Sono in chat con l’imperiosa caporedattrice della Rivista Italiana di Costruttivismo. La chiamerò Crudelia, per amore di anonimato.
“Vergogna!”, mi riprende con il suo tipico tono implacabile. “Stiamo per uscire con il nuovo numero della Rivista, e manca solo il tuo Editoriale… questo blocca tutta la RIC! Non pensi ai poveri redattori, che avranno pochissimo tempo per l’impaginazione a causa della tua indomita pigrizia?”.
Balbetto parole epistemologiche a caso, cercando disperatamente di guadagnare tempo, e le invio il seguente link video per giustificarle il mio ritardo: https://www.youtube.com/watch?v=EX_tnZWug_Y.
Lei ribatte con questo: https://www.youtube.com/watch?v=wCK3RQyBUxs (è quello che usa per spiegare come funziona la redazione della RIC ai nuovi redattori).
Annaspo in piena transizione di colpa, le faccio fintissime promesse di mettermi subito al lavoro… ma in realtà mi vado subito a sfogare con un’amica e collega su Facebook: “Ma ci pensi? Mi stanno rimproverando per un ritardo di appena un mese! Adesso devo scrivere in pochi giorni l’Editoriale! È un’ingiustizia, però!”.
L’amica, purtroppo, invalida totalmente la mia anticipazione di solidarietà in stile Calimero, ed empatizza invece con la caporedattrice; mi trovo quindi – dopo aver utilizzato ogni forma possibile di costrizione per posporre l’impatto con la transizione d’ansia del foglio bianco – davanti a Word.
L’amica, salutandomi, mi suggerisce di impostare su un colore diverso lo sfondo, garantendomi che è una tecnica segretissima della sua scuola di psicoterapia per sbloccare il flusso creativo. Poi mi dice che “ha fiducia e speranza che io ce la possa fare” (giochino: indovinate di che orientamento teorico è).
Mi arrendo, davanti a tutta questa “fiducia e speranza” devo proprio editorializzare; ed ecco che mi metto quindi a cercare di dare forma organizzata ai miei pensieri. Pensieri che in realtà mi accompagnano in maniera frammentaria da giorni, ma a cui non riesco a dare “canalizzazione coerente”.
“Accidenti”, penso. “Non mi poteva toccare l’Editoriale del prossimo bellissimo numero, che sarà monotematico (sull’età evolutiva)? Così basta che parlo di mio figlio, faccio qualche battuta intelligente, e mi salvo con eleganza…”
No, purtroppo questo numero della RIC ha articoli totalmente diversi l’uno dall’altro; articoli belli, che mi sono piaciuti molto quando li ho letti uno per uno nelle scorse settimane, ma… che sono proprio molto differenti tra loro, per taglio ed ambito applicativo.
Si passa dalla densa e ricca riflessione di una grande costruttivista come Vivien Burr sui rapporti di “cuginato complicato” tra Costruttivismo PCP e Costruzionismo Sociale (lettura che vi darà da pensare!), ad una originale lettura di Annalisa Anni dei processi di Start-Up Imprenditoriale dal punto di vista della PCP (e che, da grande consumatore di letteratura di settore, trovo davvero “potente”); ci si sposta ad ambiti di psicologia clinica, con il bell’articolo di Phillida Salmon sulle opportunità costruttiviste di definizione di una prospettiva interpersonale sui disturbi schizofrenici (che riprende la storica, classica, trattazione di Bannister: non ditemi che non vi ricordate del mitico “schizococco”…?), per passare ad una ricerca italiana di Cristina Paoloni sui contesti e le significazioni della riabilitazione psichiatrica (tema su cui il costruttivismo sembra qui avere molte cose interessanti da dire).
Seguono due voci fondamentali del Glossario PCP di Scheer, la recensione di GEKA, e la bella intervista a Beverly Walker.
Menù ricco di autori italiani e internazionali, ma temi davvero eterogenei, eterogeneissimi.
