Tempo di lettura stimato: 25 minuti
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Fiabe, metafore e altre finzioni

Fairy tales, metaphors and other fictions

di

Carlo Guerra

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Questo lavoro, dopo una breve rassegna sui modi in cui è stata definita la metafora nella filosofia, nella linguistica e nella poetica, elenca una sintesi delle sue caratteristiche principali attraverso la lettura di differenti approcci psicologici. Propone, inoltre, una definizione della metafora utilizzando la Psicologia dei Costrutti Personali e suggerisce il suo utilizzo nella prassi clinica poiché utile strumento sia per la comprensione dell’altro che per la promozione del cambiamento in psicoterapia. Viene, inoltre, analizzata la logica metaforica del “come se”, intesa come trasposizione narrativa della figura retorica attraverso il racconto di storie verosimili.

This paper, after a brief review of the ways in which metaphor has been defined in philosophy, linguistics and poetics, lists a synthesis of its main characteristics through the lenses of different psychological approaches. It also proposes a definition of the metaphor using the Psychology of Personal Constructs and suggests its use in clinical practice as a useful tool for both understanding the other and promoting change in psychotherapy. The metaphorical logic of “as if”- understood as a narrative transposition of the rhetorical figure through the telling of plausible stories – is also analyzed.

Keywords:
Fiaba, metafora, finzione, “come se”, verosimiglianza | Fairy tale, metaphor, fiction, “as if”, verisimilitude
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1. Metafora come terra di frontiera

Avventurarsi nello studio della metafora è una scelta pericolosa per la complessità del tema e per la molteplicità delle discipline che lo hanno trattato. Come giustamente riporta Gemma Falco (2018), la metafora è sempre stata “contesa fra filosofia, retorica, linguistica e poesia”, ma è riuscita ad appartenere a questi ambiti “senza farsene fagocitare, fiera della sua appartenenza ai fenomeni «di frontiera»”. È in questo terreno di confine che provo ad aggiungere un piccolo contributo nell’analisi e nell’interpretazione della metafora attraverso la Psicologia dei Costrutti Personali che, come hanno fatto molti altri orientamenti, si è interrogata sulla funzione che questa figura retorica può avere nel nostro modo di dare senso all’esperienza. Questo articolo cerca di rispondere in primo luogo a una curiosità personale e, in secondo luogo, a un interrogativo professionale. La prima è nata al termine del percorso di specializzazione in psicoterapia quando mi sono accorto che la maggior parte degli argomenti che erano stati trattati, che più mi affascinavano e che più si erano impressi nella mia memoria (ma ora, ripensandoci, potrei dire avevano acquisito più senso per me) erano stati presentati attraverso metafore. Mi sono quindi chiesto come mai. L’interrogativo professionale discende da quello personale e cerca di comprendere, attraverso gli strumenti offerti dalla Psicologia dei Costrutti Personali, quali siano i processi psicologici chiamati in causa dalla metafora. Molti autori, all’interno di questo quadro teorico, si sono confrontati con questo tema, ma nessuno finora mi sembra sia riuscito ad analizzare precisamente il meccanismo che rende la metafora uno strumento così potente sia sul piano linguistico che psicologico. In altri termini tenterò di definire cosa sia la metafora, quali siano le sue peculiarità, come funzioni e, in aggiunta a questo, proverò a ipotizzare come possa essere utilizzata nella psicoterapia per accedere ai significati dell’altro e per promuovere il cambiamento. In questo modo mi piacerebbe che la metafora diventasse terra di frontiera anche tra teoria e prassi in psicologia.

 

2. La metafora e le sue funzioni

La metafora è una “figura retorica che consiste nel trasferire a un oggetto il termine proprio di un altro secondo un rapporto di analogia” (Cortellazzo & Zolli, 1999, p. 969). Solitamente sul piano linguistico viene definita come una similitudine sottintesa, ovvero un processo espressivo per cui un vocabolo o una locuzione sono utilizzati per esprimere un concetto differente attraverso un rapporto analogico in assenza di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali (come). Secondo Bowdle e Gentner (2005) le metafore:

stabiliscono delle corrispondenze tra concetti che appartengono a domini differenti di conoscenza. Per esempio, si consideri la ben conosciuta metafora la mente è un computer. Il bersaglio (il primo termine o argomento) di questa metafora si riferisce a un’entità astratta, e la base (il secondo termine o medium) si riferisce a un complesso dispositivo elettronico. (p. 193)

Il termine metafora è composto da “metà” che significa oltre, tra e “phorèo” forma secondaria di “phèro” portare. Ogni metafora, quindi, conduce a un significato che va oltre, che trasporta al di là del noto, del conosciuto. Secondo il linguista Perelman (1966), la metafora è una analogia condensata, così come è evidente nell’esempio preso dalla Poetica di Aristotele:

la vecchiezza (B) è con la vita (A) nello stesso rapporto che la sera (D) col giorno (C); perciò si potrà dire che la sera (D) è la vecchiezza del giorno (B+C) e anche che la vecchiezza (B) è la sera della vita (D+A). (p. 421)

