1. Introduzione
Come mai due donne non madri parlano di istinto materno?
Abbiamo trent’anni, l’età in cui, in questo periodo storico, la maternità inizia ad essere un discorso “da affrontare”. Ma da chi? Perché? Cosa interviene nello svolgimento della vita di una donna che contribuisce a far ticchettare il tempo diversamente da prima?[1]
Il dato biologico è chiaro: il periodo di fertilità dura circa 35 anni e gravidanze avviate negli ultimi anni possono essere più rischiose per la madre e per il bambino. Il dato sociale è meno deterministico ma ugualmente normativo: una donna bianca, occidentale, eterosessuale e cisgender oggi può studiare e impegnarsi in una carriera competitiva, fino a quando? Tra i trenta e i quarant’anni si trova spesso a decidere come e se conciliare i vari ambiti della sua vita, in vista di una o più gravidanze e della conseguente cura dei figli. Ma tutta questa elaborazione della propria posizione esistenziale tende a non essere considerata come il frutto di scelte, anche sofferte, “adattive” rispetto al proprio contesto… la scelta è una ed è guidata dal sacro fuoco dell’istinto materno.
Inoltre, possiamo sostenere che queste scelte siano frutto della personale costruzione di ciascuna? Nella misura in cui la maggior parte del target sopra citato si trova a farsi queste domande, esse non possono che avere a che fare con la cultura di riferimento. Cercare un partner stabile per avere un figlio non è necessario di per sé, bensì è adattivo rispetto al contesto sociale, a come viene definita la norma della famiglia, a come vengono pensati i servizi alla persona, a come si organizza la struttura del lavoro.
La scelta di intraprendere questa ricerca è stata difficile, inizialmente respingente. Abbiamo sentito la fatica di focalizzare l’attenzione e condividere le reciproche posizioni sulla maternità, data anche la disparità dei punti di vista e delle ragioni personali che ci stavano conducendo ad approfondire l’argomento al di là del comune interesse teorico.
L’una partiva da anticipazioni allentate ma coerenti con la costruzione di istinto materno. “Quando arriverà il momento, saprò cosa fare, sarò pronta”. Crescendo aveva visto sorgere delle domande più strette: “Ma quando arriva il momento? Quali sono le condizioni che mi permettono di sentirmi pronta?”. L’approssimarsi a questa ricerca aveva suscitato minaccia (il rischio di scoprire di non essere provvista dell’istinto che hanno tutte o che questa aprioristica certezza dovesse essere messa in crisi) e l’ansia di non avere un’alternativa interpretativa.
Per l’altra, le anticipazioni precedenti alla collaborazione erano differenti. L’avere sempre pensato di non voler diventare madre l’aveva portata a provare precocemente un certo senso di isolamento, accresciuto dall’incredulità delle interlocutrici che controbattevano: “Lo dici ora, poi cambierai idea”, come se un giorno qualcosa o qualcuno avrebbero potuto avere una spinta trasformativa, quasi magica, che l’avrebbe portata fuori da sé. Sembrava che le scelte fossero due: andare contro se stessa o andare contro le aspettative delle/gli altre/i; ciò metteva a rischio il senso di libertà e di autodeterminazione. Per questa autrice, prima della ricerca condivisa, c’era già stato il tentativo aggressivo di cercare in letteratura delle posizioni compatibili con la propria, per dare un senso al proprio sentire e per immaginare un futuro meno minaccioso, in cui non sentirsi implausibile. Nell’intraprendere la ricerca si trattava dunque di tornare a fare i conti con un tema caldo, ma anche di mettere alla prova la consistenza delle proprie acquisizioni di fronte ad un’altra persona, una collega, con la quale riflettere su di sé e sui possibili risvolti professionali di questo argomento.
