In questi giorni di personale lutto e risignificazione della presenza di una scrittrice scomparsa di recente mi sono imbattuto in un suo articolo[1] che mi ha aiutato a mettere a fuoco in modo essenziale un aspetto centrale e complesso del modo di intendere l’essere umano. La scrittrice in questione è Michela Murgia. La domanda che esplicita è la seguente:
“Cosa accade nella mente di chi deve abitare il disastro finché dura, senza la possibilità di uscirne?”
Qualche riga più avanti prova a dare una sua risposta:
“…a volte, nel bel mezzo di un problema gigantesco che non controlli, il solo modo per non perdere la testa è creare un problema ulteriore, che però controlli.”
Questi elementi mi hanno portato a dare forma piena alla considerazione per cui, come esseri umani, siamo impegnati costantemente a dare un senso alle cose, a far sì che queste siano anticipabili e pertanto ad anticiparle, atto dal quale non possiamo prescindere. Da qui la sensazione di profonda sofferenza e smarrimento che proviamo in quei tratti di esperienza in cui gli eventi a cui andiamo incontro perdono i contorni, non sono più definibili e ci ritroviamo catapultati in qualcosa che non avevamo anticipato. Questa sensazione perdura almeno fino a che non riusciamo, ciascuno con i propri mezzi e modi, a ridare una grammatica e una sintassi a quegli accadimenti o ad altri più circoscritti, in modo da riprendere quella posizione di ordinatori del proprio mondo che esistenzialmente incarniamo.
Tenere il focus su questo aspetto che la Psicologia dei Costrutti Personali postula essere caratterizzante per l’essere umano mi pare utile come faro nella lettura di questo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo, a cui ho scelto di guardare a partire dalla parola “emergenza”, parola che porta con sé il richiamo all’idea di “imprevedibilità/prevedibilità” degli eventi.
Se è vero che l’imprevedibilità fa crollare la terra sotto i piedi delle persone, è altrettanto vero che ogni situazione di emergenza scombina le carte in modo che l’atto stesso di riordinarle diventi foriero di un nuovo ordine e quindi di un nuovo senso.
In quest’ottica, ogni emergenza porta con sé anche un’opportunità a seconda del tipo di narrazione che vi si costruisce intorno e quindi anche a seconda del tipo di metafora a cui si ricorre come strumento per poter dare una forma comprensibile a qualcosa per cui, fino a quel momento, non avevamo parole e immagini per descrivere e raccontare[2].
Inoltre, penso che il discorso sull’emergenza possa essere un discorso sia contingente che lungimirante. Nel primo caso, il nostro compito come professionisti che lavorano fianco a fianco con chi sta facendo esperienza di emergenza è quello di favorire il recupero di un senso di anticipabilità sulla propria quotidianità. Non tutto in una situazione di emergenza resta ugualmente inanticipabile.
Nel secondo caso invece, il discorso lungimirante sull’emergenza necessiterebbe un lavoro di costruzione di responsabilità etica.
Perché l’emergenza esplichi la sua portata generativa, la persona deve potersi sentire autrice, seppure talvolta inconsapevole, di un dato evento da cui quell’emergenza è scaturita. Questo approccio, in quanto post-hoc, se nulla può relativamente all’occorrenza dell’evento, assume forza per la possibilità di riflettere sugli sguardi che ci si è permessi e su quelli evitati.
Le emergenze hanno spesso a che fare con le nostre scelte di tenere in considerazione le implicazioni delle nostre azioni (e di quelle della specie umana di cui siamo parte) solo fino a un certo punto. Restando nei presupposti di partenza, tutti, come possiamo, tentiamo di dare un ordine alle cose e per farlo inevitabilmente abbiamo un numero finito di anticipazioni. Probabilmente se quel numero fosse infinito l’ordine stesso non sarebbe possibile. Inoltre, talvolta, per garantirci un certo ordine delle cose scegliamo di restringere o accorciare il nostro campo di osservazione.
In quell’atto optometrico sempre naturale, a volte intenzionale e consapevole e a volte no, si annidano i presupposti della nostra esperienza di emergenza: se per dare ordine necessitiamo di dover chiudere gli occhi rispetto a qualcosa, o scegliamo di non averne proprio rispetto a qualcos’altro, allora sarebbe utile considerare a priori che una fetta di eventi la stiamo relegando a un’area di imprevedibilità. Considerare questo e potersene fare carico può cambiare il modo di abitare l’emergenza quando essa si palesa, per sua natura, inaspettata.
In conclusione, mi chiedo: se avessimo più contezza del nostro limite, se il nostro qualcosa conservasse in sé il dubbio di non essere il tutto, se il nostro esistere lo pensassimo contestualizzato in un sistema di esistenze più ampio e complesso, come cambierebbe il nostro vissuto di emergenza? Ci sentiremmo ancora così profondamente minati nelle nostre fondamenta di fronte a eventi inaspettati?
Di tempo e prospettive diacroniche, di vincoli e opportunità delle emergenze, di metafore e narrazioni alternative per anticipare, di strumenti e di approcci alla crisi, di questo e di molto altro mi sembra che si possa prendere spunto dai contributi di questo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.
Buona lettura!
- Michela Murgia, “Michela Murgia: la malattia si mangia il mio tempo ma non permetto che eroda anche me”, La Stampa, 15 maggio 2023. Disponibile inhttps://www.lastampa.it/cultura/2023/05/15/news/michela_murgia_la_malattia_si_mangia_il_mio_tempo_ma_non_permetto_che_eroda_anche_me-12805795/ [Data di accesso 02 settembre 2023] ↑
- Per restare ancorati all’esperienza recente della scrittrice succitata, approcciarsi al proprio cancro come guerra verso un corpo estraneo vs accogliere il proprio cancro come possibilità facente parte del proprio essere un sistema complesso, genera un sistema di anticipazioni differenti sul proprio tempo da vivere e su come viverlo. ↑
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