Tempo di lettura stimato: 37 minuti
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… E i siblings?

Un viaggio nel mondo di fratelli e sorelle di persone con disabilità

…What about siblings?

A journey into the world of brothers and sisters of people with disabilities

di

Giulia Tortorelli

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Il legame fraterno è uno dei più significativi e singolari che si possa sperimentare nell’arco di vita. Ci sono casi in cui questo legame si caratterizza in modo particolare per la presenza in famiglia di un fratello o una sorella con disabilità di varia natura. Il ruolo degli altri figli si fa ancora più complesso, spesso lasciato nell’ombra. Questo lavoro si prefigge di esplorarlo e valorizzarlo, per scoprire che la loro identità ed esperienza non si esauriscono nella definizione “sono fratello/sorella di…”

The fraternal relationship is one of the most significant relations of kinship that we can experience in lifetime. It may happen that this particular relationship is characterized by the presence of a brother or sister with various disabilities. In this case the role of the other children, which are often left in the shadows, might become even more complex. This paper aims at exploring and developing the features related to their role, in order to highlight that their identities and experiences do not vanish in the definition of “being the brother/or the sister of… ”

Keywords:
Legame fraterno, siblings, sibshop, disabilità, sostegno alla genitorialità | fraternal relationship, siblings, sibshop, disability, parenting support
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1. Introduzione

Quando parliamo di sistema familiare ci addentriamo in un campo complesso di relazioni, ruoli, significati personali che si intrecciano in molteplici storie. In alcune di queste storie può capitare che una svolta al copione sia l’arrivo di un figlio con disabilità di varia natura (fisica o mentale). Possiamo immaginare la portata dell’evento, con ricadute e cambiamenti notevoli (non necessariamente in negativo) sui singoli componenti della famiglia e sulla riorganizzazione della stessa e del contesto circostante. La letteratura e le ricerche svolte in questo senso sono sconfinate, così come le variabili in gioco: la tipologia di handicap del bambino e le sue future prospettive di vita, la numerosità e coesione del gruppo di sostegno, le risorse individuali e di coppia, gli aspetti di integrazione con la società.

Fino a qualche decennio fa, come vedremo, l’attenzione era focalizzata prevalentemente sul bambino, sui genitori chiamati a fare fronte concretamente ed emotivamente alle necessità particolari di questa nascita, sul ruolo degli operatori professionisti o volontari che fossero, sugli aspetti resilienti rintracciabili nel contesto allargato (es. istituzioni, gruppi informali con simili problematiche). Uno dei tasselli a lungo meno esplorati è particolarmente significativo e al contempo così logico che forse anche per questo è stato dato per scontato: cosa dire degli eventuali fratelli o sorelle di questo bambino disabile? Attori in gioco tanto quanto gli altri, coinvolti per certi aspetti anche in misura maggiore, sono stati spesso accorpati ad altri membri del nucleo domestico e scarsamente distinti nel loro ruolo specifico, nella loro posizione delicata. Come affrontano dal loro punto di vista le problematiche del fratello o della sorella? Che relazione instaurano con lui/lei? Quale nuovo equilibrio ricercano con i genitori? Come vivono il confronto con i pari? Ancora: di cosa sentono il bisogno? Di cosa hanno paura? Di quali aspettative, richieste, responsabilità più o meno esplicite si sentono investiti? E, dove si renda necessario, come poterli adeguatamente affiancare garantendo loro sostegno, ascolto e visibilità per aiutarli a vivere la loro esperienza e a crescere come persone?

 

2. Chi sono i siblings?

Il termine inglese sibling indica il legame di parentela fraterno indipendentemente dal genere (maschile o femminile). In letteratura a partire dagli anni ’50, in maniera più corposa dagli anni ’70, è stato scelto per designare un gruppo specifico: i fratelli e le sorelle di persone con disabilità (www.siblings.it). Questa apparentemente semplice categorizzazione racchiude già molti significati.

Ha sottolineato innanzitutto l’esigenza crescente di dedicare uno spazio sociale e psicologico a una componente rilevante del nucleo familiare coinvolto dall’arrivo di un bambino affetto da particolari problematiche. Massimiliano Rubbi (2012) suggerisce:

La ragione dominante [del nascente interesse per questa fascia di popolazione] va forse individuata nel fatto che l’allungamento delle speranze di vita e la de-istituzionalizzazione prospettano a fratelli e sorelle (laddove esistono) un ruolo futuro di fornitori primari di cura nel “dopo di noi genitori”.

Oltre questa considerazione cultural-sociologica, c’è una sfera psicologico-educativa che ha cominciato a prendere sempre più in considerazione l’importanza dei vissuti di questi fratelli e sorelle rispetto all’esperienza disabilità. Un primo accento ricade su un dettaglio apparentemente scontato ma basilare, ovvero l’esistenza di un legame fraterno prima ancora di connotarlo in alcun modo. Senza soffermarci in questa sede sulle innumerevoli peculiarità che contraddistinguono questo tipo di legame bidirezionale (dall’ordine di genitura al genere, alla ricchezza che può derivare dallo scambio costante con un proprio pari, al retroterra culturale della famiglia), possiamo immaginare che

la particolarità della condizione di sibling è costituita dal fatto che la sua crescita e lo sviluppo dell’identità si compiono confrontandosi continuamente con la presenza di un fratello o una sorella disabile, e, aggiungo, con genitori che si trovano a gestire un trauma. […] I siblings si apprestano ad affrontare alcune sfide aggiuntive rispetto a quelle fisiologiche che segnano i passaggi di sviluppo della crescita di un bambino che ha fratelli o sorelle. Il superamento o la disfatta nei confronti di queste sfide può condurre a scenari molto diversi all’interno di un continuum, ai cui poli estremi troviamo da una parte condizioni traumatiche e dall’altra parte benessere e particolari capacità adattive (Dondi, 2008).

Se volgere l’attenzione a questo gruppo di persone ha avuto l’intento di restituire loro voce e presenza, intravedo parallelamente alcuni rischi insiti nei presupposti e nelle modalità con cui questo interesse si è concretamente sviluppato.

Primo quello della generalizzazione all’interno della categoria siblings che, includendo tutti o la maggior parte dei fratelli e sorelle, non valorizza le loro differenze nel modo di vivere una condizione comune.

Come vedremo nel paragrafo successivo, le prime ricerche condotte su questa fascia di popolazione partivano dal presupposto stereotipico che essere fratelli o sorelle di una persona con disabilità avesse degli effetti prevalentemente negativi, ignorando l’enorme variabilità individuale nel costruire questa esperienza e relegando tutti nel ruolo quasi paradossale di soggetti a rischio per il fatto di essere normali.

Perché non parlare di loro, con loro, con il desiderio e la curiosità di conoscerli come persone? Facendo l’esperimento di astenersi dal pensarli subito “fratelli e sorelle di…”, ma esseri umani con molte altre caratteristiche e storie da raccontare.

L’analisi di questo complesso intreccio di dimensioni è avvenuta in più passaggi successivi, brevemente descritti a seguire.

