“Utopia non è il nome dell’assurdo, ma una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.
È il nome di desideri, idee, progetti che possono diventare realtà”.
Gino Strada
Spesso quando mi trovo a disquisire circa la mia professione di Psicoterapeuta con chi nella vita si occupa di altro, mi sento rimandare, quasi con un velo di pena, che è sicuramente un lavoro faticoso e difficile.
Similmente mi capita di confrontarmi con dei colleghi rispetto, per esempio, a questioni critiche di questo lavoro ed emergono nuovamente parole come “complesso, stancante”. Dando per scontato che chi continua ad esercitare la professione, io in primis, un qualche tornaconto personale positivo lo abbia, vorrei concentrarmi su questo aspetto di complessità, in quanto lo trovo un tema attuale e ricco di spunti di riflessione. Leggendo la definizione di questa parola nel dizionario Treccani[1], mi saltano all’occhio due aspetti: “caratteristica qualitativa di un sistema, cioè di un aggregato organico e strutturato di parti tra loro interagenti, che gli fa assumere proprietà che non derivano dalla semplice giustapposizione delle parti” e “una nuova metodica di indagine che si contrappone alla tradizionale tendenza a ridurre il complesso al semplice”. Direi in questo senso che la complessità si costruisce a partire dalla relazione tra le diverse parti e che quindi il riduzionismo rischia di non essere una lente utile a conoscerne il processo generativo, tantomeno le interazioni che la mantengono e quindi neppure le problematiche che la riguardano. Tuttavia, a livello di senso comune credo si sia imposta l’idea più comoda e semplice, che complesso implichi “difficilmente comprensibile”, forse anche in relazione ad uno stile educativo che sempre più raramente stimola al senso critico e all’abuso dei social media che veicolano una forma di cultura di massa che ci vuole passivi contenitori di informazioni e di bisogni ammaestrabili. Continuando con questa riflessione, nel sapere scientifico che oggi troppo spesso si mischia con quello comune, immaginare realtà difficilmente comprensibili implica forse anticipare la necessità di esperti ad hoc, ed essendo l’essere umano per definizione un essere complesso, lo Psicoterapeuta potrebbe dunque essere costruito anche come l’esperto della complessità umana. Mi pare che questa riflessione possa trovare sostegno ogni qual volta di fronte all’ennesimo femminicidio, le persone si chiedono, e mi chiedono, quali possano essere le ragioni che spingono gli uomini a compiere questi omicidi. La questione non credo cambi di molto se ci si rivolge ai sociologi e si inizi a parlare di patriarcato, violenza di genere e discriminazione delle donne. Si tenta dunque in questi casi, di fronte a un atto inspiegabile e dunque complesso, di comprenderlo fornendo teorie apparentemente più elaborate, ma che in realtà rischiano di essere causalistiche, e pertanto tentare di ridurre ciò che oggi ci appare come estremo, ad un più semplice già conosciuto, come appunto sono le teorie femministe degli anni’60. In relazione a ciò, anticipo che nel futuro potrebbero nascere teorie psicologiche e categorie diagnostiche ad hoc per spiegare tali omicidi, e mi allarma, poiché può diventare un processo potenzialmente infinito quello di dare nuovi nomi a fatti scioccanti e costruire teorie sofisticate per capirne le ragioni, che in realtà non aggiungono nulla alla comprensione del fenomeno in sé. Sembrerebbe dunque che le tendenze quasi opposte di fronte alla complessità siano o di ridurla, semplificandola o appunto renderla ancora più complessa attraverso teorie elaborate disancorate dal fenomeno che vorrebbero spiegare. Il punto è che, fatti di cronaca alla mano, qualche cosa non sta funzionando e anzi parrebbe che la realtà sia in netto peggioramento. Ho tentato allora di allargare lo sguardo oltre queste premesse e di immaginare quali altre strade si possano percorrere. A tal proposito mi sono imbattuta nella presentazione di un seminario organizzato dai colleghi sistemici, dal titolo “Semplessità e Complessità degli strumenti terapeutici”[2]. Il termine semplessità è un neologismo coniato dal Professore Alain Berthoz[3], e si riferisce alla caratteristica che hanno messo a punto gli esseri viventi, e l’uomo in particolare, per gestire la complessità[4].
