1. Introduzione
Nel presente contributo presentiamo alcune riflessioni biografiche relative alla nostra esperienza di professioniste impiegate nel sistema di accoglienza di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Negli ultimi anni si è assistito sul territorio nazionale a un forte aumento di ingressi di migranti che, giunti prevalentemente via mare, hanno presentato domanda di protezione internazionale. Per far fronte al grande numero di richieste, le istituzioni hanno elaborato risposte a carattere prevalentemente emergenziale. A fianco del già esistente e insufficiente Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e dei Rifugiati (denominato d’ora in avanti con l’acronimo SPRAR[1]), caratterizzato dalla stretta collaborazione tra enti locali ed enti del privato sociale nella gestione di piccole strutture di accoglienza sparse sul territorio nazionale, sono stati istituiti Centri di Accoglienza Straordinaria di piccole e grandi dimensioni (denominati da qui in poi CAS) che, coordinati territorialmente dalle Prefetture, sono stati affidati alla gestione di enti del privato sociale attraverso gare d’appalto indicanti i diversi servizi da erogare agli accolti (come, ad esempio, il servizio di insegnamento della lingua italiana, di mediazione linguistica, di tutela e orientamento legale, di sostegno psicologico, di orientamento ai servizi del territorio). Si è pertanto dato vita ad un sistema di gestione binario dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (SPRAR e CAS), caratterizzato da diversi standard, da diverse risorse a disposizione e da diverse modalità di gestione di tali risorse.
All’interno di questo fenomeno e del suo processo di istituzionalizzazione, Giulia Storato ha lavorato nel ruolo di operatrice in piccoli Centri di Accoglienza Straordinaria in Veneto, Elisa Michelon nel ruolo di psicologa dell’accoglienza straordinaria e del progetto SPRAR del Trentino.
L’obiettivo del presente contributo non è quello di descrivere o proporre una critica al sistema dell’accoglienza, ma di mettere in luce, attraverso un esercizio di auto-riflessività, le tensioni, le rotture, le negoziazioni, le ricomposizioni, che abbiamo agito nei nostri ruoli performati all’interno di piccoli e grandi centri di accoglienza. Il nostro intento è anche quello di offrire una lettura dei nostri presenti e passati ruoli professionali, alla luce non solo delle nostre esperienze, ma anche delle nostre reciproche formazioni: Elisa Michelon di psicoterapeuta costruttivista in formazione e Giulia Storato di sociologa e ricercatrice sociale. Seguono dunque alcune riflessioni maturate nel corso delle nostre esperienze professionali, dispiegate nella forma di un dialogo ricorsivo tra i due punti di vista che porterà, attraverso percorsi diversi, a conclusioni simili.
Senza pretese e volontà di generalizzazione, si spera di poter offrire spunti di analisi e di comprensione di una realtà sociale sempre più alle luci della ribalta, ma forse ancora troppo sconosciuta a chi non rientra nella stretta, e quanto mai precarizzata, cerchia di coloro che lavorano nel sistema dell’accoglienza.
2. Riflessioni di contesto: un sistema diversamente strutturato e ambivalente
Il sistema dell’accoglienza nasce per fornire supporto a richiedenti protezione internazionale nel tempo di esame della loro domanda e a titolari di protezione internazionale nei sei mesi successivi all’ottenimento del riconoscimento. I progetti di accoglienza sono quindi per definizione progetti a termine, la cui durata, soprattutto nel caso dei CAS, dipende dai tempi di esame della domanda da parte delle commissioni territoriali o dei tribunali, sfuggendo al controllo di tutti coloro che si trovano di fatto a operare al suo interno. Oltre a questa caratteristica intrinseca, che condiziona inevitabilmente l’agire quotidiano di tutti gli attori coinvolti, l’intero sistema presenta alcune ambivalenze.
La prima può essere espressa nella dicotomia rigidità/flessibilità. L’attività quotidiana di ogni centro di accoglienza è definita e sviluppata secondo regole definite a livello nazionale (per gli ex-SPRAR) o territoriale (per i CAS di piccole e grandi dimensioni) che ogni singolo ente gestore è chiamato a seguire. Attraverso la predisposizione di specifici bandi, le istituzioni deputate definiscono la cornice di legittimità entro la quale gli enti del terzo settore possono lavorare, indicando i servizi che devono essere garantiti alle
persone accolte. Sono poi gli enti gestori a stabilire all’interno di tali indicazioni, ed è in questo senso che si riscontra una certa flessibilità, le modalità attraverso le quali erogare suddetti servizi. A titolo esemplificativo e limitatamente alla nostra esperienza, il servizio di erogazione del vitto, previsto dai bandi, può essere affidato a ditte di catering, che si occupano quindi della preparazione e somministrazione dei pasti, oppure essere in capo all’operatore dell’accoglienza che cura gli aspetti organizzativi assegnando la preparazione dei pasti ai singoli beneficiari accolti. La modalità con cui un servizio viene progettato e reso esecutivo delimita i confini, progettuali e pratici, ma come si vedrà in seguito anche simbolici, entro i quali le diverse figure professionali dell’accoglienza si trovano a operare e gli spazi di relazione, e di potenziale conflitto, tra operatori, persone accolte e istituzioni. Parimenti, nell’operativizzare la cornice normativa nelle singole progettualità, può emergere un’ulteriore ambivalenza tra controllo e riconoscimento. La richiesta di controllo sui tempi e sugli spazi delle persone accolte può entrare ad esempio in conflitto con il riconoscimento dei loro singoli bisogni, aprendo a possibili tensioni di ruolo che possono essere ricomposte attraverso la riproposizione di modelli assistenzialistici e di dipendenza.
