Ciao Giovanna, grazie per aver accettato di partecipare a questa intervista.
Insegnante di storytelling o storyteller: in questo periodo storico si sente parlare tanto di storytelling, esattamente cos’è?
Lo storytelling è una tecnica. Per l’atto di raccontare storie si potrebbe semplicemente dire “raccontare storie”; lo storytelling invece è l’atto di raccontare storie ma con l’accento sul “come”: come si fa? Che cosa si fa quando si racconta una storia?
Ci sono varie teorie sullo storytelling, come per ogni disciplina. Quella a cui mi riferisco io è quella che ho appreso presso l’International School of Storytelling all’Emerson College, in Inghilterra, che divide la storia in due componenti, un po’ come nel corpo umano: una struttura centrale e tutto quello che ci sta attorno. Se vogliamo dare una definizione si può dire che una storia, rispetto a una collezione di dati, presenta in più tutto un tessuto connettivo di emozioni, il proprio punto di vista e tutto il lato soggettivo del racconto.
Come nasce e che modalità utilizza? Le modalità sono cambiate nel tempo?
L’uomo racconta storie da quando esiste. Fin dai tempi delle caverne, gli uomini vedevano i bisonti, li disegnavano e si raccontavano storie in proposito. Questo è un bisogno intrinseco dell’uomo. Inoltre, quello di unire i fenomeni, di unire le cose che succedono attraverso un filo narrativo è non solo un bisogno, ma anche un modo di dare senso alle cose. Pensa per esempio alla mitologia, che cosa succedeva? Gli uomini si accorsero dell’alternanza delle stagioni, ovvero che certi periodi erano più freddi, in altri spuntavano i fiori, ecc. Come ha giustificato l’uomo greco tutto ciò? Creando una storia, quella di Demetra e Persefone, in cui c’era un fil rouge, un filo invisibile che univa tutti gli eventi: così si costruiscono le storie.
Tutto questo fa pensare ai vari filoni narrativi, per esempio in medicina si parla di medicina narrativa, oppure al teatro: che differenze trovi fra lo storytelling, il teatro o le varie tecniche narrative utilizzate oggi?
Nello storytelling riconosciamo tre momenti. Il primo è quello della ricerca: devo trovare la storia che voglio raccontare. Il secondo momento è il crafting, ovvero il lavoro hard sulla storia, come costruiamo la nostra storia; questa è la parte creativa propriamente detta, prima si costruisce lo scheletro e poi lo arricchiamo con tutte le parti emotive, visive. Lo storytelling è una tecnica che si basa su immagini che si succedono.
Il terzo momento è lo staging, ovvero il raccontare vero e proprio.
Questa è già una prima differenza. Inoltre, nello staging, noi non lavoriamo su testi imparati a memoria, ma lavoriamo sulla storia, su una sequenza di immagini sulla quale poi si improvvisa, perché l’idea dello storytelling è che la cosa più importante sia la relazione con il pubblico, la quale si costruisce di volta in volta. Quindi, partendo dallo stesso contenuto, se dobbiamo passarlo a dei bambini o a dei professori universitari, useremo un linguaggio diverso, dei tempi diversi. Lo storytelling permette di adeguare ogni volta la comunicazione al bisogno di relazione che c’è in quel momento. Il teatro questo non lo fa perché, per quanto ci siano componenti di improvvisazione, bene o male si tratta sempre di un testo imparato a memoria e si rispetta l’autore, tranne nella commedia dell’arte. Quindi ci sono delle somiglianze tra la commedia dell’arte e lo storytelling.
Se non sbaglio tu provieni dal mondo del teatro. Cos’è che poi ti ha portato allo storytelling?
Beh, la battuta è che sono passata allo storytelling perché non riuscivo a imparare i testi a memoria; è una battuta ma neanche tanto, nel senso che l’idea di memorizzare più testi per me era particolarmente difficile e anche un pochino limitativa. La cosa bella dello storytelling è che sei autore, regista e interprete di te stesso, segui il processo creativo a tutto tondo. Per lo storytelling si usa molto la metafora del jazz: quando sei lì la cosa si crea in quel momento, è un’arte dell’improvvisazione, a volte si fa da soli, a volte con altri, a volte si raggiunge la blue note, a volte no.
Qual è la tua esperienza in ambito teatrale?