 

2.1 Un primo approccio: la ricerca quantitativa

La direzione intrapresa dagli anni ’70 fino circa ai ’90, prevalentemente in ambito australiano e nord americano (Lavigne & Ryan, 1979; Breslau, Messenger & Weitzman, 1981), per addentrarsi nel mondo dei siblings, è stata la ricerca quantitativa tramite strumenti standardizzati volti a individuare criteri e dimensioni molto strette entro cui racchiudere e descrivere la loro esperienza. Una prima selezione dei campioni di popolazione è avvenuta negli istituti di cura o nelle scuole. Veniva richiesta la disponibilità a sottoporsi all’indagine basata di volta in volta su variabili da confrontare con un campione di controllo per poter verificare le ipotesi di partenza dei ricercatori. Questa scelta metodologica ipotizzo tentasse di rispondere al bisogno di colmare le lacune conoscitive sull’argomento, per cercare poi di muoversi con maggior consapevolezza nell’ambito dell’intervento. In ottica costruttivista ipotizzerei che questa scelta possa essere letta in termini transitivi[1] come un tentativo di fare fronte all’ansia (kelliana) del nuovo attingendo a costruzioni teoriche preesistenti.

L’esito di questa prima fase (condotta con alcune difficoltà e limiti, come l’esiguità dei campioni reperiti o un focus di ricerca centrato su una fascia d’età specifica dei siblings, piuttosto che sull’intero arco di vita) credo abbia disatteso almeno in parte le anticipazioni. Sicuramente ha messo in evidenza quante e quali siano le possibili aree di analisi da tenere in considerazione; ma a fronte dello sforzo per individuare dei fattori comuni, i dati raccolti sono risultati tutt’altro che certi e prevedibili. È emersa la grande complessità del fenomeno a partire dalla numerosità delle variabili in gioco, ma soprattutto dalla ricchezza dei vissuti di ogni singola persona, calata nel suo specifico contesto. Tutto ciò risulta difficilmente incasellabile e soprattutto non rende giustizia alla costruzione soggettiva e unica di crescere con un fratello o una sorella portatori di handicap.

Per introdurre il passaggio alla seconda fase conoscitiva sul mondo dei siblings, prendo spunto dal ciclo dell’esperienza descritto da Kelly (1966)[2]: a seguito di un’invalidazione, per lo meno parziale, delle anticipazioni di partenza, si è reso necessario (per proseguire aggressivamente[3] nella ricerca) il tentativo di revisionare e dare vita a nuove anticipazioni da mettere a verifica. L’“indagine” condotta sinora (con l’obiettivo di definire una cornice statistica rispetto al tema che si cominciava a esaminare) cede il passo all’“esplorazione”, un cambiamento di sguardo al tema di interesse: non più andare in cerca di qualcosa di prestabilito, ma mettersi in ascolto e osservazione per scoprire ciò che ancora non si conosce.

 

2.2 Sviluppi recenti: uno sguardo qualitativo

Un’apertura significativa è stata la scelta di metodologie di stampo qualitativo (Aksoy & Bercin Yldirim, 2008; Connors & Stalker, 2004; Dowey et al., 2009; Guite et al., 2004; Madill & Waite-Jones, 2008). I ricercatori si sono spostati verso approcci che, accettando un grado maggiore di iniziale imprevedibilità, hanno dato la possibilità di rapportarsi prima di tutto con le persone, incontrandole direttamente e ascoltando le loro testimonianze. Le interviste strutturate diventano più fluide e libere di spaziare sull’argomento in base a quanto portato dal soggetto. Le batterie di test standardizzati si affiancano a tecniche che tengono conto del punto di vista della persona e dei suoi significati. Ad esempio, fra le varie attività proposte ai siblings, compare “l’esercizio di scelta delle parole”: ai bambini vengono mostrati fogli colorati su cui sono riportate liste di aggettivi riferibili a una persona. Viene richiesto di cerchiare quelli che a loro parere descrivono meglio il fratello o la sorella (disabile). È così possibile identificare sia una serie di costrutti personali sia eventuali dimensioni comuni emergenti; soprattutto, l’esercizio agevola l’apertura di una porta comunicativa con i bambini, facilitando la discussione su come vivano il tema in prima persona.

Anche il setting in cui le ricerche esplorative si svolgono subisce delle variazioni importanti: le attività avvengono direttamente a casa delle famiglie coinvolte. Ciò consente di mettere a proprio agio i partecipanti, che possono rilassarsi muovendosi in un ambiente conosciuto e rassicurante. Inoltre permette ai ricercatori di entrare in contatto diretto con il contesto allargato che accoglie il bimbo disabile e i fratelli, potendo comprendere meglio il sistema che ruota attorno a essi e coinvolgendo contemporaneamente più figure importanti di riferimento. Un esito interessante di questo allargamento dell’esplorazione è stato ad esempio rilevare come, frequentemente, le preoccupazioni dei genitori rispetto alle conseguenze per il figlio sano di avere un fratello/sorella disabile fossero maggiori di quanto riportato dai siblings stessi. Due modi diversi di vivere l’esperienza comune della disabilità e farvi fronte, due ruoli distinti (genitore e fratello) che possono e devono relazionarsi con essa attraverso canali altrettanto ben distinti. L’emersione di queste e altre dimensioni può aiutare a mettere in comunicazione con più chiarezza i vari attori che sono in scena, dando valore e dignità al sentire del singolo.

L’apparente ovvietà del considerare i siblings dei soggetti a rischio (poiché sottoposti a eventi traumatici, stress duraturi e sollecitazioni emotive non comuni) viene così a cadere. Sono loro stessi, come testimoniano i risultati delle ricerche precedenti, a far emergere spontaneamente, al fianco delle difficoltà, gli aspetti positivi della situazione che vivono. Dalle caratteristiche di resilienza accennate in precedenza, a una predisposizione spiccata all’ascolto e all’aiuto verso l’altro, alla grande sensibilità verso tematiche sociali. La loro visione dell’esperienza non necessariamente mette al primo posto il costrutto di disabilità nel rapporto con i loro fratelli. Ciò è espresso molto chiaramente dalle loro parole (Connors et al., 2004, p. 224): “Non lo vedo come un disabile, lo vedo come Scott”[4].

Un altro spunto di riflessione è fornito da Rubbi (2012):

Solo negli ultimissimi anni si sono affermati studi che considerano la persona con disabilità come “persona” (e membro di una famiglia), prima e più che come “fattore”, e su questa base propongono un’analisi bidirezionale: non solo cosa significa l’ingresso della disabilità in famiglia per gli altri membri, ma come la persona con disabilità risente del rapporto con fratelli e sorelle. […] Processo che consente a diversi studi dal 2000 in poi di affermare che per una famiglia avere un bambino con ritardo mentale non è necessariamente facile, ma conduce a una vita più piena e ricca.

L’autore sottolinea la citata bi-direzionalità della relazione fraterna, che si connatura nelle caratteristiche che la differenziano da altri tipi di relazioni. È uno scambio reciproco continuo con un pari in cui, solitamente, il più piccolo impara dal più grande, lo imita e così poco a poco si differenzia; mentre il più grande può sentirsi modello ed esempio per lui, investito di responsabilità e di orgoglio. Insieme imparano a suddividersi la presenza e l’affetto dei genitori, a essere a volte in competizione per questo, altre volte complici e alleati alla scoperta del mondo; e crescendo, possibili confidenti e punti di riferimento su cui poter contare con fiducia. Il rapporto di fratellanza come un grande, primo laboratorio sociale.