Perelman, infatti, riprendendo una tradizione antica ancora in uso ai tempi di Kant, considera l’analogia come una similitudine che ha la struttura di un’equazione del tipo: A sta a B come C sta a D. Cita, ad esempio, un’analogia aristotelica “quella stessa relazione che hanno gli occhi dei pipistrelli con la luce del giorno, l’intelletto della nostra anima l’ha con le cose che sono per loro natura più splendide di tutte” (ibidem, p. 393) in cui A è l’intelletto dell’anima, B le cose splendide, C gli occhi del pipistrello, D la luce del giorno. L’insieme di A e B è definito tema, cioè l’elemento su cui verte la conclusione, l’insieme di C e D è definito foro, ossia l’elemento che serve ad appoggiare il ragionamento per chiarire la struttura dell’analogia.

 

Queste definizioni affini alla retorica tradizionale concepiscono la metafora come uno strumento linguistico che trasla i significati sui binari delle analogie per enfatizzare l’argomentazione attraverso un ornamento stilistico. Questo tipo di visione viene invece superata da Bianchera e Vezzani (2000) secondo cui:

la metafora è un evento del discorso dotato di un carattere di novità, che arricchisce l’argomentazione non solamente da un punto di vista estetico per l’ornamento che eventualmente introduce, ma anche perché conferisce all’espressione del pensiero un carattere inconsueto, di varietà, un tono di minor rigidità. Di più aperta disponibilità ad arricchirsi di sfumature. Le parole che compongono la metafora acquistano in vitalità nella misura in cui il nuovo evento linguistico corrode la fissità dei significati dovuti alla banalità dell’uso quotidiano. L’alone semantico delle parole tende ad espandersi, elicitando elementi insospettati, tanto denotativi quanto connotativi, che divengono suggestivi inviti per gli interlocutori a cogliere una pluralità di indicazioni di nuove vie da percorrere nella comunicazione dialogica. (p. 230)

Grazie a questi due autori entriamo nel campo di pertinenza della psicologia. La metafora abbandona la funzione ornamentale della linguistica per diventare strumento di espressione del pensiero, agendo sia come elemento di sintesi (tra il significato denotativo e quello connotativo[1]), sia come invito alla creatività nello scambio di significati con l’altro. L’idea che la metafora non si limiti a descrivere la realtà ma che funga invece da canalizzatore dell’esperienza è condivisa anche da Lakoff e Johnson (2012): “la metafora è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano, e non solo nel linguaggio ma anche nel pensiero e nell’azione: il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo e agiamo, è essenzialmente di natura metaforica”. (p. 21)

 

Per comprendere la posizione dei due linguisti statunitensi è utile rifarsi all’esempio che riportano in Metafora e vita quotidiana quando citano una metafora molto comune nel linguaggio quotidiano ovvero “la discussione è una guerra”. Connotare la conversazione come una disputa tra due interlocutori significa presumere che ci sarà un vinto e un vincitore, che ci sarà qualcuno che attacca e qualcuno che difende, qualcuno che prevarica le argomentazioni altrui perché indifendibili. Il rapporto dialogico viene strutturato attraverso elementi di aggressività che esplicitano il processo attraverso cui diamo significato alla conversazione e il modo in cui esercitiamo, ad esempio, il potere sulle altre persone. Se invece “la discussione fosse una danza” si spoglierebbe di quegli elementi di veemenza e prevaricazione, accogliendo l’idea che la conversazione necessiti di partecipazione e di coordinazione tra gli interlocutori e che il risultato di questa cooperazione possa essere utile per entrambi.

 

Il fatto che “le metafore siano necessarie, non solo simpatiche” (Ortony, 1975) è opinione anche di Bowdle e Gentner (2005) i quali, analizzando una grande mole di ricerche sulla linguistica, rilevano come l’utilizzo delle metafore abbia cambiato il proprio contesto di applicazione negli ultimi trent’anni passando da uno strettamente legato all’ornamento del linguaggio poetico a quello psicologico toccando temi quali la comunicazione e il ragionamento. Proprio all’interno di quest’ultimo gli autori, dopo aver descritto i due modelli[2] più accreditati per spiegare il meccanismo di connessione tra i diversi domini semantici che la metafora riesce a stabilire, evidenziano come queste figure retoriche nascano (novel metaphor), si evolvano (conventional metaphor) e poi possano morire (dead metaphor). Di fatto confermando l’ipotesi che la figura retorica è uno strumento dinamico e versatile sia sul piano linguistico per descrivere e comunicare, che sul piano psicologico per comprendere e donare nuovi significati attraverso la modificazione del linguaggio.

