

Mi viene in mente la tematica del merito e del demerito perché nei giorni scorsi ho letto un’intervista di Telmo Pievani a Robert Sapolsky, autore del libro sopracitato, in cui l’autore ragiona su quanto sia di poco conto il libero arbitrio, se consideriamo tutte quelle situazioni che ci hanno determinato come persone, comprese quelle che hanno preceduto la nostra nascita, come le condizioni di salute di nostra madre mentre era in gravidanza o ogni altra condizione relativa ai contesti di vita che abbiamo attraversato. In tal senso, anche il merito ed il demerito sono l’esito di ciò che ci ha determinato. Che merito c’è nell’aver avuto una madre sufficientemente buona e che demerito c’è nell’aver subìto un abuso intrafamiliare a quattro anni di età? Che merito c’è nell’esser nati in un posto pacifico provvisto di acqua, luce, scuole, cibo, strutture sanitarie, lavoro, e dov’è il demerito nel non avere quelle risorse e nell’esser costretti a fuggire?

Non nego l’esistenza di merito e demerito, ma la relativizzo moltissimo, e penso che non ci sia troppo merito nel merito e non ci sia troppo demerito nel demerito. Tutte le qualità che ci riconosciamo e di cui siamo fieri, generalmente non si sono originate dalla nostra volontà, ma sono germogliate all’interno di contesti che le hanno – ripetiamo la parola – determinate. Di ciò ne abbiamo traccia precisa nel linguaggio che usiamo: ci definiamo “dotati” di una virtù o di una capacità, diciamo che una persona che eccelle in qualcosa ha una dote; e dote significa nient’altro che dono.

 

In questo modo non si rischia di cadere nel determinismo che limita la persona a pensare che una certa dote si ha o non si ha?

In un certo senso sì, noi siamo ciò che ci ha determinati, anche se è sempre arricchente e divertente entrare in un processo di perfezionamento di sé, sfidando i nostri limiti o espandendo le nostre doti. Tuttavia, potremmo considerare determinata dalla nostra storia anche la capacità di mettere in atto, o almeno tentarlo, questo processo… Siamo in una di quelle situazioni in cui è vero un certo concetto, ma può essere considerato vero anche il suo contrario, all’interno di una dialettica eterna tra loro: siamo predeterminati, ma possiamo provare a scegliere di essere altro!

Penso che più siamo consapevoli del nostro essere determinati, meno siamo boriosi e giudicanti. Nella pratica clinica, adottare questo punto di vista può aiutarci, da un lato, ad accogliere il malfunzionamento che incontriamo, dall’altro a focalizzarci sulle circostanze che hanno determinato un qualsivoglia disturbo e provare a elaborarle con la persona interessata; e magari proporre al contesto sociale attività di prevenzione, utili a ridurre i rischi di riproduzione di quel dato disturbo.

 

Perché si diventa terapeuti? Quale potrebbe essere la spinta a diventarlo? Nella strutturazione dei percorsi, sia quelli universitari che quelli di specializzazione, quali sono i limiti e i punti di forza?

Secondo alcuni filoni di pensiero, e seguendo Freud, chi svolge una professione di cura sta riproponendo la cura che ha provato ad agire, senza riuscirci, verso un genitore o una parte di sé ferita. Anche io penso che la spinta ad aiutare gli altri sia tanto più forte quanto più siamo stati incapaci di riuscire ad aiutare persone importanti per noi, nella nostra età evolutiva. A questo però aggiungo anche un aspetto vocazionale, ideale, nel senso meno patologico possibile dei due aggettivi. Aiutare ci realizza come esseri umani, riconoscere le ingiustizie (anche le condizioni traumatiche lo sono), e combatterle, può dare pienezza alla vita. Desiderare di essere un terapeuta non è il sintomo di qualche malattia, è l’indicatore di una propensione, di un’attitudine che porta con sé una bella energia che, se filtrata attraverso lo studio, la terapia personale e la formazione, è di grande utilità per il contesto e può essere fonte di soddisfazione personale.