Nel caso in cui uno dei fratelli sia affetto da qualche patologia, queste dimensioni non vengono a mancare; possono modificarsi, arricchirsi o differenziarsi tenendo conto della variabilità e molteplicità dei casi (il tipo di disabilità, se congenita o successiva alla nascita, l’età dei bambini, il supporto sociale etc.). L’evolversi delle reciproche identità va di pari passo, richiedendo a entrambi sfide differenti in cui la presenza dell’altro, proprio in quanto diverso da sé, risulta significativa.

Quasi mai si pensa che l’integrazione non è solo l’accoglienza del “diverso” da parte del “normale” ma anche l’accoglienza del “normale” da parte del “diverso”. Il diversamente abile deve prendere consapevolezza e accettare il proprio deficit, ed evitare che l’handicap influenzi negativamente il rapporto con un’altra persona, che a sua volta si sforza di fare altrettanto: entrambi devono accettare i propri limiti (Imprudente, 2003, p. 570).

 

3. Un sistema complesso: da oggetti di studio a soggetti protagonisti

Il passo ancora successivo è stato il consolidarsi di metodologie di ricerca afferenti all’epistemologia costruzionista[5] e costruttivista. L’attenzione si è rivolta all’elicitazione delle esperienze dirette dei siblings e degli altri familiari, considerandoli i primi conoscitori ed esperti di se stessi e della relazione con i membri del loro gruppo. Persone da cui imparare e grazie alle quali scoprire sfaccettature sempre nuove e complesse delle loro storie di vita, piuttosto che da relegare in categorie generali ed etichette sociali.

A questo si aggiunge l’acquisita consapevolezza del coinvolgimento del ricercatore, che non può più considerarsi soggetto esterno all’indagine che conduce ma un partecipante a tutti gli effetti, con le influenze che la sua presenza arreca e con il suo personale punto di vista da cui non può esimersi nell’osservare e interpretare il fenomeno.

Si è delineata sempre di più la complessità di questa esperienza, ben espressa da Iraci e Siviero, rappresentanti del Comitato Siblings Onlus Roma, durante il convegno: “Mio fratello è figlio unico. Fratelli, sorelle, famiglie di persone con disabilità” (AA.VV., 2011, p. 29):

La letteratura è concorde nel dipingere un quadro ricco di sfumature. Chiunque volesse farne una descrizione realistica quindi dovrebbe porsi innanzitutto in una prospettiva, se non proprio positiva, quanto meno complessa, evitando le tipiche semplificazioni di chi è portato a isolare uno o due caratteri (negativi) per confermare chissà quale intuizione.

Proviamo a delineare alcuni degli elementi emergenti di tale complessità, leggendoli attraverso domande che intendono puntare i riflettori sui siblings: quali sono le loro esigenze, richieste, perplessità, paure? Quali i loro bisogni, dubbi e interrogativi? Le riflessioni che seguiranno traggono spunto da testimonianze rilasciate da siblings adulti che ricordano la loro esperienza nell’infanzia, ricostruendo continuamente tale vissuto.

 

3.1 Prima di tutto, chiarezza[6]

Avrei tanto voluto che quel giorno in ospedale qualcuno avesse spiegato anche a me qualcosa di mia sorella, avrei voluto che a casa mia si fosse usato maggiormente il termine “Sindrome di Down” senza paura, avrei tanto voluto che non si facesse finta di niente per tanto tempo (Beatrice).

Il desiderio così sentitamente espresso da Beatrice è comune a quello di molti fratelli e sorelle che hanno vissuto l’esperienza della disabilità di un loro pari. E a cui non è stata raccontata in modo adeguato ed esauriente, per lo meno non da subito.

Se i bambini sono molto piccoli, si può pensare che non siano in grado di comprendere quanto sta accadendo (la nascita di un fratellino disabile o la presenza dello stesso come fratello/sorella maggiore). Un’altra anticipazione può essere quella di voler salvaguardare il figlio sano, non caricandolo di tensioni eccessive e tenendolo al di fuori del complesso sistema che si innesca attorno all’altro figlio malato.

È altresì complicato per i genitori riuscire a trovare le parole per spiegare un evento che mescola necessità e cambiamenti concreti a carichi emotivi imponenti e altalenanti. Possono decidere di non comunicare molto agli altri figli perché il farlo scoprirebbe loro per primi, il loro dolore, il senso di impotenza, paura, destabilizzazione e in certa misura li costringerebbe a guardare ancora più pienamente la situazione, facendo saltare l’eventuale costrizione[7] in atto. In questo senso, forse, le difficoltà maggiori stanno proprio nel vissuto dei genitori mentre dal punto di vista dei bambini, almeno all’inizio, ne sembrano sussistere meno, essendo essi investiti di un minor carico di responsabilità.

Potendo immaginare molti altri scenari legittimi, torniamo al punto di partenza: come questo posizionamento può essere percepito dai siblings e di cosa, a posteriori, avrebbero avuto bisogno?

Ricorre spesso il rimpianto espresso all’inizio di non essere stati messi al corrente della situazione familiare e, nello specifico, dello stato di salute del proprio fratello o sorella, attraverso un linguaggio semplice, chiaro, adeguato all’età, che non veicolasse allarmismo ma nemmeno una normalità dichiarata a parole e non vissuta nei fatti. Questa necessità non si ferma alla mera informazione sulla patologia, non sempre comprensibile per un bambino nei dettagli medici, ma si collega strettamente ad altri bisogni. Ad esempio, sentirsi parte della vita del proprio fratello e della famiglia non solo nei momenti di serenità ma anche in quelli faticosi, costruendosi come un nucleo di persone in grado di affrontare le difficoltà ciascuno a proprio modo, senza negarle.

Inoltre acquisire consapevolezza della situazione può evitare sottointesi, fraintendimenti, non detti spesso difficilmente interpretabili dai più piccoli, che rischiano di dare adito a ulteriori paure e timori (“Ho fatto qualcosa? È colpa mia se mamma/papà sono strani?”).

Cominciare a rapportarsi con il fratello disabile senza negarne le diversità o gli handicap ma nemmeno sottolineandoli come unici costrutti che lo descrivono può favorire il processo dalla prelatività costruttiva[8] (“è disabile e nient’altro che questo”) a una maggiore proposizionalità[9] (“ha delle disabilità, ma è anche molte altre cose”). Ciò consente a tutti i fratelli di relazionarsi in modo complesso e completo, esplorandosi a vicenda e scoprendo come poter crescere insieme.

Un altro aspetto importante per i siblings, veicolato da un’adeguata informazione, è quello del rapporto con il mondo esterno: amici, insegnanti, estranei. Un confronto non sempre semplice, in cui spesso emergono domande curiose, sguardi giudicanti, evitamenti intimoriti, silenzi imbarazzati che ricadono sia sul bambino disabile sia sui familiari. La seguente testimonianza lo descrive molto bene:

I problemi per me sono arrivati un pochino dopo, quando a scuola sembrava che tutti sapessero qualcosa su Giulia che io non sapevo. Quel periodo è stato davvero brutto perché io non avevo gli strumenti per difendermi e non avevo quelli per difendere Giulia dal momento che, in effetti, non sapevo spiegare perché Giulia avesse quelle difficoltà (Carla).