 

A mano a mano che ci allontaniamo dalla linguistica e ci affacciamo alla psicologia, la metafora sembra abbandonare sempre di più la sua natura descrittiva in favore di una vocazione conoscitiva legata ai processi cognitivi. Secondo Mac Comac (1985) la capacità intenzionale della metafora di produrre un’anomalia semantica che suggerisca un nuovo significato ha origine in un processo cognitivo.

The creation of a new metaphor occurs when an individual juxtaposes conceptual referents never before combined, producing both a semantic anomaly and a new conceptual insight. This new metaphoric expression surprises us by both its strange grammatical form and its suggestion of a new possible way of looking at an event or at the world. (p. 136)

L’elemento che sembra invece rimanere costante in entrambe le discipline è il carattere di innovazione e creatività veicolato dalla metafora grazie alla sua capacità di invitarci ad esplorare ciò che non è noto attraverso ciò che si conosce già. Anche per Nanetti (2018) la metafora è strumento di invenzione, grazie al gioco ricorsivo della dicotomia somiglianza-differenza:

attraverso la metafora, infatti, si inventano nuove conoscenze, grazie alle somiglianze che essa ci permette di istituire tra oggetti tra loro distanti e non appartenenti alle stesse categorie. La metafora ha in tal senso una valenza fortemente euristica: è il dispositivo per mezzo del quale si scoprono nuove forme di sapere. Il metaforizzare appare dunque un’attività filosofica prima ancora che retorica. Di più, l’attività creatrice del metaforizzare permette all’uomo di ridisegnare i confini del mondo in cui abita e appare in virtù di questa azione attività fondatrice della filosofia stessa. (p.7)

Questa è la posizione anche dell’epistemologo Schon (1963), secondo il quale la metafora è un modo per conoscere ciò che non ci è familiare attraverso qualcosa di familiare, per creare qualcosa di nuovo conservando il più possibile il passato. Anche in questo caso il processo creativo della metafora è il risultato della contrapposizione di due polarità: per Nanetti quella tra somiglianza e differenza, per Schon invece quella tra familiare e non familiare.

 

Tentando di riassumere i contributi degli autori fin qui citati sembra che, a prescindere dalla disciplina con cui ci si approcci alla metafora, questa assolva ad almeno quattro funzioni:

  • descrivere per analogia;
  • canalizzare l’esperienza;
  • favorire processi conoscitivi;
  • promuovere processi creativi.

 

In tutti i casi appena citati mantiene comunque la sua essenza trasformatrice, che induce la persona al movimento e a un’esperienza di novità nel suo rapporto con il mondo che la circonda.

 

3. La metafora e la Psicologia dei Costrutti Personali

Potremmo dire che la Psicologia dei Costrutti Personali si fonda su una metafora. Concepire l’uomo come uno scienziato (Kelly, 1955) è la premessa su cui poggia tutta la teoria dello psicologo statunitense. Un uomo che non è governato da impulsi inconsci che cercano una via di sfogo attraverso un sistema idraulico come fosse un dispositivo a vapore di fine Ottocento, o che risponde meccanicamente a stimoli ambientali esterni come un robot primitivo, né, tanto meno, un elaboratore elettronico che acquisisce, decodifica e immagazzina informazioni dall’ambiente circostante. È un individuo che, al pari degli scienziati di professione, costruisce teorie per prevedere e controllare il futuro. Le elabora a partire dalla propria esperienza e le pone a verifica grazie agli esiti dei propri esperimenti in quel grande laboratorio che è la vita.

 

Prima di procedere oltre nel tentativo di definire la metafora nei termini PCP è necessario però fare una digressione per chiarire quali sono i presupposti epistemologici da cui discendono le riflessioni successive. Per fare questo è indispensabile evidenziare cosa sia un processo cognitivo e cosa si intenda per linguaggio all’interno dell’epistemologia costruttivista. Nella sua accezione radicale (von Glasersfeld, 2016) il costruttivismo rappresenta la cornice filosofica secondo cui:

  1. la conoscenza non viene ricevuta passivamente ma costruita dal soggetto conoscente;
  2. la funzione della conoscenza è adattiva nel senso biologico del termine e tende alla viabilità;
  3. la conoscenza serve per l’organizzazione del mondo esperienziale, non per la scoperta di una realtà ontologicamente oggettiva.

 

Da questo punto di vista il processo cognitivo è agito da un soggetto attivo che utilizza le proprie strutture di significato non per adeguare la propria rappresentazione della realtà a un mondo esterno al quale aderire il più possibile evitando eventuali interferenze (presupposto del realismo positivista), ma per perseguire scopi e rispondere a perturbazioni costruendo una propria realtà attraverso la propria esperienza. E dall’esperienza il soggetto trae quei “fatti” (cioè, i risultati del nostro fare) considerati utili e vantaggiosi (viabili) nel tentativo di organizzare la conoscenza attraverso la ricorsività di ciò che accade in un continuo esercizio di discriminazione. Dal punto di vista costruttivista la conoscenza non costituisce un’“immagine” del mondo. Essa non rappresenta il mondo, perché è costituita da schemi d’azione, concetti, pensieri, e distingue quelli che sono considerati vantaggiosi da quelli che non lo sono. In altre parole, perviene a modi e mezzi che il soggetto conoscente ha concettualmente sviluppato per agire nel mondo per come egli lo esperisce.