È un lavoro che dà tante più soddisfazioni quanto più si accettano i limiti reali propri, quelli della possibilità di cambiamento e quelli imposti dal contesto; e a questo serve la formazione e il dialogo con la comunità dei colleghi.

In Italia, in particolare, la formazione in psicoterapia è gestita in modo disordinato, molto creativo, sia nel senso positivo che ironico del termine: ognuno opera come più ritiene opportuno, applicando la teoria che più preferisce, sostanzialmente senza dar conto, nei fatti, a (quasi) nessuno, data l’immensa e non casuale difficoltà – probabilmente: impossibilità – di definire modelli di intervento predefiniti.

Nel nostro Paese, spesso i percorsi formativi sono piuttosto disastrosi perché sono il risultato di un approccio scientista che cerca di “scimmiottare” la medicina, unito ad una formazione universitaria e scolastica in cui ingoiamo manuali di ottocento pagine che non ci serviranno granché nella vita.

Nella pratica, i controlli e le verifiche rispetto ai programmi dichiarati delle Scuole di psicoterapia sono davvero scarsi. Sussiste un controllo blandamente burocratico che probabilmente fa parte della fase storica in cui noi psicologi siamo: creativa e per certi aspetti ancora caotica.

Di una cosa io sono certo: lo psicologo, lo psicoterapeuta, al termine della sua formazione, deve sapere sufficientemente bene “chi è” e “come sta”, per poi potersi sperimentare nell’azione clinica. Con questo fine in mente, nella scuola di cui sono co-responsabile, è prevista la fase della “supervisione diretta”. L’allievo sta in stanza con il paziente o la famiglia, mentre il didatta del gruppo sta nella stanza accanto con lo specchio unidirezionale, per far sì che il terapeuta in formazione si metta alla prova, sotto la sua guida e davanti ai colleghi. Nel nostro lavoro, lo sguardo degli altri colleghi è importantissimo, perché può darci un altro punto di vista sulla pratica terapeutica che portiamo avanti e può allertarci in caso di errore. Quindi, il mio suggerimento è di lavorare con lo specchio unidirezionale, che permette di essere osservati mentre si lavora, e di lavorare in coppia, in regime di co-terapia o di simulazione, con persone di cui vi fidate, così vi potete scambiare informazioni su come, da un punto di vista terzo, vi muovete nelle relazioni. Non sempre quello che pensiamo di aver fatto in seduta è ciò che abbiamo fatto davvero, ad esempio.

Oltre all’importanza della colleganza e della formazione sui fondamentali, ossia sul conoscersi e conoscere il funzionamento umano, bisognerebbe studiare meno manuali diagnostici e più antropologia, sociologia, psicologia sociale, filosofia (in particolare esistenzialismo e fenomenologia) e capire il contesto. Ad esempio, a me ha dato molta ispirazione il libro Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (2014).

Per concludere, vi consiglio di essere attenti al “chi siete” e al “come state”, di mantenervi allenati alla curiosità, di allargare gli spazi mentali e di essere sospettosi verso i tomi troppo ponderosi. A volte, sono stati scritti solo per far sentire intelligentissimi gli autori e ignoranti tutti gli altri.

 

Cosa risponde a chi procede per protocolli ed è sicuro di affrontare con uno specifico metodo le diagnosi?
Amico ti stai illudendo, e te ne accorgerai, perché queste sono illusioni dannose per te e per chi sta davanti a te. Abbraccia a modo tuo la complessità che la vita è, che ciascuna persona è, e sarai più leggero, più libero, più utile a chi cerca il tuo aiuto.

 

Dato che ha lavorato nel pubblico, avrà avuto modo di conoscere molti colleghi con questi orientamenti. Le è mai capitato che facessero un bel lavoro?

Certamente sì, perché la differenza principale non la fanno gli approcci, la differenza la fanno le persone che co-costruiscono la relazione con chi chiede aiuto psicologico. Chiunque sia convinto della centralità della relazione adatterà l’approccio nel modo appropriato ed efficace. Viceversa, se uno psicoterapeuta si illude di aiutare le persone secondo procedure più o meno rigidamente standardizzate, farà solo molta fatica e il risultato sarà scarso. Più la testa del terapeuta sta sul modello teorico, meno starà sulla persona reale e unica che è di fronte a lui/lei.