Il sistema di accoglienza si presenta quindi come un sistema diversamente strutturato e ambivalente, in cui regole del gioco stabilite dalle istituzioni vengono applicate da enti gestori secondo i propri riferimenti che vengono a loro volta interiorizzati e resi ulteriormente operativi dai professionisti dell’accoglienza nella relazione quotidiana con i rifugiati e richiedenti asilo. Questi ultimi rappresentano i “beneficiari” di tali servizi, in una definizione in cui si rende manifesta la rappresentazione dominante che li definisce come ultimi destinatari di un processo che li riguarda, ma che non li coinvolge, di cui possono solo beneficiare e di cui lo stesso operatore è espressione nel suo ruolo di fulcro tra diverse leve di forza. Il sistema d’accoglienza si presenta quindi come un contesto fortemente strutturante, che tende a immobilizzare le persone all’interno di relazioni rigide, caratterizzate da forte dipendenza e asimmetria di potere. Operare all’interno di questo sistema caratterizzato da forti ambivalenze strutturali ha significato per noi interrogarsi non solo sul nostro rapporto con le istituzioni, ma anche su tutta una serie di questioni controverse riguardanti il nostro ruolo professionale e i relativi posizionamenti all’interno della relazione con le persone assistite.
3. Le nostre fatiche: tra rappresentazioni dominanti e la costruzione di narrazioni altre
[Scrive Michelon E.] Per quanto riguarda il ruolo di psicologa all’interno dei progetti d’accoglienza vi è stata, tra le prime fatiche, ad esempio, quella di riconoscere nelle persone che incontravo un’agency e delle possibilità di “movimento” rispetto alle difficoltà portate e quindi di dare senso a uno spazio di tipo psicoterapeutico, inteso come spazio di elaborazione attiva del proprio sistema di costrutti. Vi è stata infatti per molto tempo la difficoltà di riconoscere i richiedenti asilo e rifugiati incontrati nei colloqui come “costruttori di realtà”; nelle loro storie costellate di eventi traumatici sia legati alla fuga dal paese d’origine, che al viaggio, che alle difficoltà di integrazione nel territorio italiano, emergeva per me in maniera preponderante il peso della Storia e delle dinamiche socio-politiche, che andavano a oscurare le dimensioni più individuali e psicologiche di costruzione e ricostruzione della realtà. Nelle loro narrazioni emerge spesso un posizionamento del tipo “vittima delle circostanze” e “vittima della storia”, di una storia personale che si interseca profondamente con la Storia con la S maiuscola e rispetto a cui, per le difficoltà di cui sopra, io stessa tendo a colludere.
La comunanza rispetto a questo modo di costruirsi, al di là delle diverse provenienze o delle singole storie, mi ha sollecitato a interrogarmi anche su alcuni elementi di contesto in cui, loro come rifugiati e io come psicologa del sistema, siamo inseriti, e ipotizzo che la costruzione di sé come “vittima delle circostanze” potrebbe essere vista, oltre che come una costruzione personale del singolo rifugiato, come una costruzione di tipo “sociale”. Provo dunque a vederlo come un “costrutto pubblico”, inteso come “il costrutto condiviso da una gran parte di persone che appartengono a una determinata società, o dalla società intera” (Scheer, 2003, pp. 5-6). La definizione stessa di rifugiato include, in qualche modo, un’idea di “vittimizzazione”, dal momento che sta a indicare le persone che sono state costrette a lasciare la propria terra per “il giustificato timore di essere perseguitate per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche (Art. 1, lett. a, Convenzione di Ginevra, 1952)”. In genere, infatti, vengono differenziati dalle amministrazioni, dalle agenzie umanitarie e nel discorso pubblico dai “migranti” sulla base del principio della “scelta”: i rifugiati in qualche modo non hanno avuto scelta, perché le situazioni contingenti erano talmente gravi da mettere a rischio la loro sopravvivenza, per cui l’unica cosa che potevano fare era fuggire; i migranti invece sceglierebbero di spostarsi non a causa di una diretta minaccia di persecuzione o di morte, ma per migliorare la propria vita attraverso il lavoro, o in alcuni casi per l’istruzione, per ricongiungersi con la propria famiglia o per altri motivi. Al di là dell’utilità dell’utilizzo di queste categorie per leggere le esperienze delle persone che nel mondo si spostano e che lo fanno per i più svariati motivi, ipotizzo che questa distinzione, all’oggi molto diffusa, canalizzi e abbia canalizzato dei significati e delle implicazioni.
Nel primo caso, ad esempio, sembra che la scelta, l’agency della persona sia nascosta, sottaciuta in nome della gravità delle circostanze che caratterizzano la sua esistenza, nel secondo caso invece il migrante è soggetto attivo che anticipa gli eventi, calcola vantaggi e rischi e fa delle scelte coerenti con tali anticipazioni.
L’idea di “essere vittima di” è quindi veicolata in qualche modo dalla definizione stessa di “rifugiato” data dalla Convenzione di Ginevra, che essendo basata su un approccio universalistico e individualistico della persecuzione pone l’accento sul “giustificato timore di essere perseguitato” come singolo individuo, piuttosto che sull’idea di essere potenzialmente esposti a una generica situazione di violenza, come una guerra o un clima di tensione politico. Di conseguenza la persona che vuole essere riconosciuta come “rifugiato” viene incanalata, dal sistema legislativo corrente, in un percorso che la conduce a raccontarsi prima di tutto come “vittima di”, per l’appunto, e a produrre storie sufficientemente traumatiche e possibilmente corredate di certificati psicologici, psichiatrici, medico legali che mettono in luce le ferite fisiche e psichiche subite, in grado di legittimare la sua richiesta di protezione.