Il costruttivismo radicale è quindi radicale soprattutto perché rompe con le convenzioni e sviluppa una teoria della conoscenza in cui la conoscenza non riguarda più una realtà “oggettiva” ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione di esperienze nel mondo del nostro esperire. Il costruttivista radicale ha abiurato una volta per tutte il “realismo metafisico” e concorda pienamente con Piaget quando dice: “L’intelligence…organise le mond en s’organisant elle-même” (von Glasersfeld in Watzlawick, 2006, p. 23).

Se quindi non esiste una realtà esterna a prescindere dall’osservatore e i nostri processi cognitivi non sono tentativi rappresentativi di adeguarsi agli oggetti al di fuori di noi, bensì costruzioni operate dal soggetto conoscente attraverso le proprie organizzazioni cognitive e biologiche (Maturana & Varela, 1987), il linguaggio non viene più considerato come un mezzo per la trasmissione delle informazioni e di conseguenza decade la sua funzione denotativa. Non c’è descrizione di oggetti esterni al nostro mondo da inviare a un destinatario attraverso informazioni che evitino interferenze, ma la costruzione personale di significati nati dalla mia esperienza del mondo che cerco di coordinare con i significati del mio interlocutore interagendo con lui.

Se sembra accettabile parlare della trasmissione di informazione nel parlare ordinario, ciò avviene perché chi parla, tacitamente, assume che l’ascoltatore sia identico a lui e quindi che egli abbia il suo stesso dominio cognitivo (ciò che non si dà mai), meravigliandosi quando sorge un “fraintendimento”. Un simile approccio è valido per sistemi di comunicazione creati dall’uomo dove l’identità di chi invia e di chi riceve è implicitamente o esplicitamente specificata dal progettista, e un messaggio, a meno che non sia disturbato durante la trasmissione, seleziona necessariamente alla ricezione lo stesso insieme di stati che rappresenta all’emissione (Maturana & Varela, 1985, p. 81).

La perdita di utilità della discriminazione tra significato denotativo e connotativo del linguaggio nella prospettiva costruttivista è resa in maniera molto chiara anche dalle parole di von Foerster (1987):

il linguaggio è connotativo: quando dico qualcosa non mi sto riferendo a qualcosa al di fuori. Genero in te un’intera risonanza di correlazioni semantiche. Se dico “gatto” tu non pensi a un gatto particolare ma a un costrutto di un’organizzazione semantica relazionale; ti interesserà poi come utilizzo il concetto di “gatto” che ho evocato. Nella sua apparenza il linguaggio si riferisce alle cose, nella sua funzione si riferisce unicamente alla nozione che ciascuno ha delle cose. Nella sua apparenza è monologico, denotativo, nella sua funzione è connotativo, fa qualcosa per te. Si tratta di un dialogo: parlo con me attraverso di te. Si crede sempre di descrivere qualcosa quando in realtà si creano delle immagini che sono evocate nella mente. Nelle scuole di giornalismo si insegna un motto: “Dillo com’è”. Io proporrei piuttosto “è come l’hai detto”. (p. 48)

Wittgenstein (2022), approfondendo la riflessione sul piano linguistico, si affianca agli autori appena citati quando afferma che il linguaggio è costituito da proposizioni che esprimono un pensiero, e le proposizioni stesse (che sono costituite da segni) sono costruzioni della realtà così come la pensiamo. Il linguaggio diventa quindi, in questa logica, costruzione di costruzioni, ovvero discriminazioni significative (proposizioni) dei nostri modi personali di accedere alla realtà (pensiero/conoscenza).

È all’interno di questi confini epistemologici e linguistici che ora procederò nel tentativo di descrivere cosa sia, per la Psicologia dei Costrutti Personali, una metafora intesa come figura del linguaggio.

 

Comprendere la metafora (dell’uomo scienziato, dell’uomo ricercatore, o qualsiasi altra metafora) attraverso la PCP significa, così come nelle definizioni elencate precedentemente, giocare ancora una volta con delle polarità opposte che si donano significato reciprocamente. Le dimensioni che utilizzeremo non saranno in questo caso le antinomie denotativo-connotativo, somiglianza-differenza, familiare-non familiare, ma i costrutti allentamento-restringimento, individualità-comunanza, costrutti sovraordinati-costrutti subordinati. Partiamo da un esempio.