 

Come ci si capisce tra colleghi di orientamenti diversi?

Se vuoi litigare con un collega che sia del tuo o di un altro approccio, parla di dettagli insignificanti, di tecniche ultra-specifiche. Se vuoi, invece, convergere con il collega, parla dei fondamentali: “Come stai tu con questa persona? Qual è la cosa che ti riesce più utile? Cosa funziona di più secondo te? Dove senti la difficoltà?”.

La questione è che più tu segui un modello esterno e meno incontri la persona, più tu sei libera nel momento in cui incontri la persona e più aderirai alla sua specifica realtà. Il modello di intervento costruisce griglie e barriere che ti danno la sensazione di aiutarti e di guidarti ma, in realtà, non ti fanno entrare in sintonia con te stesso e con la tua ansia.

Vi faccio un esempio: stanno uscendo i dati del progetto “Vivere meglio” di Enpap, un progetto che ha mobilitato quasi un migliaio di colleghi che hanno fatto molte terapie con diversi modelli e protocolli di riferimento. I risultati sono che, per l’80%, le persone che hanno fatto questo percorso di 10-12 sedute sono entusiaste di aver incontrato qualcuno che li ha ascoltati, qualcuno con cui parlare; le differenze tra approcci messi in atto sono state insignificanti.

Se impariamo a guardare all’altro come persona e ci alleniamo a curare la relazione, faremo sempre qualcosa di utile. La differenza la fa il modo in cui tu interpreti il ruolo di psicoterapeuta. I colleghi che credono che il loro modello funzioni sempre, svelano un elemento della propria rigidità e della propria insicurezza. Se, invece, un professionista preparato mette al primo posto la relazione e accoglie l’altro con attenta umiltà, sta già agendo in maniera terapeutica.

 

Durante il workshop dal titolo La pratica dell’umiltà nell’agire terapeutico ha parlato del fatto che “più è grande la difficoltà del paziente più ci dobbiamo fare piccoli, più dobbiamo non illuderci di avere lo strumento adatto per…”. Come si applica questo concetto del “farsi piccoli” nella sua pratica clinica?

Nel concreto “farsi piccoli” significa contrastare attivamente la propria spinta onnipotente. Prendiamo ad esempio il campo della medicina: quando un medico ha un caso particolarmente difficile a volte utilizza frasi del tipo “ho visto un bel cancro” per riferirsi a qualcosa di non comune, questo perché ci si sente orgogliosi davanti ad un problema grave e siamo interpellati. È come se si attivasse un senso di onnipotenza, legato a poter fare qualcosa di grande, come nel caso di salvare una vita. La stessa cosa può capitare in psicoterapia, di fronte a casi particolarmente complessi o a situazioni in cui altri colleghi si sono sperimentati vanamente prima di noi.

Invece, gli psicologi devono fare la cosa opposta: se una situazione è difficile, deve essere riconosciuta come tale, e questo è già un primo movimento terapeutico, come si intuisce, perché riconosce la dignità della difficoltà e del dolore che la accompagna. Quello che si deve fare in questi casi è lavorare molto e a lungo. Una caratteristica necessaria per noi professionisti è la “consapevolezza della difficoltà”, che non deve essere confusa con una mancanza di fiducia o di speranza, che diventerebbero subito elemento di demotivazione, per noi e per il paziente. Al contrario, tale consapevolezza permette di calibrare consensualmente le aspettative di ognuno, con umiltà e autenticità, così da essere utili alla persona di cui ci si sta occupando, anche quando la situazione è estremamente difficile.

Un assioma della nostra professione è che la relazione terapeutica aiuta le persone a stare meglio, seppur gradualmente e in modo molto soggettivo; tuttavia, è importante ricordare che i miglioramenti non sono sempre durevoli, a volte si torna indietro, perché la vita è difficile in sé, per tutti, in particolare per le persone che hanno subìto condizioni traumatiche serie, e noi dobbiamo essere lì, per riprendere il comune tentativo di migliorare la condizione di vita di chi ce lo chiede.