Dopo aver toccato le ragioni di ordine sociale e personale che ci approssimano a maternità e istinto materno, in che modo ci può essere utile sviluppare una riflessione professionale? Riteniamo che la maternità sia un argomento delicato ed importante che prevede una grande pluralità di costruzioni e di implicazioni, nonché un universo simbolico di riferimento che è quello della stessa esistenza della nostra specie. In termini clinici, pensiamo che portare una riflessione su un aspetto fondante della vita degli individui e della loro organizzazione sociale possa aprire una discussione sui modi della generatività contemporanea e il vissuto che l’accompagna, piuttosto che assistere alla mera replica di un copione che riteniamo superato. Con questo articolo intendiamo mostrare come “l’istinto materno” sia un’etichetta mal incollata sopra la “maternità”, che definisce e riduce la donna ad un ruolo predeterminato. Riteniamo invece che l’esperienza individuale sia molto complessa e richieda di dare spazio, oltre che i natali, ad un altro essere umano nella propria vita.
In termini di relazione, ipotizziamo che il superamento di questa costruzione permetterebbe anche una visione meno rigida dei genitori da parte dei figli: immaginare il ruolo “madre” come non predefinito ma in continua costruzione nel rapporto con la prole, e quindi soggetto a prove ed errori come ogni processo di conoscenza, potrebbe ridurre una serie di giudizi di valore verso la genitrice. Allo stesso modo si può immaginare una maggiore legittimazione dell’esperienza dei figli: se non esistono cattive madri, forse potrebbero non esistere nemmeno cattivi figli.
Molto di quanto seguirà cerca di far dialogare spunti teorici di varia natura, imbastiti sulla base delle nostre riflessioni personali, non con l’intento di perorare ciecamente una tesi, ma con quello di riunire gli strumenti a disposizione per riflettere su un tema che, come detto, ci vede protagoniste. Inoltre, durante la scrittura, abbiamo scoperto di avere a disposizione una letteratura piuttosto esigua in merito. In qualche modo, speriamo che questo articolo possa essere un piccolo contributo ad un dibattito che crediamo abbia ancora molto da esprimere.
2.“Istinto materno”: una scelta narrativa
L’“istinto materno”, che nel senso comune viene ritenuto una realtà di fatto, in questa sede vuole essere riletto alla luce di un breve e non esaustivo excursus storico, che permetta di ravvisare quali narrazioni e contesti culturali hanno contribuito alla sua costruzione di “normalità”. Si vogliono anche proporre interpretazioni alternative di alcune di quelle stesse prospettive che da sempre sono state usate per sostenere e dimostrare il costrutto di una maternità naturale e a priori.
2.1 Prospettiva evoluzionistica
A partire dalla teoria darwiniana, gli individui che hanno migliori capacità di adattamento hanno maggiori possibilità di sopravvivere e di riprodursi per tramandare i propri geni (determinismo biologico). Ciò è vero per i maschi e per le femmine, ma in modo diverso: Hrdy[2] propone questa differenza come “qualità vs quantità”.
Nel caso dei mammiferi, le gestazioni sono lunghe e richiedono un dispendio di energie notevole. L’allattamento in natura non è una cura differibile e questo rende la vita della femmina collegata a quella del piccolo fino al suo svezzamento. Storicamente tali comportamenti vengono interpretati a favore della tesi della naturalezza dell’istinto della femmina alla cura della prole, sopra ad ogni altra cosa. Nella prospettiva della Hrdy, seguendo il criterio del successo riproduttivo, la femmina dei primati usa la sua particolare posizione biologica per assicurarsi la posteriorità, tanto quanto avviene nel caso del maschio.
Per la femmina, la più importante fonte di variazione del successo riproduttivo non è il numero delle nascite (dato che i primati hanno pochi cuccioli a gestazione) ma quanti piccoli sopravvivono e riescono a riprodursi. In questo caso viene preferito un investimento qualitativo per un tempo lungo, dalla gestazione allo svezzamento.
Per la stessa ragione il maschio, nelle specie non monogame, trae maggiore vantaggio riproduttivo da molti accoppiamenti: dato che non dispone di piccoli “propri”, può usare un criterio quantitativo per assicurarsi la discendenza.