 

Se per descrivere l’esperienza che abbiamo avuto in una seduta di psicoterapia affermiamo che “il paziente è stato un fiume in piena”, stiamo usando una metafora. Lo facciamo utilizzando contemporaneamente un processo di allentamento[3] e di restringimento[4], ossia stiamo abbinando elementi che solitamente non stanno assieme (una persona e un fiume in piena) attraverso una formula sufficientemente stretta da non perdere un significato plausibile (la mole di contenuti portata dal paziente è simile alla quantità d’acqua di un fiume in piena). Allentando permettiamo l’ingresso di elementi nuovi, alternativi e creativi, mentre restringendo non disperdiamo il senso originale dell’esperienza. Grazie a questo rapidissimo ciclo della creatività[5] diamo un senso nuovo all’esperienza.

 

C’è però un altro piano su cui agisce la metafora ed è quello della comunicabilità, della comprensione dell’esperienza fatta da una persona diversa da noi. Il significato veicolato dalla metafora traduce una vicenda strettamente personale (la mia esperienza di essere investito da una grande mole di vissuti portati dal paziente) attraverso un canale comprensibile da molti. Grazie a questo condensato di individualità[6] e comunanza[7], anche chi non si è mai trovato nei panni del terapeuta può comunque capire come ci si può sentire ad essere travolti da un’immensa quantità di contenuti. È come se la metafora amplificasse un sentire personale, un vissuto individuale, attraverso percorsi comuni, propri a tutti gli esseri umani. Declina l’individuale sul comune con sfumature che prendono vita nella storia personale di ognuno.

 

L’ultimo aspetto su cui sembra agire la metafora è la profondità del significato veicolato: più la metafora è efficace, maggiore sarà il suo potere evocativo. Più è sapiente il gioco tra allentamento-restringimento e individualità-comunanza, maggiore sarà la capacità della metafora di toccare gli aspetti più intimi dell’esperienza umana. In questo caso l’aspetto dell’intimità è strettamente personale: non possiamo prevedere a priori se vivere “il paziente come un fiume in piena” abbia creato nel terapeuta un’intensa sensazione di impotenza di fronte a qualcosa di troppo grande, oppure di sorpresa per la ricchezza dei contenuti, o ancora di vulnerabilità rispetto alla minacciosità dei temi emersi. E tanto meno possiamo immaginare come questa metafora influisca sul vissuto del destinatario di questa metafora, ovvero di colui che la ascolta o la legge. Quello che possiamo supporre è che tanto maggiore è la distanza nel campo semantico tra il termine iniziale e quello metaforico, più forte sarà la sua carica suggestiva. In questo caso la metafora agirebbe come un ponte tra costrutti subordinati[8] e costrutti sovraordinati[9]. Grazie a una sapiente combinazione di elementi che solitamente fanno parte della vita di tutti i giorni e che possono essere sostituiti senza grosse ripercussioni nel nostro modo di vivere e descrivere il quotidiano, riesce a raggiungere dimensioni di senso intime, nucleari, che reggono l’intelaiatura della nostra identità. La metafora ci aiuta a ignorare i dettagli di ciò che è accaduto (costrutti subordinati) donandoci una visione ampia, globale e profonda dell’esperienza (costrutti sovraordinati). Non ci richiede di illustrare precisamente ogni singolo particolare della vicenda e ci consegna una prospettiva completa e allo stesso tempo complessa.

 

Dal punto di vista della PCP sembra quindi che la metafora riesca ad assolvere a tre funzioni:

  • risignificare un’esperienza (nel ciclo allentamento-restringimento);
  • rendere l’esperienza comunicabile e comprensibile (nel gioco tra individualità e comunanza);
  • dare profondità e ampiezza all’esperienza (nel ponte tra subordinazione e sovraordinazione).

 

Se volessimo azzardarci nel tentativo di dare una definizione di metafora attraverso la PCP che sappia tenere assieme i tre aspetti appena elencati potremmo dire che la metafora è un artificio creativo che dona un senso nuovo all’esperienza, la rende comprensibile e comunicabile perturbando i significati più profondi dell’individuo.

 

4. La logica metaforica

Fin qui abbiamo considerato la metafora nella sua accezione più comune, ovvero quella di figura retorica che appartiene al discorso. Quasi tre secoli fa Giambattista Vico, cogliendone il potere espressivo e creativo, la elevava invece a processo narrativo che ci aiuta a comprendere e a dare senso all’esperienza umana:

di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. (G. Vico, 1744/1990, pp. 221-222)

Il filosofo partenopeo, definendo la metafora come una fiaba condensata, riesce a esplicitare la logica che la sorregge: permettere di raccontare una storia comprensibile in cui riconoscersi perché verosimile. Avvicinando la metafora alle favole, Vico, inoltre, chiarisce il valore della narrazione nella produzione di significato soprattutto quando ha la capacità di costruire l’identità della società umana attraverso il mito, ovvero personificando concetti astratti rendendoli comprensibili a tutta la comunità. La metafora diventa quindi una narrazione verosimile e comprensibile di significati ed esperienze appartenenti a una comunità in cui un gruppo si riconosce.