Nel tempo, infatti, abbiamo imparato a sviluppare soluzioni sempre più raffinate per elaborare un numero crescente di informazioni. Tale adeguamento, tuttavia, ha un prezzo da pagare. L’apparente semplicità nasconde, infatti, una maggiore complessità. Si pensi ai software di nuova generazione che si definiscono user friendly, cioè di facile utilizzo, ma che richiedono competenze esperte e hardware sempre più potenti, veloci e complessi. Il concetto che propone Berhoz non è quello di rendere semplici scenari complessi, bensì quello di rendere decifrabile la complessità. La chiave di lettura è una sorta di semplicità complicata. Tutte attività complesse per affrontare le quali il cervello non può adottare né soluzioni troppo semplici, perché non risolverebbero i problemi, né troppo sofisticate, perché rallenterebbero e renderebbero troppo costosi i processi neuronali. La soluzione passa piuttosto attraverso delle deviazioni alla strada maestra della logica, per organizzare con originalità e creatività la complessità del mondo e dei processi che la regolano. In altri termini e tornando alla questione che sto affrontando, forse una via alternativa per rispondere alla complessità passa attraverso la creatività. Il Costruttivismo, e in particolare la Teoria dei Costrutti Personali, affondano le proprie radici in una definizione di creatività come processo fondante la nostra visione della realtà. In altri termini senza un atto creativo di conoscenza non vi è realtà e quindi neppure vita. Riprendendo in mano la questione dei “complessi” temi di attualità, cosa significa affrontarli con creatività mantenendo il rigore dettato dalla necessità di essere utili nel relazionarci con realtà di questo tipo? La creatività in questo senso non ha a che fare con la novità, anzi spesso si tratta di dare nuova forma a contenuti vecchi. Einstein a tal proposito diceva che “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”. Mi domando se ciò che stiamo facendo oggi per esempio nel caso del femminicidio non sia proprio questo, ovvero tentare di risolvere il problema avvalendoci del medesimo pensiero che l’ha creato, e che quindi parlare di patriarcato, disparità di genere, non faccia che rafforzare il fenomeno anziché inibirlo. Proseguendo con questo pensiero, forse essere creativi, usare nuovi pensieri per rispondere a vecchie questioni, potrebbe passare attraverso la cura di ciò che c’è già e non attraverso la creazione di qualche cosa di nuovo. Auspicherei in questo senso che degli uomini autori di violenza non si parli solo nei termini giuridici e psichiatrici, ma in primis come esseri umani che agiscono nel caos della vita emotiva e relazionale, e che trovano nell’omicidio della propria compagna un sollievo ad una realtà inaccettabile. Abbiamo in altre parole l’opportunità di non voltare la faccia da un’altra parte se scegliamo, mettendo da parte giudizi morali e posizioni personali, di prenderci nuova cura anche di “questi” uomini. Del resto, ciò sarebbe in linea con la necessità di occuparci delle risorse presenti sul nostro pianeta prima di trovarci senza, piuttosto che distruggere per costruire presunto nuovo benessere; in una logica contraria al consumismo che vorrebbe che acquistassimo sempre nuove cose a discapito di quelle vecchie difettose.
Ecco che dunque diventa possibile stare in una relazione di cura, attraverso un atto creativo di comprensione, anche con chi commette omicidi e violenza, non facendosi bastare semplici spiegazioni di malattia mentale e tendenze sociali bensì tornando alle radici, a ciò che ci rende prima di tutto umani tra gli umani. L’uomo ha sempre ucciso, prima per fame, poi per conquistare, oggi per amore. Forse questo implica una riflessione più ampia sulla natura dei legami “amorosi” che tenga conto sì della complessità degli strumenti che oggi possediamo, ma che non si dimentichi dei bisogni e della natura degli esseri umani. Come se nell’epoca moderna fatta di progresso tecnologico alcuni abbiano perso la capacità di gestire le relazioni umane e la sofferenza. È come se al progredire delle scoperte scientifiche non sia seguito un progredire di competenze relazionali ed emotive. E allora diventa fondamentale con i mezzi che abbiamo oggi, tornare a ciò che appare semplice, tornare alle basi delle relazioni umane e accettare che i dilemmi dell’uomo sono quelli da secoli, anche gli amori non corrisposti. La differenza sta forse nell’incapacità di accettare di non poter avere ciò che si desidera, come lo si vuole in una realtà condivisa che ci illude di poter controllare ed avere tutto. In questo numero tra i vari contributi ospiteremo la recensione dell’ultimo libro postumo di Michela Murgia “Dare la vita”, e a tal proposito una delle autrici Laura Cecchetto, ha condiviso questa riflessione “Il modo sovversivo di Murgia di toccare temi quali le queerness, le maternità, le scelte ecc. parlando alle persone delle persone, mi ha chiesto di «trascendere l’ovvio» per entrare in una dimensione di responsabilità etica che non mi permette, né umanamente né professionalmente, di tirarmi fuori da una più complessa riflessione. Murgia, infatti, sceglie le complessità anziché la semplificazione e la strutturazione di un altrə da noi che riacquisisce umanità. Riporta in ogni capitolo, in ogni pagina, in ogni paragrafo ed in ogni termine la persona al centro, mettendo l’accento sulla natura processuale della vita psicologica di ognunə, chiedendoci di riconoscere all’altrə quello che riconosciamo a noi stessə, rinunciando al tentativo di assicurarci un mondo sicuro, anticipabile, statico”. In tal senso, ciascuno di noi ha una responsabilità come attore partecipe in questa cultura, come soggetto che può scegliere in base a una propria etica di dare senso alle cose che accadono. Noi come Rivista Italiana di Costruttivismo tentiamo da anni di far fronte a questa responsabilità dando voce a professionisti che attraverso i loro contributi cercano di comprendere e conoscere, senza giudizio, l’essere umano nelle sue varie sfaccettature e azioni. Portando avanti una riflessione costante sul nostro pensare e sul nostro agire, domandandoci chi sia al centro delle nostre riflessioni e che tipo di cultura contribuiamo a costruire. Diventa apparentemente paradossale dire che rivoluzionario oggi è tornare all’umano, prendersi cura delle persone per come pensano e agiscono, non insegnando loro teorie sofisticate che spieghino il loro comportamento, ma sedersi di fronte a loro con la consapevolezza di essere simili e diversi, ma riconoscendosi pari dignità di esistere.
Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.
Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.
Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.
Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca, urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicarne la vita.
Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.
Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.
Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Puoi dormire tranquillo
E soprattutto sicuro.
Non è tuo figlio.
È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.
Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo.
Sergio Guttilla
Note
- 1. https://www.treccani.it/vocabolario/complessita/# ↑
- 2. https://eventiserendipity.it/prodotto/sistemica-semplessita-e-complessita-degli-strumenti-terapeutici-partecipazione-blended/↑
- 3. Docente di fisiologia della percezione e dell’azione al Collège de France.↑
- 4. Per un approfondimento si rimanda a A. Berthoz, (2019). La semplessità. Torino: Codice Edizioni.↑
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