Tutti gli individui puntano alla propria sopravvivenza e alla trasmissione dei propri geni. In quest’ottica, le femmine potrebbero generare prole anche per assicurarsi un posto nel branco, difendersi dal possibile attacco di invasori esterni, controllare attraverso le nascite i rapporti di potere tra i maschi della comunità. La sessualità, l’accoppiamento e la prole vengono così ad assumere un valore “negoziale” nella vita presente dell’individuo, superando l’idea che una certa programmazione genetica agisca linearmente e prelativamente sulle scelte di adattamento quotidiano al proprio contesto.
Prima dell’avvento della sociobiologia, le femmine erano ritenute tutte uguali, con il medesimo scopo evolutivo di perpetuazione della specie. Nel modello di spiegazione ampiamente condiviso fino all’inizio del Novecento, questo faceva delle femmine “soggetti passivi”, non mosse da una intenzionalità propria, ma impegnate nella costante ricerca di un partner che potesse garantire loro una o più gravidanze, alle quali poi dedicarsi come scopo esistenziale. In termini biologici questo potrebbe significare una scarsa varietà genetica, perché il successo riproduttivo sarebbe equivalente all’interno del genere: se tutte le femmine sono madri, il patrimonio genetico delle femmine non “migliora” grazie all’adattamento competitivo. Per questa ragione, fino al secolo scorso si riteneva che le femmine fossero meno evolute dei maschi, con quello che ne può conseguire in termini di spiegazione del ruolo sociale della donna.
Oggi sappiamo che la femmina è coinvolta attivamente nella selezione: opera scelte di accoppiamento al fine di indirizzare il proprio successo riproduttivo. Attraverso la scelta delle caratteristiche fenotipiche dei maschi, le risorse fisiche fornite ai figli durante lo sviluppo e il microcosmo sociale messo a disposizione della progenie, la femmina garantisce una eredità che non è soltanto genetica.
Da quando esiste l’umanità la vita produttiva è correlata alla vita riproduttiva, sempre in bilico tra inconvenienti e vantaggi. L’ambizione della femmina ossia la ricerca di uno status che le garantisca il successo riproduttivo, sembra essere più evidente nelle scelte dei primati che nella narrazione contemporanea nata in epoca vittoriana della madre caritatevole e devota ai figli. Filogeneticamente il rango sociale serve ad impedire che un’altra femmina divori i propri pargoli: la lotta per lo status, più che un vezzo, rappresenta un varco per la posteriorità. Maternità e ambizione sono state forze armonizzanti, più di quanto non lo sembrino adesso.
2.2 La prospettiva socio-culturale
La storia della maternità non può essere letta al di fuori del contesto del suo sviluppo, ma è utile che essa venga messa anche in rapporto con il “reciproco” della relazione: il figlio.
In che modo le teorie sullo sviluppo contribuiscono a dare una forma al ruolo di madre? Passiamo qui in rassegna alcuni punti di snodo di questa relazione, di come essa è narrata all’interno della cultura e dei pensatori che hanno orientato il sentire collettivo. Secondo Cartesio, ad esempio, l’infanzia è un periodo della vita in cui la facoltà di conoscenza, di comprensione, è interamente sotto la dipendenza del corpo. Questo farebbe del bambino una “tabula rasa” sulla quale imprimere la coscienza. L’irrilevanza della vita infantile rendeva l’accudimento nei primi anni di vita qualcosa di innecessario. La pratica del lavoro minorile, tra le fasce più povere della popolazione, spingeva spesso le scelte riproduttive verso una maggiore quantità di figli e una “compressione” del tempo dell’infanzia. Per le famiglie indigenti, il bambino poteva anche rappresentare una minaccia per la sopravvivenza dei genitori.
Era abbastanza comune, fino all’epoca vittoriana, che le prime fasi della maternità non fossero ammantate di trasporto e gioia, anzi era abbastanza consueta una certa “freddezza” e un’apparente mancanza di interesse per il bambino appena nato. Era così alta la probabilità che il bambino morisse, o avesse disfunzioni, che poteva essere rischioso proiettare sul nuovo nato le proprie aspettative. Allo stesso tempo, la vita della madre non era dedicata ai figli, per cui il bambino doveva pian piano ricavare il suo spazio nella vita familiare e guadagnarsi l’amore dei genitori. Le famiglie più abbienti, invece, per la maggior parte della storia moderna, potevano contare sul servizio di nutrici, balie e precettori.