 

L’aspetto della verosimiglianza insito nelle fiabe quale strumento narrativo che aiuta la comprensione delle esperienze umane è presente anche nella poetica di Italo Calvino:

io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminìo delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna. (Calvino, 2008, vol. 1, pp. XIV-XV)

La logica metaforica permette quindi di dare senso ad aspetti dell’esperienza umana che sembrano esserne privi, o che fatichiamo a comprendere, avvicinando ciò che non conosciamo a qualcosa di noto attraverso una narrazione simile al vero. A Vico e Calvino non importa che il racconto rispecchi la realtà, la verità. Ciò che importa è che la narrazione sia significativa, comprensibile e comunicabile. La logica metaforica permette di trasporre tutte le caratteristiche che la figura retorica possiede all’interno del discorso, in un campo più dilatato rappresentato dal racconto, dalla narrazione di storie.

 

L’aspetto della verosimiglianza è presente anche nella teoria di Kelly quando, per esempio nella presentazione della Fixed role therapy, invita a usare un pensiero ipotetico che utilizza il “come se” (as if) per esplorare nuovi significati evitando di farsi sopraffare dalla colpa e dalla minaccia (Kelly, 1955). In questo caso la logica metaforica del “come se”[10] diviene un utile strumento di finzione per abbandonare qualcosa di conosciuto e approcciare qualcosa di nuovo senza andare incontro a eventi troppo pericolosi per la propria struttura di significati[11].

 

Uno degli autori costruttivisti contemporanei che più si è interrogato sull’utilità della finzione e sul ruolo che può avere nella psicologia è Miller Mair. In un congresso tenutosi a Memphis nel 1987 affermava che l’elemento centrale della narrazione di storie sta nella finzione quale aspetto creativo che supera la realtà. Rifiutando il tentativo della psicologia sperimentale di ricondurre l’uomo e le sue produzioni a “dati di realtà”, Mair (1987) propone di riconoscere la narrazione quale azione creativa e immaginativa che sgancia il produttore di significati da una realtà apparentemente identica a sé stessa.

 

Una “psicologia che racconta storie” diviene secondo lo psicologo inglese un’opportunità per creare nuovi mondi e per invitare il narratore a percorrere strade mai percorse. Una finzione che è vissuta non come pura invenzione, ma come costruzione verosimile: che trattiene a sé, quindi, parte dell’esperienza del narratore e contemporaneamente rilancia verso scenari immaginari e più euristici. La logica metaforica del “come se” è considerata la sintesi creativa ed essenziale tra realtà e finzione per giungere a cogliere i significati profondi delle persone.

 

In Metaphors for living (1976) afferma che nella metafora parliamo di una cosa come se fosse un’altra, diciamo una bugia per dire la verità, entriamo in un mondo di credulità per arrivare più vicini alla realtà che cerchiamo di conoscere, andiamo in una direzione per arrivare a qualcosa di totalmente differente. Secondo Mair, tutto questo descrive la correlazione essenziale tra realtà e finzione, una correlazione nella quale le modalità irreali di pensiero sono significati essenziali che vanno nella direzione di forme variegate e ancora non scoperte di realtà. Tutto il risalto che dava Kelly all’importanza del “come se”, all’immaginazione, alla costruzione della realtà, si trova a casa propria quando la finzione avviluppa il temporaneo finale di ogni fatto. È convinzione dell’autore che dobbiamo entrare in una nuova relazione con la finzione per il tramite di una psicologia della narrazione che dia valore a ciò che è stato troppo spesso rifiutato come qualcosa di inutile da valutare seriamente: l’argomentazione, la creatività, la plausibilità.

 

In questi termini, sia la metafora come figura retorica, sia la logica metaforica come invito alla narrazione verosimile, diventano creazioni utili per agire esplicitamente il cambiamento di significati. L’invito di Mair sembra quello, coerente con l’idea di un uomo artefice del proprio destino mutuata da Kelly, di scegliere le nostre metafore e le nostre storie per spiegare noi stessi, per comunicare agli altri i nostri vissuti, per direzionare il nostro cambiamento[12]. Questo, però, può essere fatto solamente in uno scambio dialogico, tra sé e sé, o tra sé e gli altri, dove il nostro interlocutore (sia esso una parte di noi o qualcuno al di fuori di noi) diventa un coprotagonista del nostro sentire. Questa conclusione diviene estremamente importante quando viene applicata al campo di pertinenza della psicoterapia, in cui esplicitazione, comprensione e cambiamento dei significati da dare all’esperienza nella relazione con l’altro sono le fondamenta del lavoro clinico. Ecco, quindi, che la metafora diventa uno strumento preziosissimo, comunque sia declinata, se maneggiata con cura nel tentativo di essere utile alla terapia.