Nella maggior parte dei racconti dei siblings reperibili in letteratura, la considerazione di una mancata spiegazione da parte degli adulti di cosa stesse succedendo nella loro infanzia non si affianca comunque a recriminazioni o sentimenti ostili. Rileggendo quelle circostanze passate, immedesimandosi con i propri genitori, giocando un alto grado di socialità nei loro confronti, i siblings possono riconoscere che in quello specifico momento, per le risorse a disposizione del singolo e del gruppo, la scelta compiuta è stata la più percorribile e la meno minacciosa.

Secondo me la mamma ha cercato di minimizzare il problema, in parte perché impreparata all’evento e alla sua gestione, in parte per non caricarci di un peso che per noi, data la giovane età, sarebbe stato eccessivo da portare (anonimo).

 

3.2 Sarò sempre tuo fratello, ma non posso essere un terzo genitore

Mi sento molto in colpa nei confronti di Andrea, qualsiasi cosa non riesca a fare mi colpevolizzo. Sapevo che i miei genitori contavano su di me […]; contavano su di me perché io giustamente avevo le gambe, avevo le braccia, tutto quello che non poteva avere Andrea e quindi facevano affidamento su di me per proteggerlo. Mi faccio sempre carico di tutto ciò che non riesco a fare o che non sono riuscita a fare nel passato (Catia).

Il grande peso percepito da questa ragazza appare al contempo nella sua gravosità e nel suo “non poter fare altrimenti” di allora, per il desiderio e il bisogno di rispondere alle richieste dei genitori e alle necessità del fratello.

Se prima abbiamo parlato dei casi in cui i siblings non vengono resi sufficientemente partecipi e informati della vita del fratello, adesso si presenta il rovescio della medaglia: i casi in cui questo coinvolgimento risulta imponente, travalicando i confini dei ruoli di genitore e di fratello.

Anche in questo frangente è possibile immaginare differenti scenari in cui ciò può verificarsi.

Una coppia può sentirsi investita di grandi responsabilità, paure, sofferenze e incertezze di fronte alla nascita di un figlio con una disabilità. I fratelli e le sorelle sani/e con la loro presenza possono aprire ai genitori visioni più miti: attenuano il loro eventuale senso di fallimento (rispetto al ruolo genitoriale percepito come deficitario); danno loro gratificazioni che li possono compensare delle frustrazioni per il malessere del figlio compromesso; sono preziosi punti di riferimento per il fratello o la sorella stesso/a, poiché fungono da continuo stimolo alla loro crescita e sviluppo.

Portando all’estremo questi aspetti di sostegno e aiuto, in alcune circostanze ai siblings viene più o meno esplicitamente richiesto di assumere funzioni genitoriali sostitutive: accudimento quasi continuo del fratello/sorella, attenzione fortemente canalizzata su di lui/lei e sul suo benessere, etc. Simili premure possono riversarsi sui genitori stessi: volerli sollevare dai loro pesi emotivi quotidiani, vivere l’imperativo di essere non solo “il figlio sano” ma anche “il figlio perfetto” che non dà problemi o invisibile per non disturbare.

Nel caso in cui il sibling sia un fratello o sorella minore, cioè nato dopo il figlio disabile, può esserci un desiderio di rivalsa genitoriale rispetto al “fallimento” precedente. È anticipabile il carico di aspettative che potranno gravare sulle spalle del figlio minore, investito di grosse responsabilità.

Quando poi a muovere i genitori in questo senso si aggiunge il pensiero di garantire al bambino problematico un “dopo di noi” a cui affidarlo, identificato nei fratelli, aumentano i rischi per la costruzione dell’identità e per la crescita del sibling, strutturato nel ruolo di figlio riparatore e successore futuro di mamma e papà (par. 3.3).

Le situazioni che possono venirsi a creare sono umanamente comprensibili; proprio a partire da questa comprensione, con l’obiettivo di estenderla alla comprensione dei bisogni e dei diritti dei fratelli e sorelle sani, è necessario dare loro voce e ascoltare come vivono o hanno vissuto tali circostanze. Da queste voci emergono considerazioni parallele: la fatica nel sostenere pesi così grossi specie in tenera età; la volontà di farlo comunque per il bene della famiglia nonostante il grande sacrificio.

A volte invece la ribellione a queste condizioni e il rifiuto di prendervi parte, con il rischio di una chiusura delle relazioni; la sensazione di non aver potuto decidere in che modo essere fratelli.

Esplicitare e condividere senza giudizio la pienezza di simili vissuti può aiutare i siblings ad alleggerire almeno in parte tali pesi esistenziali, i genitori a capire meglio come comportarsi con ciascun figlio, i servizi e gli operatori che lavorano con le famiglie a non trascurare nessun aspetto e fornire un adeguato sostegno collettivo.

 

3.3 Il “dopo di noi” dei genitori e il “durante noi” dei fratelli

Finché i miei genitori godranno di buona salute, speriamo ancora per molti anni, so che cercheranno di creare un ambiente particolare per lei […]. Altrimenti il futuro di mia sorella sarà sicuramente con noi, perché di lasciarla completamente da sola non me la sento proprio. Magari in una casina vicina, in un appartamento vicino a noi ricorrendo a degli aiuti. Non riesco ancora a immaginarmi il futuro in modo nitido (Elisa).

Abbiamo delineato prima una preoccupazione fortemente presente, con l’avanzare dell’età, nel pensiero dei genitori di un bambino disabile (specie se la patologia ne compromette gravemente l’autonomia): come vivrà quando non ci saremo più? Con chi? A quali condizioni? Questi interrogativi sul “dopo di noi” si incrociano con altrettante domande dei siblings su come si modificherà di conseguenza il loro ruolo.

Il legame fraterno è uno dei più duraturi nell’arco di vita, perciò all’interno di questo legame si fa molto pressante la questione del “cosa accade durante noi” dei siblings. Essa si traduce ad esempio nella preoccupazione del farsi carico delle condizioni di vita del fratello disabile quando i genitori non saranno più la prima fonte di sostentamento e di cura dello stesso. Le ripercussioni sull’organizzazione delle proprie vite, delle nuove famiglie costituite, della gestione quotidiana del fratello non possono essere sottovalutate, oltre al carico emotivo già presente.

Le modalità di gestione della situazione sono necessariamente canalizzate dal contesto, dalla contingenza del momento e dalla costruzione personale. Esistono casi in cui il fratello disabile si integra nella famiglia del sibling che lo accoglie, andandone a costituire un vero e proprio membro.

Altrettanto comprensibile è l’eventualità di collocare il proprio fratello in una struttura preposta all’ospitalità di persone con handicap, se si valuta che questa sia l’opportunità migliore da garantire a lui e a se stessi per non gravare eccessivamente sul proprio vivere quotidiano, volendo mantenere un ruolo di accudimento col rischio di non riuscire a sostenerlo a lungo.

Ciò che in linea generale può sfociare in un’azione utile, è riconoscere l’importanza di un supporto (professionale, parentale, volontario) alla famiglia che si mantenga diversificato e costante nel tempo, presente nelle diverse fasi evolutive che tutti i membri si troveranno ad affrontare. Nello specifico dei siblings, un affiancamento e uno spazio di espressione fin dall’infanzia, per proseguire nell’adolescenza fino alla vita adulta, in un percorso di crescita e cambiamento che va di pari passo con i mutamenti contingenti.