Ho fatto prima l’Accademia di Arte Drammatica e poi ho intrapreso la specializzazione in pedagogia. Sono quindi una pedagogista teatrale e le prime persone con cui ho applicato lo storytelling, senza sapere peraltro ancora che si chiamasse così, sono state persone diversamente abili che non sapevano né leggere né scrivere. Quindi, visto che io vengo dal teatro di prosa, non dal teatro di movimento o dal teatro danza che sicuramente hanno altri strumenti, potevo usare quello che conoscevo, ovvero lo strumento “testo”; quindi
per riuscire a trasmettere il testo ho dovuto raccontarlo. Lì ho scoperto qualcosa di più, ovvero che il fatto stesso di raccontare già creava delle cose, non mi serviva soltanto per trasmettere il mio contenuto, ma ragazzi con sindrome ipercinetica o in stato di agitazione traevano beneficio soltanto nell’ascoltare una storia.
Incredibile… Parlavi di ragazzi con sindrome ipercinetica o che facevano fatica a parlare, e questo è un ambito di applicazione dello storytelling, ma in quali altri ambiti può essere applicato? Non so, penso per esempio ai lavori con le aziende o in età evolutiva…
Lo storytelling si può applicare praticamente a tutto, è una disciplina trasversale, si occupa più del come si racconta che del cosa. Il contenuto a noi interessa poco, siamo i tecnici della costruzione della storia. Sapere la nostra storia è estremamente importante perché la nostra storia dice chi siamo. Pensiamo per esempio alle religioni, noi siamo imbevuti delle storie che la nostra cultura ci tramanda. In un’azienda sapere chi siamo o che stiamo tutti raccontando in qualche modo la stessa storia è importante, la mission o la vision non sono altro che questo.
E in età evolutiva?
Il bambino costruisce la sua identità attraverso le storie che ascolta e racconta. Per esempio, dico l’ovvio, se ti raccontano solo storie di principesse inette o di principesse eroine, beh, la tua identità sarà influenzata da questo!
La parola tedesca per storia è Geschichte, che vuol dire “strati”. L’idea è che le storie si sedimentano e la nostra identità è come tagliare una fetta di millefoglie, si prendono tutti i vari strati che si sono sedimentati nelle storie che abbiamo raccontato, che ci siamo raccontati nel corso di una vita.
Storie raccontate dunque… Pensavo alle parole e, per contrasto, mi chiedevo: si può lavorare anche con le storie che racconta il corpo? Lo storytelling prevede anche un lavoro sulla sfera corporea, è possibile lavorare in questo senso con lo storytelling?
Ci si lavora, ma ci si lavora come strumento, non come fine. Per esempio, sappiamo che il 60-70% della comunicazione umana è non verbale, quindi è una cosa su cui lavoriamo per averne totale consapevolezza. Ci sono fasi del lavoro in cui si toglie la parola, però il nostro lavoro è sulla parola. In realtà, più che sulla parola lavoriamo sulle immagini; per esempio, nel nostro lavoro è poco importante in che lingua lavoriamo, perché lavorando per immagini, se uno parla più lingue o più dialetti, poi dalla stessa sequenza di immagini può comunque lavorare.
Si può lavorare anche unendo storytelling e mimo, oppure storytelling e clowning.
Se non sbaglio sei partita recentemente con un corso-esperimento di storytelling e clowning in Inghilterra, giusto?
Sì, abbiamo tenuto un corso all’Emerson College con un’insegnante di clowning e abbiamo fatto l’esperimento di mettere insieme il clowning e lo storytelling proprio in quest’ottica, visto che lo storytelling usa più la parola e il clowning il corpo, e ci siamo accorti che i livelli di sovrapposizione fra le due discipline sono molto più ampi di quello che ci aspettavamo.
Conosci il costruttivismo? Hai visto dei link, dei punti di unione con lo storytelling?
Sì, mi sembra che la cosa più importante che hanno in comune sia che si parte dalla persona, che non ci siano delle regole “da fuori”. Anche quando si racconta una storia con lo storytelling si lavora sul punto di vista, il punto di vista personale. Per quanto si racconti con delle strutture, il lavoro è sempre di tipo personale, la visione del mondo è quella di chi parla, e mi sembra che questo aspetto sia cruciale anche nel costruttivismo. E poi c’è la centralità della persona con tutti i suoi aspetti…
Cioè il narratore non è esterno alla storia che racconta.
No. E anche il fatto che ognuno racconta la propria storia, lavorare sulle proprie storie, ascoltare, acquisire e anche poter cambiare la propria storia.
Mi sembra anche di capire che si possono trovare diversi modi di raccontare una stessa storia.
La cosa però da sottolineare è che lo storytelling non è una terapia. Ecco, questa forse è una differenza, ovvero nonostante abbia un potere curativo, o il potere di mettere le persone in contatto con se stesse, con le proprie storie, e anche un grandissimo potere trasformativo, stiamo comunque parlando di un’arte, un’arte dell’oratoria, un’arte dell’immaginazione. La mia opinione è che non debba andare a toccare sfere per cui ci vogliono delle competenze specifiche.