E scorrendo gli articoli la mia riflessione, ad un certo punto, ha proprio cominciato a focalizzarsi sull’apparente paradosso: davanti a questa gran diversità dei temi, la “lente costruttivista” si muoveva però con estrema facilità tra un argomento e l’altro, permettendo di cogliere bene aspetti essenziali di temi diversissimi, seppur a partire dall’identico set di pochi “principi di base”… senza particolari forzature, o necessità di adattamenti per temi così radicalmente diversi.
Proprio come avviene in matematica, in cui a partire da un ristrettissimo numero di postulati e da poche regole si possono costruire teoremi molto complessi in ambiti matematici estremamente diversi l’uno dall’altro; ma che mantengono sempre una chiarissima unitarietà concettuale di fondo, caratterizzata da questi principi fortemente sovraordinati e comuni.
E la RIC all’improvviso, soprattutto in un numero “non monografico” come questo, fa emergere nettamente proprio questo vertice osservativo PCP “euristicamente semplice”, ma per questo assai potente.
Semplice, sia chiaro, non significa qui “semplicistico”; significa che riduce la “complicazione apparente” di un fenomeno, senza ridurne la “complessità intrinseca”. È il contrario del “semplicistico”, che invece sacrifica proprio la complessità semantica dei fenomeni stessi.
Dalla psicologia come arcipelago, alla psicologia come federazione
E qui avviene il fatto curioso.
Armati di una buona conoscenza della teoria PCP, si scopre che diventa veramente molto facile e intuitivo usarla per passare facilmente dalla comprensione della letteratura relativa alla psicologia aziendale a quella relativa alla riabilitazione psichiatrica, da quella sull’epistemologia a quella sulla psicopatologia generale…
La sensazione è che la chiave euristica PCP vada dritta ad alcuni “processi comuni e sovraordinati” ai diversi campi di esperienza umana e fenomenologia psicologica, permettendo di navigarli trasversalmente con facilità proprio perché si occupa delle “forme dei processi”, prima ancora che dei loro “contenuti”.
È un contrasto forte rispetto a molta letteratura psicologica classica “endodisciplinare”, in cui la sensazione di frantumazione tra una miriade di “modelli specifici”, ultralocali e non generalizzabili tra le varie discipline (a volte nemmeno all’interno della stessa disciplina, tra un argomento e l’altro), di cui è quindi ogni volta necessario comprendere la logica “esoterica”, è molto frequente.
Ed ecco perché, forse, il vertice costruttivista può porsi non solo “epistemologicamente”, ma anche proprio meta-teoricamente come rilettura non tanto della “psicologia generale”, quando di una psicologia “in generale”: come prospettiva di integrazione di processi, temi, dinamiche psicologiche spesso studiate in maniera troppo frammentata ed eterogenea, e sempre segregati in piccoli feudi tematici separati ed “incommensurabili” l’uno con l’altro dalle tradizionali discipline psicologiche (la psicologia sociale, la generale, la clinica…).
Della psicologia studiata all’università spesso si deriva infatti una sensazione da “arcipelago” di isole epistemiche, teoriche e metodologiche “scisse” e diversissime tra loro.
Una psicologia sociale che parla un suo linguaggio, con i suoi modelli ed i suoi costrutti teorici; una psicologia dello sviluppo ad essa eterogenea, che usa linguaggi, modelli e costrutti differenti; una psicologia del lavoro ancora più diversa, i cui modelli usano linguaggi e riferimenti ulteriormente differenti, che appaiono inapplicabili o non “commensurabili” ai contesti delle “altre psicologie”… un quadro a volte sconfortante di “dialetti bergamaschi e sardi” curiosamente giustapposti l’uno all’altro: teoricamente afferenti allo stesso macrocontenitore, ma nella pratica divisi da linee “linguistiche” a volte insuperabili.