La rete di sostegno, ancora più funzionale se comprende sia équipe multidisciplinari sia persone vicine in vario grado alla famiglia, può alleggerire lo svolgimento delle azioni quotidiane, confortare e far sentire meno soli, suggerire modi alternativi di gestire le situazioni e le relazioni attraverso lo scambio di esperienze simili; ampliando le risorse a disposizione cui chiedere collaborazione ed evitando che le responsabilità gravino su pochi.

 

3.4 A confronto con la società

Ho iniziato a notare la disabilità di mio fratello a causa dell’atteggiamento manifestato dalla gente e soprattutto dai miei amici, quando ho cominciato ad andare a scuola. Era l’età in cui si invitavano le amiche a casa dopo scuola per fare i compiti insieme oppure alle feste di compleanno…e quando venivano a casa mia mi ricordo che spesso trovavano una scusa per andarsene. […] Quindi è stata la società che mi ha fatto scoprire la diversità di mio fratello (Catia).

Esiste un contorno variegato di figure che ruotano attorno alle famiglie che vivono l’esperienza della disabilità. Istituzioni mediche, educative e formative, ma anche parenti, amici, conoscenti, estranei che si incontrano e con cui si entra in contatto attraverso uno sguardo fugace.

Ci si auspica che la società che ospita queste famiglie vada a costituire per loro un forte baluardo su cui contare. Il confronto però non sempre è privo di ostacoli soprattutto per chi, bambino sano o disabile, ha strumenti diversi da un adulto per capire e rispondere adeguatamente.

Nei racconti dei siblings compaiono ricordi di atti di bullismo ai loro danni o a quelli del fratello, di cui si sono sentiti responsabili. Assieme a episodi di scherno, esclusione e allontanamento dal gruppo dei pari. Fino ad arrivare a tutti quei segnali più microscopici e non verbali ma potenti: occhiate curiose o impaurite, sguardi bassi palesemente evitanti, silenzi imbarazzati, cambi improvvisi di direzione, contatto fisico ridotto al minimo.

Partendo dal presupposto che anche scegliere di non vedere la disabilità sia un modo di rapportarsi con essa, gli scenari citati sono la manifestazione di costruzioni personali di questa esperienza e si connotano differentemente a seconda della transizione che maggiormente permea le esperienze che la persona vive. Ipotizzo che sia frequente un’iniziale transizione di ansia all’incontro con una persona disabile, essendo magari un’esperienza nuova mai sperimentata prima. Il come si sceglie di farvi fronte conduce a strade diverse.

Qualcuno sarà incuriosito (seppur intimorito) e avrà voglia di interessarsi per conoscere la storia, scoprire qualcosa che non sa, affrontando la novità.

In altri casi potrà prevalere la paura del diverso, dello sconosciuto, della stranezza. Tutti questi elementi mettono in discussione noi per primi, invitandoci a ricostruire alcuni significati.

Quando questa ricostruzione cui siamo posti davanti si fa più imponente e chiama in causa la nostra struttura nucleare di ruolo (ovvero chi abbiamo sempre pensato di essere), possiamo trovarci a fare fronte a una transizione di colpa[10]. Nell’incontro con la disabilità rischia di compromettersi la nostra immagine di noi, il come fino ad allora ci siamo costruiti: ad esempio accettanti, accoglienti, comprensivi, per scoprirci magari scostanti, riluttanti, smarriti.

Se l’invalidazione che sperimentiamo risulta evidente ed eccessiva, possiamo scegliere di rispondere con ostilità[11] pur di preservare intatto il nostro sistema di costrutti, non avendo al momento a disposizione modi alternativi di costruire l’esperienza.

Questo ipotetico viaggio nelle transizioni è solo un esempio per trovare un possibile significato a comportamenti e atteggiamenti che i disabili, i loro fratelli e le famiglie si trovano a vivere, a volte difficili da sostenere.

Catia dice che la società le ha fatto scoprire la diversità di suo fratello. Questo può verificarsi con una connotazione positiva nel momento in cui la rete di sostegno funziona e aiuta i familiari nella gestione della situazione e i siblings nella comprensione della stessa e nel rapporto con l’esterno.

Oppure con una connotazione negativa se l’impatto risulta brusco, scostante o rifiutante e giudicante.

Per far sì che circostanze simili siano ridotte al minimo occorre lavorare a livello di educazione culturale ad ampio raggio: politica, sociale, sanitaria, scolastica.

Così da garantire un adeguato livello informativo e la possibilità di confrontarsi molto presto con queste situazioni, rese visibili e affrontabili piuttosto che nascoste aumentando il divario immaginario fra normalità e patologia.

 

3.5 Abbiamo diritto a essere “normali”

Solo adesso che sono grande, e ho avuto la fortuna di incontrare altri fratelli e sorelle, ho capito quanto sarebbe stato importante per me capire e conoscere anche la disabilità di Giulia fin dall’inizio. […] Grazie a voi [partecipanti a un gruppo di auto-mutuo aiuto], ai nostri incontri, ho imparato a mettermi al centro della mia vita e a non vivere all’ombra di una diversità mal spiegata, strozzata dal privilegio di non avere la Sindrome di Down (Carla).

Diventa sempre più comprensibile come i siblings vivano la disabilità dei loro fratelli in prima persona, giorno per giorno sulla propria pelle, anche se i disabili non sono loro. Questo si manifesta attraverso comportamenti, pensieri, emozioni, stati d’animo a cui si legano racconti, significati e spiegazioni che non sempre hanno la possibilità e la facilità di venire a galla, di essere espressi con libertà.

In alcuni frangenti nelle testimonianze dei siblings emerge tutto l’affetto nutrito per i loro fratelli e sorelle: sentimenti non legati in prima battuta alla pietà per la loro presunta condizione di svantaggio, ma al puro legame fraterno che li avvicina e li contraddistingue, li rende pari. Da bambini sono compagni di gioco e di crescita, reciproco specchio di se stessi e delle relazioni con il mondo esterno. Da adulti, maturi e consapevoli delle esperienze condivise e attraversate, può subentrare un senso di riconoscenza e di gratitudine da parte del sibling per quanto vissuto e per come questo lo abbia cambiato; a sostegno del fatto che la disabilità, in tutta la sua difficoltà, non necessariamente conduce a esistenze segnate negativamente dal dolore.

È importante affiancare a questo quadro ricco e kellianamente aggressivo altri possibili scenari legittimi, spesso coesistenti (tale copresenza di emozioni apparentemente contrastanti è comprensibile alla luce del corollario della frammentazione[12]).

Emergono nei racconti infantili dei siblings sentimenti di risentimento verso i genitori e gelosia verso i fratelli e sorelle cui sono dirette attenzioni e cure in misura molto superiore a quanto normalmente accade in ogni situazione di fratellanza. Questo può capitare soprattutto quando i siblings non vengano aiutati a elaborare l’esperienza di disabilità: farlo potrebbe fornire ulteriori strumenti per la costruzione della situazione, delle scelte dei genitori, delle richieste che fanno etc.

Può esserci poi una forte rabbia (non kelliana) motivata da aspetti diversi. Ad esempio da una sorta di confronto serrato che avviene tra fratelli: il bambino disabile racchiude in sé aspetti di maggior fragilità per cui va in certa misura protetto e avvantaggiato; a volte questo agli occhi dei siblings avviene a priori, sistematicamente e a loro danno, poiché si sentono messi da parte, meno importanti, chiamati a dover essere i più forti o i più comprensivi etc., vivendo un senso di ingiustizia. La costruzione personale della rabbia e la sua espressione potranno prendere strade diverse, anche a seconda dell’età: manifestarsi attraverso una ribellione, un allontanamento dalla famiglia, un ritiro in se stessi, etc.