Nonostante questo, però, sei riuscita ad applicarlo anche in ambito clinico se non sbaglio, com’è andata?
Sì, abbiamo lavorato con un gruppo misto composto da medici, infermieri, pazienti oncologici e parenti, e lì la funzione principale è stata quella di creare ponti, creare relazione. Lo storytelling ha questo straordinario potere di creare relazioni e anche di tirar fuori alcune memorie, alcuni ricordi.
E se non sbaglio lo hai applicato anche nella disabilità…
Nelle disabilità motorie, per esempio, lo storytelling forse è l’arte che ogni corpo può cogliere e condividere, perché anche una voce flebile o un corpo che non si può muovere può raccontare, e questa è una grande possibilità.
Nelle disabilità cognitive, per esempio, abbiamo riscontrato, in un esperimento fatto all’Emerson College, che un gruppo di persone inizialmente non responsivo, che non parlavano prima del processo, durante l’ascolto delle storie è stato in grado di rispondere a stimoli precisi in maniera precisa. Non credo che ci siano ancora studi che spieghino perché questo succede, ma nella mia esperienza è successo. Ho visto anche che le storie hanno un enorme potere calmante.
E da quello che mi dicevi anche in altre occasioni, se non sbaglio, è come se noi riuscissimo a raccontare questa disabilità in maniera diversa, e questo agisce sulla persona che presenta disabilità…
Vedi, perché qualcuno possa raccontare una storia in maniera diversa, noi per primi che facilitiamo il processo dobbiamo credere nelle diverse possibilità, nelle diverse storie che una persona può raccontare. Se etichettiamo una persona in un determinato modo, lei continuerà a vedersi in quel modo lì, e noi con loro. Invece bisogna aprire le infinite possibilità e lasciarci stupire. Per esempio, ho fatto un progetto in una casa famiglia per persone richiedenti asilo, provenienti da diverse culture, e stavo cercando di farli lavorare su una storia che li accomunasse in Italia, e dopo un po’ che sembrava di essere a un binario morto, ho chiesto loro di disegnare alcuni elementi che amavano per vedere cosa avessero in comune. L’unica cosa che emerse come elemento in comune fu la foresta, che chiaramente non era un tipico paesaggio italiano ma africano; quando la tecnica funziona è migliore dei nostri stessi pregiudizi o preconcetti. La tecnica permette alle persone di raccontare la propria storia, e se ci fidiamo della tecnica, questa può sorprenderci.
Nel costruttivismo noi parliamo per esempio di “approccio credulo” quando il paziente ci porta la sua storia, proprio accogliendo quello che la persona propone senza chiederci se è vero, se è frutto di pregiudizi, proprio dando una plausibilità alla storia stessa; mi sembra che sia una cosa molto simile a quello che tu dicevi.
Si… Lì sicuramente, nel caso dei richiedenti asilo, le persone quando sono arrivate da noi avevano una storia molto costruita, ovvero “mi chiamo Abdul, vengo dal Mali, sono arrivato in questa data…”, ripetuta talmente tante volte che la difficoltà sembrava proprio quella di riuscire ad andare oltre questo schema, anche perché c’era una serie di conflitti, una serie di cose a cui volevamo dedicarci… E poi, nel giro di un paio d’ore, invece che vedere un gruppo di richiedenti asilo abbiamo visto dei ragazzi come tanti di quelli provenienti da ogni parte del mondo. E li abbiamo fatti lavorare sulla pantomima perché c’era una serie di problemi di comunicazione, praticamente ogni frase doveva essere ripetuta in italiano, in inglese e in francese, allora quello che ho fatto è stato raccontare loro una storia molto semplice chiedendo loro di ripeterla in pantomima… Si sono divertiti come si divertono tutti i ragazzi del mondo a fare teatro, a prendersi in giro…
Che meraviglia! Bene, fra poco ti lascio andare perché oggi inizi le tue docenze all’Institute of Constructivist Psychology. Come ti senti rispetto a questo nuovo inizio?
Bene, sono molto curiosa di incontrare i ragazzi e, a proposito di relazioni, c’è sempre un po’ di incertezza, perché il nostro lavoro è quello di preparare delle ipotesi e anche di rispondere alle domande che incontriamo, e quindi la prima ora è quella in cui si chiede alle persone “che cosa sei venuto a cercare?”, “che cosa ti interessa?”, “cosa posso fare io per te?”. L’idea è di essere a servizio, non di indottrinare qualcuno, e quindi ogni volta non sai mai cosa ti aspetta, cosa ti chiederanno e se sarai all’altezza di poter rispondere alle richieste di chi incontrerai…
Allora ti faccio un grande in bocca al lupo per questo nuovo inizio e che sia l’inizio di un lungo percorso insieme!
Grazie.
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