La richiesta d’asilo viene, infatti, esaminata nel corso di un’audizione presso la Commissione Territoriale, nel corso della quale al richiedente viene richiesto di raccontare la sua storia e descrivere i motivi per cui ha lasciato il paese.
La narrazione del richiedente, corredata, laddove possibile, da prove e documentazione a sostegno dei fatti raccontati, diventa quindi il “pilastro della prova” (Sorgoni, 2013, p. 139) su cui si fonda la valutazione della domanda d’asilo. Al fine dell’ottenimento dei documenti risulta quindi importante che i migranti in attesa della Commissione imparino a costruire la propria identità di richiedente asilo secondo i termini e i linguaggi maneggiati dalle istituzioni ospitanti, ad apprendere cosa è bene dire e non dire, quali i punti salienti della propria storia da sottolineare, quali da ignorare. Il tentativo di dare senso agli eventi significativi della propria vita in base alla necessità primaria di aderire a dei criteri di “strutturazione” e “definizione” provenienti dal sistema ospitante costituisce il cosiddetto “capitale narrativo” dei migranti forzati (Beneduce, 2015, p. 4) e implica in molti casi la necessità di “imparare a percepirsi e raccontarsi come soggetto debole, da accudire, in una parola “vittima” (Mannocchi, 2011, p. 7).
La narrazione dominante di “rifugiato come vittima” si riflette, nella mia esperienza, anche in molte micro-pratiche quotidiane che caratterizzano i processi di accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio e quindi nelle azioni dei rappresentanti degli enti locali, degli operatori sociali che gestiscono i centri o gli appartamenti, dei volontari che si relazionano con le persone accolte, dei vari professionisti a vario titolo coinvolti nel processo di accoglienza e integrazione (avvocati, psicologi, medici, assistenti sociali etc.) e dei rifugiati stessi.
In questi contesti, in particolare in quelli emergenziali, il rischio è che il costrutto “rifugiato come vittima/persona bisognosa” tenda a diventare prelativo, andando a offuscare le singole individualità: Alì, Ahmed, Lamin, Ousmane, sono riconosciuti in primis come membri del gruppo “rifugiati bisognosi” e solo secondariamente come persone portatrici di particolari visioni, desideri, anticipazioni, costruzioni del mondo.
Questo tipo di costruzione ha evidentemente delle implicazioni pratiche nella strutturazione dei servizi che vengono offerti alle persone ospitate nei progetti e sul tipo di approccio che viene adottato, che talvolta rischia di configurarsi come “assistenzialista” o “paternalistico-educativo”, per cui noi (operatori, professionisti impiegati nella relazione d’aiuto) ci mettiamo nella posizione di “coloro che sanno cosa è giusto fare” e i beneficiari dei progetti a oscillare fra due possibilità: l’obbedienza e il riconoscimento da una parte, la disobbedienza e l’ingratitudine dall’altra.
[Scrive Storato G.] Ed è all’interno di questo stesso contesto, caratterizzato da una polarizzazione normativamente costruita e socialmente e relazionalmente riprodotta, che, anche per me, come operatrice dell’accoglienza, risultava a volte problematico, se non riconoscere, legittimare le diverse capacità di agency delle persone con cui mi relazionavo. Nelle mie pratiche quotidiane, mi risultava infatti difficile fuoriuscire da logiche assistenzialiste e di controllo che permeavano il sistema di accoglienza e dalle conseguenti rappresentazioni dei richiedenti asilo come “persone bisognose” e “persone da controllare”.
A fronte di queste difficoltà, l’agentività che tendevo maggiormente a legittimare e che tendeva allo stesso tempo a circolare all’interno di narrazioni dominanti, era associata al concetto di competenza e autonomia. La persona richiedente asilo riusciva a “smarcarsi” dalle rappresentazioni prima descritte e ad auto-determinarsi se imparava bene la lingua italiana, se riusciva a muoversi autonomamente sul territorio, a relazionarsi con i diversi servizi, a concludere con successo un tirocinio e a trovare lavoro. In questo senso, trovavo uno spazio per combinare e legittimare ai miei occhi l’esigenza di controllo e di riconoscimento insita nel mio ruolo. All’interno di questa negoziazione vi erano tuttavia diversi impliciti che potevano aprire a potenziali tensioni sia tra me e gli altri attori (beneficiari, istituzioni) con cui mi relazionavo quotidianamente, sia all’interno del mio stesso ruolo professionale e, in senso più ampio, della mia persona.
Nel mio lavoro quotidiano, ponevo infatti in essere una serie di pratiche tese a fornire gli strumenti materiali e informativi affinché la persona accolta potesse svolgere autonomamente una serie di attività legate all’accesso ai servizi, alla gestione della casa, al movimento sul territorio. La finalità ultima era di rendere la mia presenza residuale. Le azioni tese alla promozione dell’autonomia si inserivano tuttavia in una complessa strutturazione di relazioni gerarchiche, in cui io, come corpo e voce, mi posizionavo come filtro. Mi trovavo infatti quotidianamente a relazionarmi non solo con le persone accolte, ma anche con istituzioni, servizi del territorio, esercizi commerciali che a volte tendevano a imporre le predette rappresentazioni dominanti dei “richiedenti asilo” e più in generale del servizio di accoglienza, demandando la mia presenza, anche solo attraverso una richiesta di controllo e verifica. Tali rappresentazioni avevano un potere di definizione maggiore della situazione rispetto alle mie, portandomi a doverle assumere e a trasferirle alle persone accolte, riproducendo di fatto forme di dipendenza pur all’interno della prospettiva di facilitare la loro “autonomia”. Mi trovavo quindi a dover dire che “queste sono le regole”, posizionandomi come persona “più competente” e “controllore autorevole” nella relazione con persone che, all’interno di questo processo, venivano considerate come “incompetenti” e “beneficiari”, e non come “co-costruttori” dei servizi erogati. Ecco allora, quindi, che si apriva uno spazio di potenziale conflitto non solo dentro di me, ma anche con le persone accolte, che spesso mi dicevano “non siamo bambini”, mostrando il loro bisogno di rifuggire dal processo di infantilizzazione che io stessa producevo e riproducevo attraverso le mie pratiche quotidiane. All’interno di questa dinamica, le mie attività di promozione dell’autonomia potevano essere lette dalle persone accolte come forme di disconoscimento della loro auto-determinazione, magari esercitata attraverso altre pratiche e competenze, o come richieste più o meno esplicite di assimilazione alle norme sociali del contesto di arrivo. Questi processi, solo parzialmente riconoscibili mentre ero “immersa” nel campo, sono stati maggiormente problematizzati attraverso un cambiamento di postura.