 

5. Scenari per nuove finzioni

Oltre alle fiabe ci sono molti modi diversi per raccontare delle storie attraverso la logica metaforica del “come se”: i drammi, le commedie teatrali, i testi sacri, le canzoni, i film, ecc. Tutti strumenti narrativi che non si limitano a tracciare un destino già scritto, ma forniscono un incipit: sta poi al narratore, nel suo incessante dialogo con l’interlocutore, costruire degli sviluppi e degli epiloghi differenti. Quali gli strumenti di cui si può avvalere per fare questo? Tutte le opportunità offerte dal linguaggio e dall’argomentazione.

 

Elenco volontariamente diversi possibili canali metaforici come la letteratura, la musica, il cinema perché, come abbiamo visto, è probabilmente riduttivo considerare la metafora come mera “creatrice di immagini”. Forse questa è una delle sue funzioni più evidenti, ma ritengo sia dovuto al fatto che per noi esseri umani la vista è un senso dominante che con la propria forza diminuisce la soglia di significato che riserviamo agli altri canali sensoriali. Fossimo maggiormente abituati a costruire il mondo attraverso gli altri sensi, probabilmente nascerebbero molte altre metafore: quasi sicuramente le metafore create attraverso l’olfatto (per esempio), sarebbero più pregnanti, arcaiche e viscerali.

 

Se invece, come qui ho cercato di dimostrare, la metafora (e la sua logica) è soprattutto un atto creativo che dona un senso nuovo all’esperienza, la rende comprensibile e comunicabile perturbando i significati più profondi dell’individuo, allora è legittimo pensare che essa non sia prerogativa esclusiva del linguaggio verbale. Se è considerata un modo di avvicinare lo sconosciuto al familiare attraverso la logica del “come se”, allora si possono trarre delle semplici conclusioni sul suo ambito di applicazione riguardanti anche il lavoro psicoterapeutico.

 

Ci sono molti pazienti con i quali il linguaggio verbale non è lo strumento più adatto per cercare di sondare assieme la dicotomia e la gerarchia dei costrutti. Tra questi i bambini, coloro i quali hanno handicap legati all’espressione verbale, o tutte quelle persone che usano pesantemente la costrizione per preservarsi dalla minaccia di toccare alcuni temi nucleari. Ahimè, molti degli strumenti terapeutici di tipo costruttivista utilizzano il linguaggio verbale (autocaratterizzazione, griglie di repertorio, laddering, tecnica piramidale, ecc.), ma se, come abbiamo visto, le dimensioni di significato hanno una grande valenza simbolica che fiorisce attraverso le metafore, dal punto di vista dell’approccio kelliano risulta coerente fare terapia utilizzando il gioco, la musica, il cinema, il teatro, le arti rappresentative, lo sport, i miti e tutti quei linguaggi che riescono, attraverso strade diverse, a raggiungere i significati più profondamente umani di ognuno. E tutto ciò non solo per elicitare e far emergere i costrutti personali.

 

L’abilità del terapeuta in questi casi dovrà andare nella direzione di aiutare il paziente a esplicitare le sue metafore e a costruirne di nuove, che lo accompagnino nel processo di cambiamento, passo dopo passo[13]. Ma non solo: il terapeuta deve essere abile anche nell’abitare le metafore altrui, nell’esplorarle abbandonando temporaneamente le proprie per comprendere e perturbare i significati veicolati dalle narrazioni del paziente. Può usare le canzoni, i film, i drammi preferiti del paziente o gli sport e le fiabe che più sono evocativi di un’esperienza, ma deve “starci dentro”, giocare alle loro regole, relazionarvisi con gli strumenti che appartengono al campo di pertinenza di quella metafora o di quel linguaggio metaforico. Deve evitare il più possibile di andar “fuor di metafora”[14] o di tradurre le altrui metafore con le proprie, superando l’iniziale sensazione di smarrimento che si ha quando si percorre un ambiente che non si conosce a fondo. Questo errore può essere aggirato grazie a una visione sovraordinata di ciò che sta accadendo nella relazione dialogica e avendo ben chiari quali sono gli obiettivi della terapia. Se il terapeuta non dovesse riuscire in questo intento si verificherà un’incomprensione o quanto meno un impoverimento dei significati giocati nella relazione e avremo perso un’occasione per promuovere il cambiamento.

 

La logica metaforica e il veicolo narrativo del “come se” possono facilitare e suggerire la creazione di nuovi significati. Possono diventare alleati preziosi per la relazione terapeuta-paziente quando è necessario spingersi al di là della consueta realtà per creare degli scenari più euristici. Divengono degli inneschi di nuovi cicli della creatività per perturbatori strategicamente orientati che vogliono produrre conversazioni nuove, più ricche e feconde. Nell’ambito di pertinenza della PCP la metafora ci aiuta a comprendere e a promuovere il cambiamento, assolvendo ancora una volta alla sua vocazione di terra di frontiera, questa volta però tra teoria e prassi clinica.