Ad avvalorare la complessità e la delicata ambivalenza di queste situazioni c’è poi il caso in cui i siblings si colpevolizzano proprio per il fatto di sentirsi arrabbiati o di vergognarsi (specie di fronte ad altre persone) della presenza imbarazzante del loro fratello/sorella. La difficoltà emerge dal far coesistere la legittimità delle loro ragioni con l’essere (o essere considerati) più fortunati, sani, senza problemi, anzi con molte risorse da far necessariamente fruttare. Da qui, in una cascata di costruzioni costellatorie[13], ne consegue che debbano anche essere in grado di sopportare di più, di capire, di aiutare e prendersi cura, di sacrificarsi, per giunta senza lamentarsi troppo. E, quando non riescono a tenere fede a questo standard elevato di richieste e di doveri, può subentrare la colpa.

In antitesi ai casi in cui in famiglia non si parla della disabilità, compare il pericolo contrario di portarla come unica spiegazione e giustificazione di tutto, trasmettendone un’immagine molto meno ricca e potenziale e molto più rigida e strutturata.

Può veicolarsi un messaggio paradossale: essere “normali” diventa una condizione privilegiata con cui convivere pesantemente. L’eco del soldato superstite nel campo di battaglia: perché morire è toccato ad altri e non a me? Traducibile in: perché mio fratello è disabile e non io? Esiste una vastissima letteratura che spazia dall’analisi dei casi delle persone sopravvissute ai Lager nazisti, allo studio dei disturbi da stress post-traumatico nei veterani di guerra, all’elaborazione di un lutto familiare importante. Rispetto ai siblings, credo sia interessante provare a trasporre (con le dovute specificità del caso) un simile punto di vista, con l’intento di ampliare la comprensione della loro esperienza.

 

4. Tipologie di intervento

Approdiamo adesso a una disamina degli interventi di sostegno e delle modalità di lavoro che esistono sul territorio internazionale, utili laboratori per pensare a nuove proposte.

Avendo sottolineato la complessità delle situazioni e i molteplici piani relazionali che si intrecciano, mi trovo d’accordo con la considerazione di Rubbi (2012) circa l’importanza di lavorare con la famiglia nella sua totalità:

Credo che il fatto di occuparsi della famiglia nel suo complesso costituisca la migliore possibilità di assistere il nuovo nato [bambino disabile] e di permettergli di crescere in un contesto familiare supportivo; e contemporaneamente sia la migliore possibilità di ridurre il rischio per gli altri componenti della famiglia, in particolare i genitori ed i fratelli o sorelle, di sviluppare stress cronico o difficoltà emotive anche gravi. Questa visione è in aperta antitesi al concetto di “”famiglia disabile”, patologica per definizione o bisognosa per forza […], atteggiamento che ha significato un’aperta svalutazione del patrimonio di esperienza e di risorse che la famiglia porta con sé.

I punti salienti di questo approccio globale sono numerosi.

Innanzitutto incentiva la creazione di quella rete di sostegno (familiare e sociale) così importante per affrontare sia la quotidianità sia i momenti cruciali; rete basata su comunicazione diretta e reciproca, informazione chiara e adeguata, comprensione dei vari punti di vista dei differenti attori in gioco, supporto interno ed esterno al nucleo.

Conseguentemente, questo interscambio mette più facilmente in luce le risorse, i limiti, le potenzialità e le difficoltà esistenti. Potendo disporre di un simile quadro generale, in evoluzione continua, sarà più semplice riconoscere (e comprendere) le circostanze in cui si renda necessario chiedere un aiuto esterno e quelle in cui far fruttare tutte le proprie capacità; valorizzando così le competenze personali del singolo e la forza del gruppo grazie a un’azione creativamente mutevole.

Inoltre, un percorso che si sviluppi seguendo nel tempo le evoluzioni delle famiglie e dei siblings può fornire una visione a lungo termine ampia e utile rispetto alle variazioni delle loro problematiche, della qualità della loro vita e delle loro necessità, nonché delle modalità di intervento migliori.

Credo che si renda necessario da parte dei diversi soggetti che collaborano alla presa in carico della famiglia valutare le richieste e i bisogni del sistema adottando un approccio centrato sull’ascolto e comprensione delle diverse narrazioni. Per evitare di fraintendere o non comprendere a fondo quali siano le costruzioni di ogni specifico gruppo familiare rispetto alla propria esperienza con la disabilità.

 

4.1 Quando i siblings sono bambini

Gettiamo un rapido sguardo al panorama degli interventi esistenti per l’infanzia e la pre-adolescenza. Da quanto ho potuto estrapolare dalle mie indagini e ricerche sull’argomento, la fascia dai 7 ai 14 anni d’età è quella cui si rivolgono la maggior parte dei progetti. Nella quasi totalità dei casi viene privilegiato l’approccio di gruppo al colloquio individuale, che può comunque svolgersi laddove emerga una particolare necessità.

L’obiettivo generale è porre al centro dell’attenzione i bambini e ragazzi, i loro vissuti, la loro realtà e le possibilità future; e fare in modo che ciò avvenga stemperando almeno in parte la pesantezza e difficoltà quotidiane grazie alla presenza di pari con altrettante difficoltà, con i quali comunicare e svolgere attività piacevoli.

Tali attività possono essere di tipo ludico-aggregativo, per arrivare a proposte miste in cui affiancare momenti di gioco ad altri di riflessione e confronto. Sono occasioni di conoscenza, ritrovo e svago organizzate a cadenza regolare con il gruppo dei fratelli sotto la guida e la supervisione degli operatori di riferimento (educatori, psicologi, volontari). Lo scopo principale è incentivare la creazione di rapporti tra pari e far nascere sul territorio un gruppo di amici che potrebbero continuare a frequentarsi sia in momenti ludici sia in momenti di auto-aiuto organizzati nel tempo. Altre attività di gruppo sono quelle finalizzate a far emergere specifici argomenti e aspetti nodali della particolare condizione di sibling, per promuovere chiavi di lettura utili per la loro gestione. Il focus diventa in questi casi facilitare l’espressione dei propri sentimenti e bisogni e stimolare la comunicazione e il confronto sul tema.

Spesso i promotori di tali iniziative, nell’ottica di presa in carico globale discussa prima, organizzano per i genitori degli incontri con esperti di dinamiche familiari in contesti di disabilità. Questo sia per dare parola e ascolto alle loro esperienze, sia per fare emergere nodi particolarmente difficili e poter condividere strategie e modalità di azione utili ad aumentare il benessere dentro al nucleo familiare.

Citando alcune esperienze straniere, un programma ormai conosciuto in molti paesi è il Sibshop (risultato della fusione delle parole sibling e workshop), il cui creatore è Donald Meyer (1994): gli incontri che egli propone durano mezza giornata, hanno un conduttore e dei facilitatori che aiutano la gestione del gruppo e sono dedicati ai siblings tra gli 8 e i 12 anni, periodo in cui il confronto con i pari inizia a sollevare maggiori interrogativi e dubbi riguardanti la disabilità del fratello. Il programma è stato studiato per fornire momenti di svago, opportunità di incontro con altri siblings, condivisione di esperienze, confronto e individuazione di strategie per la gestione di alcune difficoltà tipiche o più comuni.