4. Risvolti nel cambiare i posizionamenti
[Scrive Storato G.] Le tensioni prima descritte tra controllo/riconoscimento, competenza/incompetenza, autonomia/dipendenza che guidavano la mia esperienza come operatrice e che si esprimevano attraverso micro-pratiche quotidiane, mi hanno portato a recuperare alcuni strumenti di auto-riflessività acquisiti nel campo della ricerca sociale. Di fronte a tali ambivalenze, ho deciso di rileggere la mia esperienza utilizzando alcuni strumenti propri della pratica auto-etnografica, al fine di facilitare la consapevolezza dei miei posizionamenti nel campo sociale dell’accoglienza e analizzare la mia esperienza per comprendere aspetti culturali e sociali più ampi. Tale tecnica di ricerca e di scrittura risulta essere particolarmente appropriata per stimolare la conoscenza di sistemi di potere che danno vita a disuguaglianze sociali (Reed-Danahay, 2017; Ellis, Adams & Bochner, 2011). Uscita dal mio ruolo ho potuto assumere una postura che mi ha permesso di stare nell’intersezione tra outsider/insider (Reed-Danahay, 2017) e di riconoscere e problematizzare maggiormente gli squilibri di potere esistenti nella relazione tra me, come operatrice, e persone richiedenti asilo, nella consapevolezza di non poterli superare. Essi, infatti, risultavano essere ineliminabili, per la strutturazione stessa del sistema di accoglienza in cui avevo operato e per il mio essere donna, italiana, con un capitale sociale e culturale più legittimato nel contesto in cui ci trovavamo.
Lo sforzo riflessivo per riconoscere la loro esistenza ed efficacia mi ha consentito invece di aprire spazi in cui, uscita dal mio ruolo di operatore “competente”, ho potuto riposizionarmi, aprendo al possibile riconoscimento delle loro diverse capacità di agency e di resilienza.
In questa prospettiva, la struttura di accoglienza, e il suo sviluppo quotidiano, si potevano configurare come luoghi fisici e simbolici in cui le rappresentazioni dell’altro e le reciproche domande di riconoscimento si manifestavano e potevano colludere. Le discussioni durante le riunioni di appartamento, le richieste di accompagnamento presso il medico di base, la richiesta di rivedere dei cambiamenti nelle forniture, così come la volontà di non frequentare il corso di italiano o di non aderire a qualche attività proposta di relazione con la comunità locale, potevano essere interpretati non come segnali di percorsi tesi o non tesi verso l’autonomia, ma come processi di auto-determinazione in spazi che il progetto consentiva o non consentiva. L’adozione di questa postura ha ridefinito le mie tensioni tra controllo/riconoscimento, aprendo nuovi spazi per me di esplorazione del secondo e sollevando ulteriori interrogativi, anche rispetto alle altre dicotomie autonomia/dipendenza e competenza/incompetenza. Adottare uno sguardo auto-etnografico e riflessivo sulla mia esperienza di operatrice mi ha permesso di aumentare la mia consapevolezza non solo dei meccanismi di funzionamento del sistema in cui avevo operato, ma anche del tipo di relazione che avevo instaurato e delle nostre reciproche rappresentazioni di persone, portandomi a pormi le domande: chi siamo noi, qui? Chi sono io?
[Scrive Michelon E.] Come psicologa è stato difficile immaginare uno spazio di autodeterminazione e rielaborazione per le persone ospitate che fosse svincolato dalle dinamiche sopra descritte, visto che il servizio di sostegno psicologico appartiene al progetto d’accoglienza: la mia sede di lavoro si trova presso gli uffici della Provincia Autonoma di Trento, ente locale di riferimento sia per i progetti di accoglienza straordinaria, che per i progetti SPRAR e oltre a occuparmi del sostegno diretto dei beneficiari del progetto, collaboro quotidianamente con gli altri operatori, che a vario titolo si occupano delle persone ospitate (operatori di accoglienza, di integrazione, operatori legali, assistenti sociali, insegnanti d’italiano).
L’implicazione di aderire a una visione dei richiedenti asilo e rifugiati come “vittime bisognose” è quella, in un contesto come quello descritto, di instaurare, anche come psicologa, relazioni connotate da una forte asimmetria e dipendenza, improntate più su un intento psicoeducativo che psicoterapeutico.
La comprensione e l’utilizzo del corollario della scelta, enunciato da Kelly, per cui le persone “in un costrutto dicotomizzato scelgono per sé l’alternativa per mezzo della quale anticipano la maggiore possibilità di elaborazione per il loro sistema” (Bannister & Fransella, 1986, p. 34) mi ha permesso di riconoscere, anche all’interno di un contesto connotato da relazioni asimmetriche e regole fisse che all’inizio vedevo solo come schiacciante e compromettente rispetto alla libertà di scelta degli individui, l’agency delle persone.