Nemmeno i paradigmi cognitivisti degli ultimi 40 anni, che pure si erano proposti come “lingua franca” tra le Isole dell’arcipelago sono riusciti in questo compito unificatore, frammentandosi a loro volta in “sottodialetti” isomorfi all’autonomismo concettuale delle relative Isole tematiche.
Un arcipelago che lo studente di psicologia fatica a navigare o integrare unitariamente, giustapponendole l’una all’altra senza capire come si “incastrano” tra loro i concetti delle diverse materie, o anche solo cosa c’entrano l’uno con l’altro; e davanti alla cui frammentazione spesso deve “costringere”, e finisce presto con l’andare ad abitare solo in un’Isoletta, che diventerà quindi per lui l’Isola “vera e migliore delle altre”.
La produzione teorica di piccoli “modelli locali” su un tema di ricerca (sulla memoria, o l’intelligenza, o le relazioni intergruppo, o lo sviluppo linguistico, etc.) difficilmente si basa su concetti sovraordinati e comuni a tutta la psicologia, che possano organizzare – a partire da principi semplici – la complessa diversità sottostante; e pertanto diventano modelli “costretti”, ultralocali rispetto al tema esplorato, incommensurabili e non adattabili a contesti diversi.
Ecco, facendo questo viaggio in poche pagine dal mondo della psicologia del lavoro a quello della psicologia clinica, dalla psicologia sociale alla psicopatologia… la sensazione di avere un “protolinguaggio” sui processi psicologici comuni tramite il set assiomatico della PCP emerge con forza.
La PCP può rappresentare in questo senso una “meta-sfida” per la psicologia?
Ovvero, evidenziare bene come la psicologia – se vuole essere una disciplina unitaria, come sono molte altre discipline scientifiche – deve iniziare a porsi più come scienza della “forma dei processi psicologici”, e non solo dei “contenuti”? Certo, questa è una vecchia sfida della psicologia, dai tempi del funzionalismo di William James ad oggi, ma che troppo spesso si è persa nella frammentazione esasperata ed esasperante dei millemila “modellini” disciplinari. La prospettiva Kellyana, nella sua grande flessibilità e attenzione ai processi, sembra stimolarci molto in questa direzione, e può diventare un lievito epistemologico importante per molta prassi psicologica.
Un taglio epistemologico e didattico del genere aiuterebbe il professionista a ripensare processi, a connettere più facilmente (ma non superficialmente) campi disciplinari e fenomeni psichici molto diversi, a semplificare il lavoro di “costruzione di una prospettiva integrata” dei diversi ambiti psicologici per lo studente che naviga con fatica nell’arcipelago dell’eterogeneità.
Questo numero della RIC lo dimostra… nella sua forma, prima ancora che nei suoi contenuti ☺
Un rischio certo c’è: quello di voler arrivare a credere che la PCP sia “il migliore dei mondi possibili”, o illudersi di poter “rifondare” l’universo psicologico a integrale immagine e somiglianza PCPina.
Ma questo sarebbe scivolare sul “semplicismo”, che uccide la complessità e non la rispetta.
Avere strumenti utili non significa essere onnipotenti, e compiacersi troppo della “Omniutilità esaustiva” di un “set di concetti” è epistemologicamente pericoloso.
In questo, l’attenzione a non scivolare verso un paradossale “dogmatismo” o “assolutismo costruttivista” deve essere costante.
Ma la sfida di rifocalizzazione dei processi rispetto ai soli contenuti è lì, davanti a noi, in ogni numero della RIC.
P.S.: Nessun redattore dovrebbe aver subito conseguenze dal ritardo di questo editoriale.
P.S.: Ammetto che ho seguito il suggerimento dell’amica: questo testo è stato scritto su una videata a sfondo verde-acqua, che mi ha effettivamente aiutato. Insomma, è vero: anche i non costruttivisti, ogni tanto, hanno da insegnarci qualcosa di utile (basta che non diventi un’abitudine, eh! ☺ )