Kate Strohm (2005) ha pensato invece a un percorso più articolato nel tempo, rivolto sempre alla fascia tra gli 8 e i 12 anni, suddiviso in sei incontri di due ore ciascuno una volta al mese, con due conduttori più alcuni facilitatori. Ritornano i principali scopi del programma: creare un’occasione divertente e al contempo dare ai fratelli l’opportunità di incontrare altri fratelli e di scoprire che non sono soli nella loro esperienza. Aiutarli a sviluppare una migliore comprensione dei loro bisogni e di quelli dei loro fratelli/sorelle e valorizzarli non solo nelle loro famiglie, ma anche nella comunità.

Tutti questi percorsi non si prefiggono solo di dare una risposta immediata al disagio del singolo, ma anche di prevenire le difficoltà che si possono verificare durante il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sia a livello sociale che nel contesto familiare (Dutto, Molineris, & Pellotieri, 2011).

 

4.2 Fare rete fra adulti: i gruppi di auto-mutuo aiuto (AMA)

Prima di allora non avevo mai pensato di poter appartenere a una qualsiasi “categoria” particolare. Mi sentivo un po’ come una specie rara, una di quelle specie in via d’estinzione […]. Non avevo mai pensato che la mia esperienza di vita avrebbe potuto interessare qualcuno che fosse al di fuori della mia cerchia familiare o delle mie amicizie (Fiorenza).

Gli interventi per l’infanzia e adolescenza appena descritti hanno preso piede da pochi decenni. Ci sono però moltissimi siblings che sono cresciuti senza queste opportunità e con i quali è possibile lavorare oggi, da adulti: per garantire loro lo spazio di espressione e interscambio che non hanno avuto in passato e per alimentare la nascita di relazioni significative utili nei momenti di bisogno.

Anche in questi casi si predilige una modalità di lavoro collettiva; la formula più frequentemente adottata è quella del gruppo di auto-mutuo aiuto (AMA). Le realtà e le tipologie esistenti sul territorio sono moltissime, ognuna caratterizzata da aspetti peculiari e gestita diversamente in base alle esigenze di fondo. In linea generale, si tratta di riunioni informali in cui persone unite da un obiettivo o da un’esperienza comune possono incontrarsi, conoscersi e confrontarsi in uno spazio di scambio e reciproco sostegno, trovando un luogo dove affrontare le proprie difficoltà ed esercitare le proprie risorse. La cadenza degli incontri è variabile (settimanali, quindicinali o mensili, con una durata di circa un paio d’ore). Non si connota come gruppo terapeutico ma come opportunità libera di condivisione; vige un criterio di parità fra i membri e può o meno essere presente un facilitatore che contribuisce al buon funzionamento del gruppo cercando di gestirne le dinamiche.

Lo scambio può nascere di volta in volta da un aspetto che suscita interesse in quel momento, una difficoltà incontrata in passato che può essere un utile suggerimento per il presente, una sofferenza attuale, una fantasia sul futuro. Non ci sono vincoli né sull’argomento né sulla possibilità di intervenire o di ascoltare semplicemente, nel rispetto delle scelte di tutti. Il focus è centrato su fornire un tempo e uno spazio condivisi in cui potersi esprimere, partendo dalla realtà quotidiana costruita e vissuta dalle persone piuttosto che da tematiche precostituite.

Chi sta vivendo problemi analoghi a quelli qui raccontati può provare conforto nel sentire di non essere il solo a trovare le difficoltà che trova e nel sapere che anche certi problemi si possono superare, senza subire troppi danni (Bellan & Manzato, 2004, p. 54).

 

5. Quali ulteriori contributi dal costruttivismo?

Questa panoramica sul mondo dei siblings ha permesso di gettare uno sguardo allargato, seppur non esaustivo, su un argomento con importanti ricadute in ambito professionale. Credo che la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) consenta di mantenere una visione interessata prima di tutto alle persone nella loro globalità, nel loro fare esperienza del mondo e costruire significati, nel loro intessere relazioni e dare senso al contesto che abitano. Questa premessa e focus principali spostano la riflessione dal “problema” comunemente inteso alla “situazione come è vissuta”, valorizzando la portata della stessa: ne emerge tutta la complessità, il continuo processo di cambiamento dei singoli e del nucleo familiare ristretto e allargato, le sfumature personali che aiutano a non adagiarsi sulle proprie preconcette convinzioni ma a porsi interrogativi sempre nuovi. La sfida è spostare l’attenzione dall’apparentemente ovvio (le difficoltà dei bambini disabili e dei loro genitori) al meno visibile (l’esperienza dal punto di vista degli altri fratelli e sorelle); questo piccolissimo movimento apre una grande breccia sull’inesplorato, le cui implicazioni cadono poi su ciò che si credeva di sapere sull’esplorato. E consentono di revisionarlo.

Pensando alle tipologie di intervento prima descritte e a come poterle arricchire, sarebbe necessario innanzitutto incrementare le risorse dei servizi che per primi si interfacciano con le famiglie che vivono l’esperienza disabilità: reparti ospedalieri, unità operative di neuropsichiatria infantile, consultori familiari, medici di base e pediatri. L’incremento delle risorse è da intendersi sia in termini di formazione degli operatori e del lavoro di équipe, sia in termini di proposte concrete di sostegno e intervento che loro per primi possono offrire (sportelli di ascolto, informativi, etc.) e i collegamenti che possono facilitare facendo da tramite con le realtà del territorio. Per garantire fin dall’inizio “dell’emergenza disabilità” la già discussa rete sociale di sostegno, fondamentale nei frangenti di maggior spaesamento, confusione e dolore.

Un’azione ugualmente rilevante potrebbe avvenire all’interno delle istituzioni preposte alla formazione dei bambini. Introdurre nelle scuole percorsi che propongano ai ragazzi le tematiche della diversità, della disabilità, dell’accoglienza, del sostegno; e anche delle difficoltà, del rifiuto e degli ostacoli che tutto questo può comportare. Dare la possibilità ai bambini di esprimere se stessi, valorizzando ciò che pensano, provando a comprenderlo e restituirlo, cercando con loro quali possibili strade non sono state ancora percorse.

Parallelamente, offrire agli insegnanti opportunità di formazione sull’argomento potrebbe favorirli nel portare loro stessi tali contenuti in classe e svolgere il difficile compito di osservatori del gruppo e delle dinamiche che si instaurano fra bambini, sapendo cogliere segnali importanti da restituire eventualmente ai genitori.

Nel caso in cui, come terapeuti costruttivisti, ci troviamo a lavorare con un sibling, i presupposti sono i medesimi di ogni terapia.

Interessarsi prima di tutto alla persona nella sua interezza e unicità potrebbe avere una valenza nucleare per il fatto di contrapporsi alla strutturante definizione identitaria “tu sei fratello/sorella di…”. Operazione di grande respiro, ma di altrettanto grande minaccia per le implicazioni di questa permeabilizzazione[14]: se il ruolo nucleare non si esaurisce più nell’essere sibling, chi altro si è chiamati a essere?.

È poi fondamentale per lo psicoterapeuta essere consapevole delle proprie costruzioni e significati personali rispetto alla disabilità e tenere presente la complessità del quadro esistente e delle sue implicazioni, per mappare con maggior comprensività il sistema dell’altro.