Atteggiamenti che prima mi sembravano “passivi”, come obbedire a regole imposte da altri anziché opporsi, seguire alla lettera i consigli dei vari operatori anziché imporre i propri desideri, colludere con la costruzione sociale di “rifugiato come vittima” e agire come tale raccontando storie traumatiche, mostrando le proprie ferite e il proprio dolore, se intesi come “le scelte più elaborative possibili per il sistema” assumono un’altra forma. Quest’operazione consente infatti a me, come terapeuta, di non colludere con le costruzioni regnanti e prelative descritte sopra e quindi di dare al paziente un’opportunità di fare, nella stanza della terapia, un’esperienza diversa, di esplorazione di altre possibili visioni di sé.
Tuttavia, credo che il corollario della scelta vada sempre messo in relazione con le dimensioni del potere, laddove queste giocano un ruolo così centrale nel canalizzare le azioni della persona, e che in fase diagnostica vada posta particolare attenzione all’analisi del contesto per definire meglio i limiti del sistema di costrutti della persona. Come sostiene Procter, infatti, “la nostra posizione in una gerarchia di potere fa un’enorme differenza nel definire fino a che punto possiamo impegnarci nell’elaborazione attiva dei nostri costrutti” perché in un gruppo/società, i costrutti di chi detiene il potere tendono in genere a prevalere (Procter, 2009, p. 33).
Avere uno sguardo e un’attenzione verso le dinamiche di potere che circolano nel sistema in cui operiamo è quindi fondamentale per capire in che modo siamo visti dalle persone che assistiamo e anche da quelle con cui collaboriamo e quali aspettative ripongono nei nostri confronti. Una costruzione che accomuna molti beneficiari dei progetti, per le logiche sopra descritte, è quella per cui lo psicologo può essere un interlocutore valido per una serie di richieste più o meno concrete, quali la richiesta di un trasferimento, l’intercessione presso operatori o coordinatori delle strutture per ottenere dei benefici di qualche tipo, l’aiuto nella ricerca di un lavoro.
Da parte di alcuni operatori e delle istituzioni, lo psicologo, inoltre, è visto come “l’esperto della mente”, come colui che può valutare le diverse situazioni e ha effettivamente, all’interno del lavoro di rete, un ruolo rispetto alla decisione di favorire o meno un trasferimento, segnalare un beneficiario al servizio sociale con l’obiettivo di avviare percorsi di inserimento più mirati, sostenere la richiesta di proroga di alcuni progetti. La stesura di una certificazione psicologica di vulnerabilità per le Commissioni territoriali e i Tribunali può consentire, inoltre, di evidenziare una condizione di sofferenza e trauma, dando così consistenza, valore, attendibilità alle storie dei richiedenti asilo e contribuendo in qualche modo alla possibile decisione da parte degli enti deputati di concedere alla persona una qualche forma di protezione.
La mia fatica per molto tempo è risieduta nella difficoltà di conciliare questo mandato valutativo e il potere e la responsabilità che ne derivava, con il mandato di sostegno e accompagnamento del paziente, inteso dalla sottoscritta come il tentativo di avviare una relazione di fiducia e di alleanza che mi permettesse di lavorare “con” la persona e non “sulla” persona. Come svolgere un lavoro di tipo terapeutico secondo l’ottica PCP laddove c’è una reale asimmetria di potere tra terapeuta e paziente e quindi la “strumentalizzazione” del primo è spesso insita nella relazione stessa? Quali sono i limiti e le possibilità all’interno di relazioni di questo tipo?
Credo che la mia fatica iniziale derivasse molto dal significato che ho sempre attribuito al “potere”: la persona “che ha potere” era per me, infatti, una persona che tende ad assoggettare, controllare, manipolare l’altro; sul polo opposto la persona “impotente” era quella che subisce, si rassegna o a volte resiste, è triste o si arrabbia, in ogni caso soffre. Se intendo il potere in questa dimensione di significato molto prelativa, è chiaro che diventa minaccioso per la mia identità collocarmi sul primo polo, essendomi io sempre costruita come persona attenta alle libertà altrui, solidale con le persone svantaggiate e sensibile alle ingiustizie.
Nel momento in cui ho iniziato ad andare a revisione rispetto a questa costruzione del “potere”, facendo fede al significato più etimologico del termine e intendendolo dunque come “potere fare qualcosa”, “opportunità di cambiare le cose” ho iniziato a sentirmi meno scomoda nel mio ruolo. Ovviamente questo passaggio di senso ha implicato una nuova domanda: “per chi voglio poter fare qualcosa?”, “a chi rispondo delle mie azioni?”, “da che parte voglio stare?”.
In questo senso credo che in un ambiente come quello dell’accoglienza dei rifugiati, dove l’istituzione definisce relazioni di potere molto chiare e cristallizzate, il tipo di lavoro clinico che si porta avanti non possa prescindere dalla necessità di fare una scelta di posizionamento anche “politico”. Secondo Reynolds, in questi tipi di contesti, il terapeuta deve essere necessariamente un “terapeuta politico”; il clinico che si percepisce “neutrale” mostra di non avere coscienza del potere che possiede e, non riconoscendolo, rischia di andare a perpetuare determinate dinamiche oppressive, mantenendo, in questo modo, lo status quo (Reynolds, 2010, pp. 164-165).