Queste pratiche ci portano alla considerazione che i figli possano vivere una vita separata da quella dei genitori: l’unico limite che conosciamo alla sopravvivenza dei bambini è la presenza di una relazione di cura, benché questo sia stato teorizzato molto tempo dopo. Anche la disparità di trattamento ricevuto a seconda del sesso e dell’ordine di nascita, è un dato storico a nostra disposizione. La madre riservava la sua tenerezza e l’orgoglio al figlio maggiore (o al primo maschio), erede esclusivo della tenuta e del titolo in caso di discendenze nobiliari. Se l’amore fosse naturale e quindi spontaneo, come potrebbe essere diretto a un bambino e non ad un altro? Che tipo di “istinto materno” esprimono queste scelte? Semplicemente sono preesistenti alla nascita di questa costruzione: quando venivano messe in atto, la “buona madre” non si identificava con l’accudimento e la devozione ma con la capacità di assicurare la sopravvivenza e l’educazione dei figli, anche quando questo poteva sostanziarsi in direttività, distacco o violenza.
In tutti i tempi ci sono state madri amorevoli, non è una creazione ex nihilo del XVIII o XIX secolo, ma questo non dimostra che si tratti di un atteggiamento universale.[3]
Nel XV secolo, l’ascesa del capitalismo porta ad un aumento del divario tra ricchi e poveri e al passaggio dalla famiglia allargata a quella nucleare. L’importanza del matrimonio viene promossa da eminenti protestanti come Martin Lutero e dà nuovo impulso al ruolo delle donne come mogli, madri e custodi della famiglia (Thurer, 1995).
Con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, il lavoro si fa continuativo e la produzione si sposta all’interno delle città; questo porta a un ulteriore consolidamento dei ruoli di genere, stabilendo che l’attività quotidiana fuori casa è appannaggio degli uomini e che le donne hanno la responsabilità del ménage domestico (Thurer, 1995).
L’immagine della madre, la sua funzione e la sua importanza, subiscono un cambiamento radicale. Dal 1760 in poi, ci sono molte pubblicazioni[4] che consigliano alle madri di prendersi cura personalmente ed esclusivamente dei loro figli. Danno vita a un mito che, più di duecento anni dopo, sarà più vivo che mai: il mito dell’istinto materno, dell’amore devoto di ogni madre per il proprio figlio.
È improprio però interpretare l’adesione a questo nuovo ruolo da parte delle donne solo come una forma di passiva accettazione di un diktat all’interno della cultura patriarcale. La donna, attraverso questo nuovo ingaggio, veste un ruolo con una sua dignità sociale all’interno dell’universo familiare.
Nel XX secolo l’obiettivo del lavoro di cura diventa il benessere fisico e psicologico del figlio: una genitorialità “di successo” contribuisce allo sviluppo di un adulto ben adattato e felice[5]. I metodi scientifici sviluppati in questo secolo vengono applicati all’educazione, portando a narrazioni “esperte” su come le madri dovrebbero allevare i propri figli. Queste posizioni, spesso sostenute da esperti di sesso maschile, hanno talvolta contribuito a demonizzare le problematiche materne.
Nello stesso periodo si è assistito a un cambiamento epocale: dove prima erano i padri ad avere giurisdizione totale dei figli, ora anche le donne diventano lavoratrici e acquisiscono diritti legali in materia di divorzio e custodia[6].
Questa svolta, insieme a teorie psicologiche che sostengono l’importanza del ruolo della madre nell’educazione dei figli, sembra portare a un maggiore senso di rispetto e deferenza verso le madri. Tuttavia, con l’elevazione percepita del ruolo della madre nell’educazione filiale, accresce anche la responsabilità per il benessere e il comportamento dei bambini e aumentano di pari passo il giudizio e la colpa per essere divise tra ruoli e identità, soprattutto quando si verificano fallimenti percepiti nell’assistenza all’infanzia (Tardy, 2000).