Stiamo, quindi, parlando di essere umili e di avere speranza. Quest’ultima caratteristica deve essere vista non in un’ottica di passività, ma come la spinta attiva che porta le persone a cercare risorse e soluzioni, nonostante i vincoli della situazione.

Se vogliamo fare un esempio del grande valore del “farsi piccoli”, possiamo citare i servizi per la tossicodipendenza e per la salute mentale, dove tante forme di cronicizzazione sono frutto di una presa in carico inadeguata, quasi sempre dovuta al fatto che tali servizi sono considerati spesso come residuali, e lasciati sguarniti in molti modi (a partire dall’assenza di personale e di supervisione, per citare due macro-problemi). Le situazioni che vi troviamo sono difficili non solo perché spesso le persone arrivano ai servizi con alle spalle una storia clinica rilevante; ma anche a causa delle inadeguate risposte di politica sanitaria.

 

In merito allo scambio con ICP, le andrebbe di raccontarci come si è costruito questo legame e cosa ne sta traendo?

Ho conosciuto con grande piacere Massimo Giliberto durante un evento di presentazione del mio libro, organizzato da alcuni colleghi padovani di AltraPsicologia. Poche ore prima della presentazione ho scoperto che Massimo è originario di Grottaglie, città di cui sono stato sindaco. Non ci siamo incontrati prima perché io sono arrivato lì nel 1981, mentre lui era partito l’anno prima.

Abbiamo anche fatto insieme un workshop nella mia scuola, l’anno scorso, e ci siamo sentiti perfettamente sintonizzati.

Nella nostra professione, la condivisione tra colleghi è fondamentale. Stare nella comunità, e manifestarsi in essa, ci permette di raccogliere i feedback degli altri professionisti, che concordano o meno con il nostro punto di vista. Le supervisioni e le intervisioni sono altrettanto utili, soprattutto all’inizio della formazione, per acquisire punti di vista diversi e perciò stesso arricchenti.

 

Si sente di voler dire qualcosa ai futuri psicoterapeuti che stanno costruendo la professione nel mondo di oggi?

Per funzionare bene, l’ho già detto, ci serve essere “abbastanza competenti di noi stessi”. Uso l’aggettivo abbastanza perché non potremmo conoscerci totalmente, neanche se stessimo tutta la vita in psicoterapia, perché siamo troppo vasti.

Oltre a conoscerci il più possibile, è importante anche: stare dentro lo scambio con i colleghi; essere curiosi, il più che si può; e non fossilizzarsi sui tecnicismi, stando invece attentissimi ai fondamentali, all’essenziale del nostro lavoro.

Le agenzie di formazione offrono migliaia di corsi che sono una ricchezza, ma che possono farci sentire ignoranti, poiché non potremo mai acquisire tutte quelle conoscenze, neanche se avessimo dieci vite a disposizione, in parallelo. Non riusciremo mai a leggere e studiare tutto quel che sarebbe opportuno e bello leggere e studiare, non riusciremo mai a seguire tutti i corsi e le conferenze che sarebbe magnifico seguire, ma ciò vuol dire solo che siamo umani e abbiamo dei limiti; e che vederli e accettarli è il primo passo per decidere se superarli, meglio se in compagnia di altri come noi. In ogni caso, teniamo viva il più possibile la nostra curiosità su ogni cosa che riguarda gli esseri umani.

 

Si è mai sentito presuntuoso, magari all’inizio della sua carriera? E con che sguardo si guarda adesso che ha questo sguardo di non presuntuosità?

Tutte le presunzioni si pagano e a ognuna di esse segue immediatamente una pena. Secondo me, tutti gli esseri umani fanno gli errori più gravi quando sono troppo convinti di qualcosa (ne sono un esempio tutti i genitori, che tante volte sbagliano di più proprio quando sono convintissimi che quella sia l’unica cosa giusta da fare). Anche io ho peccato di presunzione, pagandone pegno, ed è a questo proposito che penso sia molto importante restare sotto lo sguardo degli altri e provare ad ascoltare profondamente il loro punto di vista su di noi.