Le implicazioni di questo nuovo posizionamento sono significative per me: inizio a non sentirmi più “strumentalizzata” dai richiedenti asilo, ma uno “strumento” che la persona ha a disposizione per aumentare il benessere e l’auto-determinazione, in linea con quella che dovrebbe essere la funzione del terapeuta; concepisco la responsabilità che deriva dalla posizione di potere non solo come un “peso”, ma come una possibilità di dare avvio ad azioni “liberatorie”. Avendo chiaro a chi rispondo delle mie azioni e spostando quindi il focus sulla persona riesco inoltre a vedere in maniera più proposizionale anche gli altri aspetti del mio lavoro che riguardano la valutazione, la consulenza, il lavoro di rete. Rispetto alle richieste di valutazione, nello specifico le certificazioni per la Commissione territoriale, cerco di sovra-ordinare rispetto a una frammentazione del sistema che mi faceva concepire il ruolo terapeutico, di sostegno e accompagnamento come contrapposto a quello di valutazione, iniziando a concepire la certificazione non come un documento che il terapeuta “esperto” redige sulla persona, ma come qualcosa che può entrare a far parte del processo terapeutico e che può essere costruito nella relazione con la persona. Infatti se, in base alla logica della PCP, intendiamo la valutazione come una reale comprensione dei modi di costruire dell’altro (corollario della socialità[2]) e non come un processo strutturante che fissa il soggetto nella posizione di “vulnerabile” o “traumatizzato”, ecco che la certificazione viene a costituirsi come il risultato di questo processo e può essere intesa come strumento terapeutico, che ha il valore di restituire al soggetto il significato di un processo in corso. La difficoltà maggiore di questa operazione consiste poi nel rendere comunque tali certificazioni comprensibili e accettabili anche per le istituzioni, come le Commissioni territoriali, che, per i loro scopi, tendono a prediligere il linguaggio medico-scientifico e quindi le etichette diagnostiche codificate dai manuali psichiatrici.
5. Il ruolo delle rappresentazioni culturali nell’incontro con le persone accolte
[Scrive Storato G.] La ridefinizione dei miei posizionamenti mi ha consentito di problematizzare la mia relazione, come operatrice, con le persone accolte, aprendo alla possibilità di esplorare non solo le regole del contesto e la loro interpretazione da parte di ogni attore in gioco, ma anche le nostre reciproche rappresentazioni. In questa postura ho potuto riconoscere come alla base della nostra relazione vi fosse una reciproca consapevolezza delle ambivalenze insite al sistema prima descritte, che potevano essere agite e riprodotte sia da parte mia, sia da parte delle persone accolte. In questo senso, ad esempio, le regole interne al sistema dell’accoglienza, una delle cornici all’interno della quale si snodava la nostra relazione, potevano rappresentare l’occasione per costruire un terreno di dialogo e confronto e, allo stesso tempo, un punto di partenza per arroccarsi all’interno dei reciproci ambivalenti e porosi ruoli (il mio di assistere/di controllare e il loro di essere assistiti/di resistere). Una pratica apparentemente molto semplice come la consegna di una fornitura per l’igiene personale poteva rappresentare sia un’occasione di dialogo e di scoperta di abitudini quotidiane diverse, sia un terreno di confronto in cui mettere alla prova e sfidare i significati simbolici incorporati in tale pratica.
Gli aspetti materiali di ogni pratica dell’accoglienza si potevano quindi caricare di significati culturali e simbolici, costruiti non solo all’interno delle reciproche rappresentazioni che avevamo dei nostri ruoli, ma anche dalle nostre appartenenze culturali e di genere più ampie. In questo senso, rappresentazioni diverse di maschilità, di femminilità, del tempo, del futuro e destino, date dalla diversità delle esperienze vissute e dalle proprie costruzioni culturali, entravano in gioco nella nostra relazione quotidiana ridefinendola e in alcuni casi mettendola in discussione. Il mio essere giovane donna poteva, ad esempio, in alcuni casi ridefinire le mie mansioni quotidiane di controllo, che potevano essere interpretate come pratiche di cura, come date per scontate in quanto associate a particolari rappresentazioni di femminilità, ma anche come “invasione” nelle strutture entro le quali gli uomini accolti costruivano la propria maschilità. Maggiori erano le distanze tra le reciproche rappresentazioni che avevamo l’uno dell’altro, maggiori erano le istanze di reciproco riconoscimento, che potevano aprire a spazi potenziali di incontro, confronto, conflitto e in alcuni casi di incomunicabilità.
In questo senso, nel praticare l’accoglienza, diversi sistemi valoriali e particolari visioni del mondo potevano essere svelate, consentendomi non solo di avere maggiore consapevolezza di chi fossimo noi in quel contesto, ma anche, attraverso il loro sguardo, di chi fossi io e quali riferimenti culturali e valoriali guidassero la mia azione, aprendo a ulteriori possibili interrogazioni.
[Scrive Michelon E.] Nella mia esperienza l’incontro con persone straniere e con costruzioni del sé, del mondo, degli altri molto diverse dalle mie e dalle persone che condividono la mia stessa cultura, è stato spesso disorientante e ha sollecitato molte riflessioni relative al mio ruolo di psicologa.
Nella logica PCP intendiamo la cultura, evidentemente, non come qualcosa che si possiede, ma come un insieme di anticipazioni condivise con un gruppo di persone che permettono al soggetto di dare significato e agire nel mondo. Per Kelly infatti “le persone appartengono allo stesso gruppo culturale non solo perché si comportano in modo simile e nemmeno perché si aspettano le stesse cose dagli altri, ma soprattutto perché costruiscono la loro esperienza nello stesso modo” (Kelly, 1991, p. 66). Si tratta quindi di un insieme di costrutti condivisi e quindi di azioni che, in quanto tali, possono essere negoziati all’interno della relazione ed essere soggetti a processi di permeabilizzazione e revisione.