2.3 La prospettiva psicanalitica
All’inizio del XX secolo la teoria psicoanalitica di Freud pone una pietra angolare nell’interpretazione clinica dello sviluppo infantile, pur risentendo della cultura patriarcale della quale è emanazione.
Tutte/i le/i bambine/i si identificano inizialmente nella mascolinità, una sorta di identità sessuale universale. La scoperta della femminilità avviene attraverso l’osservazione dei tratti anatomici che differenziano i due sessi: le bambine si scoprono prive del pene e interpretano questa come una “mancanza” e un’evirazione. Si sentono maschi mancati e quindi inferiori e incomplete[7]. Freud sostiene anche che lo sviluppo del desiderio di maternità sia indissolubilmente legato all’invidia del pene. A partire dalla scoperta della sua evirazione, la bambina inizia a desiderare un figlio, sostituto simbolico del pene, che è ciò che veramente lei desidera. Freud esclude la maternità come scelta personale della donna e la attribuisce a una sorta di determinismo psichico.
I discepoli del grande psicoanalista hanno in seguito ridefinito in molti modi la maternità, nei termini di relazione primaria che può facilitare lo sviluppo o canalizzarlo in maniera patologica: ne citiamo alcuni a titolo esemplificativo.
Melanie Klein mette al centro della sua teoria delle relazioni oggettuali il rapporto con la madre. L’autrice ritiene che il neonato possa formare relazioni oggettuali primitive e che la sua mente possieda un’innata consapevolezza dell’esistenza della madre[8]. A partire dal rapporto del bambino con questo oggetto interno, egli inizia a introiettare degli elementi esterni (es. la mammella) in modo sempre più complesso, sino a internalizzare le relazioni con gli altri. Klein sembra proporre una sorta di “istinto filiale” ribaltando il piano del ragionamento e ponendo la madre come prima relazione alla quale il bambino deve adattarsi.
Per Winnicott, condizione essenziale dello sviluppo fisico ed emotivo del bambino è l’esistenza di un ambiente facilitante, cioè di un insieme di cure materne da cui il bambino è dipendente. Egli parla di “preoccupazione materna primaria” come quella capacità della madre di fare la cosa giusta al momento giusto, che la porta a sapere come può sentirsi il figlio. Solo una donna in buona salute può sviluppare questa condizione e superarla appena il bambino è pronto (Winnicott, 1956). Con la definizione di “madre sufficientemente buona”, Winnicott pone l’accento sul fatto che non bisogna essere perfette per essere adeguate al ruolo. Tuttavia, questa definizione utilizza un linguaggio figlio del suo tempo e ancora una volta pone l’accento di giudizio sul ruolo e chi debba svolgerlo, seppur ridimensionandolo.
Forse più scioccante per i suoi contemporanei fu l’affermazione che compare in “Hate in the Countertransference” (Winnicott, 1947): “le madri odiano i loro bambini fin dall’inizio”, con l’implicazione che l’odio viene prima dell’amore. L’autore specifica che le madri sono però in grado di gestire e “addomesticare” questo odio in piccole azioni quotidiane come, ad esempio, cantando filastrocche come “ninna nanna ninna oh”, o istituendo l’ora di andare a letto. Inoltre, suggerisce che l’odio della genitrice può consentire al bambino di possedere il proprio odio e che quindi abbia una funzione educativa, purché sia espresso in modi gestibili[9].
Secondo Bowlby, un genitore ha bisogno di una comprensione intuitiva dei bisogni del figlio riguardo al suo attaccamento, per poter rappresentare la “base sicura” del piccolo (Bowlby, 1988). Questa teoria si fonda su una spinta biologica a proteggere il bambino e sulla spinta di quest’ultimo a rimanere nelle immediate vicinanze del caregiver per la sua sicurezza (Bowlby, 1969). È il concetto di questa spinta intuitiva che è stato abusato per suggerire che solo una madre è capace di questa relazione con il proprio bambino.