 

Bibliografia

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Note sull’autore

 

Carlo Guerra

Institute of Constructivist Psychology

guerra.carlo@gmail.com

Laureato in Psicologia clinica e di comunità presso l’Università di Padova nel 2003, ha proseguito gli studi nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Costruttivista dell’Institute of Constructivist Psychology dove dal 2018 ricopre il ruolo di didatta. L’esperienza maturata in 13 anni di cooperazione sociale attraverso la realizzazione di progetti educativi rivolti ai minori e lo studio di alcune tematiche relative alla Psicologia dei Costrutti Personali, lo hanno portato ad approfondire l’interesse nei confronti della terapia con gli adolescenti, delle tecniche costruttiviste di assessment e del linguaggio metaforico in contesto clinico.

 

 

  1. Con “denotazione si intende ciò che è significato da un termine o la cosa nominata da quel termine”. La “connotazione indica invece l’effetto per cui al significato den0tativo si aggiunge un secondo significato spesso di carattere emotivo che costituisce un alone semantico” (Bianchera e Vezzani, 2000).
  2. Il primo spiega la metafora come “intersezione” di somiglianze tra i domini semantici del termine bersaglio e della base, il secondo come relazione “tassonomica” tra due termini in cui il bersaglio è assegnato alla categoria cui appartiene il termine base.
  3. Kelly definisce l’allentamento come un tipo di pensiero elastico che conduce a previsioni variabili. Nella costruzione allentata le previsioni si basano su costrutti che conducono a varie idee invece che a precise anticipazioni.
  4. Il restringimento, processo antitetico e complementare all’allentamento, utilizza costrutti stretti per arrivare a previsioni precise e definite.
  5. Il ciclo della creatività, che ha a che fare con il modo in cui una persona dà vita a nuove idee, è un processo che inizia con costruzioni lasse e termina con costruzioni strette e validate.
  6. Secondo il corollario dell’individualità le persone differiscono le une dalle altre nella loro costruzione degli eventi.
  7. Secondo il corollario della comunanza quando due persone costruiscono l’esperienza allo stesso modo si può affermare che i loro processi psicologici sono simili.
  8. Un costrutto subordinato è un costrutto che è compreso come elemento nel contesto di un altro. Hinkle (1965) propone che i costrutti subordinati siano maggiormente legati ad aspetti concreti. Le domande tipiche, infatti, che veicolano il processo di laddering up e laddering down, tendono, nel primo caso, a un livello maggiore di astrazione, nel secondo caso a esplicitare comportamenti e atteggiamenti percepiti nella vita di tutti i giorni. Se una persona ritiene centrale per la propria vita il costrutto “intelligente-stupido”, sappiamo che per procedere nel laddering up si fanno domande del tipo: “quali sono i vantaggi di essere intelligente?”; “per quale motivo preferisce essere intelligente?”. Per il laddering down invece si chiederà: “come sa che una persona è intelligente?”; “da che cosa se ne accorge?”. Maggiore è il livello in cui si sale nel processo di sovraordinazione, più nucleari saranno le dimensioni di significato. Più si scende “dal soffitto alla cantina” del sistema di costrutti verso la subordinazione, maggiori saranno le probabilità di incontrare le declinazioni dei costrutti sovraordinati nel comportamento quotidiano.
  9. Un costrutto sovraordinato è un costrutto che ne comprende un altro come uno degli elementi del suo contesto.
  10. D’altronde anche sul piano delle figure retoriche la metafora, come ricordato precedentemente, è una similitudine senza la locuzione avverbiale “come”.
  11. La logica del “come se” invita all’esplorazione, ma a ben vedere è ancora un’ipotesi, un’anticipazione di cosa potrà accadere. Nel momento in cui si agisce la metafora, in cui per esempio si vestono i panni di qualcun altro durante una Fixed role therapy, ecco allora che si è qualcuno di diverso da sé, passando dall’anticipazione all’azione, dalla previsione all’esperienza in prima persona.
  12. Parafrasando Mair potremmo dire: a ognuno la propria narrazione, a ognuno le proprie metafore.
  13. Un buon strumento per monitorare l’andamento della terapia è quello di confrontare come cambino le metafore del paziente durante la psicoterapia. Il terapeuta, per fare questo, può chiedersi: qual è la migliore metafora che rappresenta il paziente a inizio terapia? E che differenza c’è tra questa metafora e quella, sempre del paziente, a fine terapia? E quali altre metafore ha attraversato per arrivare fino alla conclusione?
  14. “Andare fuor di metafora”, in termini PCP, può essere letto come il tentativo di restringere di fronte a significati non anticipabili che creano ansia nel terapeuta.