Teoricamente, dunque, l’incontro con persone di culture diverse dovrebbe equivalere, a livello processuale, all’incontro con una qualsiasi persona “altra da me”.
Tuttavia, se nel lavoro con i pazienti italiani esistono dei costrutti culturali comuni o di cui abbiamo relativa conoscenza che ci permettono di riconoscere un terreno di base comune e di concentrarci quindi sulle differenze e le comunanze a livello di costrutti personali, nel lavoro con i pazienti stranieri ho avuto spesso la sensazione di non poter dare per scontato nemmeno gli assunti che ho sempre considerato più basilari sulla percezione del sé, del tempo, dello spazio, dei rapporti interpersonali.
Credo in sostanza che la fatica del lavoro con i migranti derivi principalmente dal dover prima di tutto andare a mettere in discussione tutta una serie di “dati per scontato” che da sempre orientano il nostro agire nel mondo e quindi, in ottica costruttivista, prevedere di andare a permeabilizzare costruzioni che, essendoci state tramandate culturalmente dalla nascita, sono spesso nucleari, quindi legate alla nostra identità e pre-verbali, che agiscono dunque a basso livello di consapevolezza. La sensazione di incomprensione e impotenza che vivo, a volte, nell’incontro con persone straniere, è traducibile, per me, in ottica costruttivista, come la mancanza di costruzioni sovraordinate capaci di sussumere e comprendere le esperienze dell’altro.
È una sensazione ricorrente laddove le persone che incontro, ad esempio, spiegano il loro malessere e i loro sintomi con la convinzione di essere stati vittime di qualche atto di stregoneria, marabuttaggio[3], rituale juju[4] e quindi introducono nel setting tutto un mondo popolato da jinn[5] e spiriti che sfidano il pensiero logico, razionale e scientifico occidentale.
Sarebbe altresì riduttivo considerare questi fenomeni, legati al mondo magico, come il risultato di processi di allentamento o l’esplicitazione di costrutti di dipendenza, dal momento che non solo i singoli, ma intere popolazioni in molte parti del mondo, contemplano l’esistenza e convivono nella quotidianità con queste “presenze altre”, che hanno un ruolo fondamentale, all’interno delle comunità d’appartenenza, nell’influenzare il corso degli eventi. Dare significato ai processi psicologici del singolo senza considerare i processi che regolano e normano le comunità d’appartenenza, appellandosi quindi esclusivamente ai propri costrutti culturali, rischia di non condurre a una piena comprensione del significato che determinati fenomeni hanno per la persona e il suo contesto di riferimento.
Di fronte a situazioni di questo tipo mi interrogo, inoltre, sul tipo di posizionamento che posso assumere io nella relazione terapeutica, sul ruolo che mi viene attribuito e sulla “credibilità” che come donna bianca appartenente al mondo “occidentale” posso avere a fronte di costruzioni culturali così distanti dal mio mondo.
È importante ricordare che nel lavoro con i richiedenti asilo difficilmente c’è una chiara definizione e un riconoscimento del lavoro dello psicologo; nella maggior parte dei casi le persone assistite non hanno costruzioni relative a questa figura oppure tendono a viverla come una replica di altre figure “terapeutiche” per loro più famigliari, quali il medico oppure figure delle culture tradizionali quali lo stregone, il native doctor, il marabout. In tutti i casi si tratta comunque di rapporti caratterizzati da una forte dinamica di dipendenza che contemplano, di base, l’anticipazione da parte del paziente di ricevere, a seguito di una consulenza, una cura, una prescrizione, una soluzione relativa ad azioni concrete da intraprendere per guarire dal proprio male.
Di conseguenza quel lavoro di comprensione e sviluppo del ruolo del terapeuta dal punto di vista del paziente, che è fondamentale e necessario in qualsiasi relazione terapeutica, diventa spesso più complesso nel rapporto con persone provenienti da contesti culturali molto diversi, venendo a mancare anche quel terreno comune di costruzioni condivise sul senso della figura dello psicologo o sul significato della psicoterapia.
A fronte di tutte le complessità di entrare in contatto con i mondi portati dalle persone straniere, credo ci sia talvolta il rischio di rifuggire, come terapeuti, nell’”alibi culturale”, per cui la cultura diversa diventa ostacolo all’ascolto e alla conoscenza dell’altro. D’altra parte, l’incapacità di afferrare e comprendere molte costruzioni potrebbe farci sentire inutili, impotenti, inefficaci.
All’oggi credo che queste due possibili derive possano essere evitate mettendoci in un’ottica di “ricerca continua”, per cui il tentativo di comprendere l’altro e la perseveranza nel mettere in discussione noi stessi e i nostri dati per scontato, possono configurarsi, essi stessi, come processi di apertura all’altro e quindi permettere, in qualche modo, un movimento nel sistema di elaborazione del paziente. Penso che il processo di “ricerca continua” possa includere talvolta anche un riconoscimento dei limiti dei nostri setting psicoterapeutici nel lavoro con persone straniere e quindi un tentativo di revisione creativa di tali spazi, contemplando, ad esempio, la presenza e l’affiancamento di altre figure (mediatori culturali, antropologi, etno-pedagogisti, persone appartenenti alla stessa comunità d’origine del paziente) che potrebbero fungere da ponte, aiutando noi a comprendere meglio i mondi culturali dell’altro e, allo stesso tempo, andando a rappresentare per la persona dei riferimenti più riconoscibili.