Mayo e Moutsou (2016), psicanaliste e femministe, in “The Mother in Psychoanalysis and Beyond: Matricide and Maternal Subjectivity” ci offrono una prospettiva più attuale, individuando tre archetipi di donna e madre che, a loro avviso, riflettono i paradigmi materni con i quali le donne occidentali si trovano spesso a confrontarsi o nei quali si identificano (pagg. 9-11):
- Il mito di Atena. La nascita di Atena è la rappresentazione archetipica del matricidio. É la figlia senza madre, nata dalla mente di Zeus, ed è il prototipo della donna invulnerabile che rifiuta la maternità e chiude ogni relazione che implichi ogni sorta di vulnerabilità. Le autrici fanno notare che “[…] simbolicamente e su molti livelli, noi cresciamo in un mondo che promuove e approva il modello di Atena per tutti noi e in particolar modo per le donne. Questo modello privilegia la razionalità e la difensività a sfavore dei sentimenti. L’essere in potere e in controllo promuove la sospettosità e il giudizio per ogni forma di impotenza e vulnerabilità”[10].
- La Madonna col bambino. É uno degli archetipi della madre più ampiamente diffusi nelle culture di matrice cattolica. La vergine Maria concepisce il figlio al di fuori dell’atto sessuale e rimane pura e “intatta”; ma la Madonna è anche altruista, senza colpa, e vive in una tacita abnegazione. È l’essenza della madre perfetta, secondo un certo ideale. Il pericolo è quello di creare un’opposizione binaria tra la Madonna idealizzata e la “puttana” denigrata, cioè la donna che è distruttiva in relazione alla sua sessualità, quindi pericolosa per i bambini e più in generale per la società nel suo insieme.
- Demetra e Persefone. Persefone viene rapita e violentata da Ade e sua madre, in lutto, provoca morte e distruzione, prima che lei concordi con Ade di vedere sua figlia per metà dell’anno. Persefone però non potrà mai essere completamente liberata dagli inferi. Questo mito è stato spesso usato in psicanalisi come una narrativa simbolica della necessità di separazione-individuazione della figlia dalla madre e della patologia materna. Un’altra possibile interpretazione[11] è che questo mito rappresenti l’emergere del patriarcato, la sterilità e la distruzione che la subordinazione della madre al potere maschile porta con sé. É un mito che potrebbe rappresentare anche l’importanza dello stretto legame tra madri e figlie come base per una società dove l’attaccamento, la vulnerabilità e i legami non vengono percepiti come minacciosi e dove la separazione e l’individuazione non avvengono attraverso l’intrusione e la violenza ma attraverso un percorso di consapevolezza.
Nella misura in cui le donne aspirano a questi modelli, o gli uomini si aspettano che le loro partners vi assomiglino, si può anticipare repressione e diniego delle esperienze che non si conformano a queste retoriche.
Riteniamo importante considerare l’influenza delle teorie psicologiche sulla più ampia costruzione sociale della maternità, poiché esse sono state utilizzate come base di partenza per la comprensione dello sviluppo umano e, indirettamente, di ciò che vuol dire essere una “buona madre” (Phoenix et al, 1991).
Con questo non si intende condannare l’una o l’altra teoria ma sottolineare che, nel tentativo di produrre conoscenza, ciascuna di esse riproduce anche la cultura alla quale pertiene, e concorre al mantenimento – e forse a una più ampia accettazione – di certi costrutti sociali nucleari.
3. Quale rapporto tra istinto materno e sistema di costrutti personali di una donna?
Se tutte le donne fossero programmate dall’istinto materno per provare amore incondizionato verso i propri figli, in termini costruttivisti staremmo sostenendo che questa sia per ogni donna, a priori, una costruzione nucleare di ruolo, sovraordinata, e probabilmente regnante.
La Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) assume che il sistema di costrutti personale si formi attraverso l’attribuzione di significato all’esperienza individuale, al fine di anticipare gli eventi. L’unità ermeneutica di discriminazione, ovvero il costrutto, seppure influenzato dal linguaggio sociale, assume una forma personale. La scelta di attribuire un particolare significato ad un’esperienza dipende dalle implicazioni di tale scelta. Secondo il corollario della scelta (Kelly, 1955): la persona sceglie per sé quella alternativa per mezzo della quale anticipa maggiore possibilità di elaborazione del suo sistema. Questa scelta può andare nella direzione della definizione o dell’estensione del sistema nel quale quel costrutto si sta formando o modificando. G. Kelly postula che non esistano costrutti “naturali” o esistenti a priori.