Un altro utile strumento è “coltivare il dubbio” che, nel nostro lavoro, protegge noi e i nostri pazienti, perché ci permette di non metterci in posizioni che, dopo poco tempo, ci potrebbero sembrare sbagliate o ridicole.

 

Bibliografia

 

Bruni, F., Vinci, G. & Vittori, M. L. (2010). Lo sguardo riflesso. Psicoterapia e Formazione. Roma: Armando Editore

 

ENPAP (2023). Progetto “Vivere Meglio”. Risultati preliminari per la valutazione dell’efficacia dei percorsi di trattamento psicologico e psicoterapeutico per ansia e depressione del Progetto “Vivere Meglio”. Consultato da https://www.enpap.it/doc/borse_lavoro/ReportVivereMeglio_maggio2023.pdf

 

Pievani, T. (2024). Il libero arbitrio è solo un’illusione. Intervista a Robert Sapolsky, biologo, etologo e neuroscienziato di Stanford. La lettura de Il Corriere della Sera. Consultato da https://www.roiedizioni.it/il-libero-arbitrio-e-solo-un-illusione/

 

Rovelli, C. (2014). Sette brevi lezioni di fisica. Milano: Adelphi Edizioni

 

Sapolsky, R. M. (2024). Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio. Milano: ROI Edizioni

 

Vinci, G. (2022). Essere terapeuti. Forza e fragilità dello psicoterapeuta e della psicoterapia. Roma: Alpes Italia

 

Vinci, G. & Cancrini, L. (2013). Conversazioni sulla psicoterapia. Roma: Alpes Italia

 

Note sulle autrici

 

Giorgia Albanese

Institute of Constructivist Psychology

giorgia.albanesepsicologa@gmail.com

 

Specializzanda in psicoterapia presso l’ICP di Padova, laureata in Neuroscienze e Riabilitazione Neuropsicologica presso l’Università degli studi di Padova. Dopo una parentesi dedicata alla ricerca in Inghilterra e a Padova, attualmente lavora come operatrice presso la Pronta Accoglienza Villa Ida di Padova, struttura che si occupa del recupero e trattamento di persone con dipendenza da sostanze. In parallelo lavora come libera professionista in studio e gestisce progetti nelle scuole secondarie di secondo grado.

 

Grazia Barbara Conti

Institute of Constructivist Psychology

graziaconti.gc90@gmail.com

 

Specializzanda in psicoterapia, attualmente lavora come insegnante di sostegno e collabora con il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli studi di Padova allo sviluppo di materiale e percorsi educativi per l’inclusione rivolti a insegnanti, genitori, bambini e bambine.

 

Grazia Cristaldi

Institute of Constructivist Psychology

cristaldigra@gmail.com

 

Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Laureata in Psicologia Clinica presso l’università degli studi di Padova. Attualmente collabora sia con l’Associazione Giovanni Danieli, come educatrice, sia con la Fondazione Ania Cares, con lo scopo di fornire assistenza psicologica alle vittime di incidenti stradali e ai loro familiari.

 

Claudia D’Agostini

Institute of Constructivist Psychology

pinadagostini@gmail.com

 

Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Laureata in Psicologia di Comunità, della Promozione del Benessere e del Cambiamento Sociale presso l’università degli studi di Padova. Da sempre coinvolta nella vita di Comunità e in diverse esperienze di volontariato a favore di minori che vivono in condizioni svantaggiate (in Italia e all’estero – Romania e Senegal), lavora da diversi anni come insegnante nella Scuola dell’Infanzia.

 

Caterina Saccardo

Institute of Constructivist Psychology

caterina.ls.saccardo@gmail.com

 

Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia Clinico-Dinamica presso l’Università degli Studi di Padova. Attualmente lavora come psicologa presso RSA Istituto Palazzolo Santa Chiara di Vicenza per persone adulte con disabilità.