6. Conclusioni
Nel percorso qui presentato si è cercato di illustrare come gli aspetti strutturali del sistema d’accoglienza, intrecciati con le rappresentazioni sociali dei rifugiati, abbiano generato conflitti e fatiche che rimandano a dimensioni simili nell’esperienza di due persone con ruoli professionali, formazioni, approcci e contesti di azione molto diversi.
In entrambi i casi, il tentativo di uscire da uno stato di tensione è passato attraverso un cambio di posizionamento, che ha implicato una riconfigurazione del proprio ruolo professionale e che ha condotto prima ad aprire nuovi spazi di riconoscimento dell’agency delle persone accolte e in seguito a mettere in discussione le proprie categorie di lettura del mondo.
Il lavoro di analisi del contesto socio-politico in questione e delle dinamiche di potere implicate, assieme a un esercizio di auto-riflessività, dunque, si sono rivelati strumenti utili a porre nuovi interrogativi e, in alcuni casi, a ridefinire alcune questioni dilemmatiche.
Si spera che il racconto delle nostre esperienze possa offrire spunti di riflessione sia a chi opera a vario titolo nell’accoglienza dei richiedenti asilo sia a chi lavora in contesti professionali altrettanto ambivalenti e a contatto con molteplici forme di “diversità”.
Bannister D., & Fransella F. (1986). L’uomo ricercatore. Introduzione alla psicologia dei costrutti personali. Firenze: Giunti.
Beneduce R. (2015). The moral economy of lying: subjectcraft, narrative capital and uncertainty in the politics of asylum. Medical Anthropology, 00, pp. 1-21
Ellis C., Adams T. E., & Bochner A. P. (2011). Autoethnography: an Overview. Forum Qualitative Social Research, 12(1), Art.10, January 2011, disponibile online all’indirizzo http://www.qualitative-research.net/index.php/fqs/article/view/1589/3096
Kelly, G.A. (1991). The psychology of personal constructs: a theory of personality. Vol. 1, (2^ ed.). London: Routledge.
Manocchi M. (2011), Questo sì che è un rifugiato. La valutazione della domanda d’asilo e i processi di etichettamento. Interdipendenze n. 4/2011, pp. 3-23.
Procter, H. (2009). The Construct in J. Butler (Ed.), Reflection in Personal Construct Theory, pp. 21-40.
Reed-Danahay, D. (2017). Bourdieu and Critical Autoethnography: Implications for Research, Writing, and Teaching. International Journal of Multicultural Education, 19(1), pp. 144-154.
Reynolds, V. (2010). Doing Justice: A Witnessing Stance in Therapeutic Work Alongside Survivors of Torture and Political Violence , in J. Raskin, S. Bridges, & R. Neimeyer (Eds.), Studies in meaning 4: Constructivist perspectives on theory, practice, and social justice, pp. 157-184.
Scheer, J. (2003). Beyond the intelligent interest – Construing the political animal, Paper presented at the 15th International Congress on Personal Construct Psychology, University of Huddersfield, UK, July, 2003
Sorgoni, B. (2013). Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni. In B. Pinelli (Ed.), Migrazioni e Asilo Politico. Antropologia. Annuario, a. XIII n.15, pp. 131-151.
Note sugli autori
Elisa Michelon
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e specializzanda presso l’ICP, da diversi anni si interessa di migrazioni e intercultura. Dal 2014 lavora per il Centro Astalli Trento come psicologa. All’oggi è referente dell’equipe psicologica del Centro Astalli, si occupa di avviare percorsi di sostegno psicologico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ospitati nei progetti d’accoglienza della Provincia di Trento e lavora in rete con altri operatori e professionisti impiegati nell’ambito per favorire percorsi di inclusione dei migranti sul territorio.
Giulia Storato
Fondazione Franco Demarchi, Università degli Studi di Padova
Dopo aver conseguito un master sui fenomeni migratori e un dottorato di ricerca in Scienze sociali, ha lavorato per due anni come operatrice in centri di accoglienza straordinaria in Veneto. Attualmente sta svolgendo attività di ricerca con richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale ai margini del sistema dell’accoglienza. I suoi interessi di ricerca sono le migrazioni internazionali, intersezionalità, sociologia dei processi culturali, sociologia dell’infanzia, food studies, metodi di ricerca qualitativi.
Note
- Il sistema d’accoglienza SPRAR con la l. 132/2018 è stato riformato, assumendo la nuova denominazione SIPROIMI (Sistema di Protezione per titolari di protezione internazionale e Minori Stranieri Non Accompagnati) ↑
- Il corollario della socialità, nella PCP, prevede che “nella misura in cui la persona costruisce i processi di costruzione di un’altra può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge un’altra persona” (trad. Kelly, 1991). ↑
- Il “marabuttaggio” in molte regioni dell’Africa nord occidentale indica un affatturamento, ovvero un “atto di malevolenza che colpisce il paziente e che viene perpetrato contro di lui; sia che un individuo geloso o invidioso abbia fabbricato personalmente un oggetto magico destinato a distruggerlo, sia che a tale scopo abbia fatto ricorso a uno specialista” (Nathan, Principi di etnopsicanalisi, 1996, p. 32) ↑
- “Juju” è un termine europeo usato per descrivere l’insieme delle credenze tradizionali animiste dell’etnia Yoruba della regione sudoccidentale della Nigeria, in particolare nell’Edo State e nella regione del Delta del Niger. ↑
- Il termine “jinn” indica creature citate nel Corano, che nella religione preislamica e in quella musulmana rappresentano entità soprannaturali, intermedie fra il mondo angelico e l’umanità, aventi per lo più carattere maligno, anche se in certi casi possono mostrarsi in maniera del tutto benevola e protettiva. ↑
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