Nella presa in carico di coppie o famiglie, sarà importante dare voce a tutti i componenti del nucleo valorizzandone i punti di vista, i bisogni, le richieste, le necessità. Per favorire una socialità reciproca mantenendo l’attenzione su tutti i membri, considerandoli soggetti attivi con cui interagire e facendo sì che anche loro possano vicendevolmente costruirsi come tali.

 

Un lavoro appassionante e una sfida difficile, una fucina di possibilità.

 

Bibliografia

AA.VV. (2011). Atti del convegno “Mio fratello è figlio unico. Fratelli e sorelle di persone con disabilità”, promosso dal Comune di San Lazzaro di Savena, dallo Spazio Risorse e Sportello Informahandicap, in collaborazione con la cooperativa sociale Accaparlante. Pubblicazione a cura del Comune di San Lazzaro, Bologna.

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Fonti elettroniche

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Rubbi, M. (2012). Verso una pedagogia dei fratelli? Spunti per una ricerca “all’europea” sui siblings.Consultato da http://www.accaparlante.it/node/29933

 

Sitografia

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Note sull’autore

 

Giulia Tortorelli

Institute of Constructivist Psychology

giulia.tortorelli@ordinepsicologiveneto.it

Psicologa psicoterapeuta specializzata presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. I suoi interessi professionali si orientano verso la comunicazione interpersonale e l’utilizzo di strumenti narrativi nel lavoro col singolo e con gruppi, sia in ambito clinico che formativo-educativo. Si occupa di sostegno alla genitorialità, con particolare attenzione alle situazioni in cui sia presente una condizione di disabilità psico-fisica in famiglia. Svolge colloqui di consulenza e sostegno psicologico e psicoterapia.

 

Note

  1. George Kelly (1955) utilizza il termine transizione nel tentativo di risolvere l’annosa dicotomia fra pensiero e sensazione, cognitivo ed emotivo, mente e corpo; sottolineando così la globalità dell’essere umano ed il continuo e contemporaneo processo in corso. Individua sei transizioni principali: aggressività, ansia, paura, colpa, minaccia ostilità. In particolare, la transizione d’ansia cui si fa riferimento in questo passaggio viene così descritta dallo stesso Kelly (ibidem, p. 365): la “consapevolezza che gli eventi cui ci troviamo di fronte giacciono per lo più al di fuori del campo di pertinenza del nostro sistema di costrutti”. Nasce quindi dal percepire di non disporre degli elementi o costrutti più utili per costruire gli eventi che siamo chiamati a vivere.
  2. Il ciclo dell’esperienza è uno strumento che fornisce una chiave di lettura per mappare il nostro modo di conoscere il mondo, quindi anche il nostro agire. Si articola in cinque momenti in continuo alternarsi fra loro, passando attraverso i quali diamo il via a molteplici cicli consecutivi. Essi sono: anticipazione (le nostre ipotesi di partenza, più o meno esplicite), investimento (il grado di rilevanza che l’esperienza ha per noi), incontro (confrontarsi direttamente con l’esperienza), verifica (validazione o invalidazione delle anticipazioni), revisione (il cambiamento delle nostre anticipazioni che può o meno avvenire per avviare un nuovo ciclo dell’esperienza).
  3. Transizione di aggressività (Kelly, 1955): “elaborazione attiva del campo percettivo di una persona”. In altre parole, le persone sono aggressive quando cercano di esplorare attivamente le loro convinzioni attraverso un processo di estensione e di elaborazione del campo di esperienza, pronte se necessario a modificare le proprie costruzioni (Armezzani, Grimaldi, & Pezzullo, 2003).
  4. Traduzione dell’autrice.
  5. Il Costruzionismo Sociale (di cui Kenneth Gergen è uno dei massimi esponenti contemporanei) sostiene che l’essenza della realtà consista nella relazione sociale situata storicamente e mediata simbolicamente tra le persone che entrano in relazione fra loro (Berger, P. L., Luckmann, T., 1997).
  6. Le citazioni nei paragrafi a seguire sono testimonianze dirette di siblings tratte da:-Atti del convegno: “Mio fratello è figlio unico. Fratelli e sorelle di persone con disabilità”, AA.VV., 2011, pp. 13-19.-Bellan, F., Manzato, I., 2004, pp. 53-69.
  7. Il processo di costrizione si verifica quando “una persona restringe il suo campo percettivo allo scopo di minimizzare le incompatibilità degli eventi” (Kelly, 1955, p. 352). La persona si concentra su pochi elementi quando viene investita da un numero elevato di informazioni. Questa selezione può risultare utile per evitare confusione, stress o minacce eccessivi.
  8. Costrutto prelativo: “un costrutto che considera di sua esclusiva appartenenza gli elementi del suo dominio” (ibidem). Si tratta di una costruzione del tipo “nient’altro che” (es. Anna è una casalinga e nient’altro che quello).
  9. Costrutto proposizionale: “un costrutto che non veicola alcuna implicazione riguardo all’appartenenza dei suoi elementi ad altri domini” (ibidem). Si tratta di una modalità costruttiva che lascia spazio a molteplici possibilità (es. Anna è casalinga, ma anche mamma, lettrice, simpatica…etc.).
  10. Transizione di colpa: “la consapevolezza della rimozione del Sé dalla struttura nucleare di ruolo” (Kelly, 1955, p. 370). Il termine “struttura nucleare” si riferisce al sistema di costrutti che riguarda specificamente il Sé. Attraverso i costrutti nucleari valutiamo aspetti cruciali del nostro modo di essere, ciò che ci caratterizza. La colpa rispecchia la dissonanza profonda e indesiderata tra la nostra immagine privata e l’immagine riflessa dal nostro agire, pensare, vivere.
  11. L’ostilità (ibidem, p. 375) è “lo sforzo continuo di estorcere prove validazionali a favore di un tipo di previsione sociale di cui è già stato riconosciuto il fallimento”. Così intesa, è una forma di autopreservazione: è necessaria per mantenere a tutti i costi la validità delle nostre costruzioni nucleari, anche a fronte di ripetute invalidazioni.
  12. Corollario della frammentazione: “Una persona può impiegare di volta in volta una varietà di sottosistemi di costruzione che sono deduttivamente incompatibili gli uni con gli altri” (ibidem, p. 58). Il corollario ribadisce che la natura del sistema di costrutti è di tipo psicologico e non logico; il fatto che costruzioni differenti non sembrino coerenti le une con le altre non significa che nella persona non esista coerenza; altresì è ammessa, nella sua complessità, la contraddizione.
  13. Un costrutto costellatorio “stabilisce l’appartenenza dei suoi elementi ad altri domini. Si tratta di un pensiero stereotipato e tipologico” (ibidem). Espressioni come “se…allora” consentono l’appartenenza degli elementi a più domini ma sulla base di criteri preconcetti (es. se Anna è una casalinga, allora è anche una disoccupata, pigra etc.)..
  14. La permeabilità/impermeabilità è una delle molteplici qualità dei costrutti che indica la loro maggiore o minore predisposizione all’inclusione di nuovi elementi all’interno del proprio campo di pertinenza, ovvero l’insieme di eventi a cui un costrutto o un sistema di costrutti può riferirsi (Kelly, 1955).