“La Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly include fattori sociali e relazionali come componenti importanti dello sviluppo di costrutti attraverso i quali comprendere e anticipare il mondo. Sebbene l’enfasi […] sia sui processi individuali di costruzione, ciò non nega il significato del sistema, della società o della cultura che rappresenta un sistema di costrutti più ampio attraverso il quale si forma la costruzione personale. Inoltre, Kelly ha riconosciuto l’importanza delle relazioni nello sviluppo e nella validazione di costrutti e sistemi di costruzione”. (Holder, 2018, p.19)
Nella PCP il contesto si pone come vincolo e come possibilità: è al suo interno che la donna trova la strada che le permette di continuare a conoscere il suo intorno attraverso cicli di esperienza.
Chiari et al. (1998), riprendendo la teoria di Bowlby, rielaborano gli stili di attaccamento in percorsi personali di dipendenza, nel tentativo di comprendere in termini processuali come si formino i costrutti relazionali già dalla prima infanzia. Le relazioni con le figure di attaccamento emergono dal ripetersi delle interazioni e in seguito all’individuazione di alcune regolarità; il successivo sviluppo delle/dei bambine/i sarà canalizzato dalla formazione di costrutti nucleari legati a queste ricorsività. I costrutti nucleari andranno poi a canalizzare i processi di mantenimento.
In questo sistema di dipendenza reciproca, i costrutti personali e sociali delle figure di attaccamento vengono messi a fattor comune con quelli degli infanti, creando delle narrazioni condivise all’interno delle famiglie che spesso sono implicite, potenti, e delimitano il campo entro il quale i congiunti possono sperimentare senza mettere a repentaglio la loro identità e appartenenza. La famiglia di origine è il primo luogo dove iniziano a delinearsi i nostri costrutti nucleari di ruolo, la nostra identità, e dove iniziamo a farci un’idea di ciò che la società si aspetta da noi.
In questi termini anche la maternità può essere una delle tante esperienze che, per essere plausibile agli occhi della persona, deve rientrare nel sistema dentro al quale essa è inserita. Non è possibile in questa sede elencare ogni possibile interazione tra ambiente e individuo, riportiamo di seguito alcuni casi a titolo esplicativo.
Una contraddizione in cui molte donne incappano è quella di trovarsi in un sistema familiare, sociale e personale favorevole alla maternità, ma in un contesto lavorativo che sanziona questa scelta in quanto vista in contrapposizione con la produttività. Oppure, in contesti dove la femminilità è fortemente correlata alla capacità di mettere al mondo figli, capita che la possibilità di non desiderare la genitorialità metta a rischio il ruolo e le relazioni di chi fa questa scelta.
“L’identità materna è modellata dalla narrativa storica e culturale. Laddove il ruolo della maternità è intrinseco al senso di sé di un individuo, ne consegue che deviare da questa comprensione sarebbe vissuto come una minaccia, ovvero quando un individuo anticipa un cambiamento imminente nei propri costrutti nucleari (Kelly, 1955). Ciò fornisce un’ulteriore comprensione del motivo per cui i costrutti di ruolo socialmente accettati vengono perpetuati”. (Holder, 2018, p. 84)
In un interessante studio condotto sul modo in cui le madri percepiscono il loro ruolo nel contesto di una visita medica della/del figlia/o, Holder (2018) ha intervistato sei donne con il metodo delle Perceiver Element Grids (Procter, 2002). I poli preferiti, relativi al ruolo di madre, identificati dalle partecipanti dello studio erano: essere calme, in controllo, nurturing[12], attente, ben informate e sicure di sé.
Le donne coinvolte preferiscono posizionarsi sul polo del costrutto che anticipano possa essere considerato dal loro interlocutore come quello rappresentativo del ruolo di “brava madre”. Infatti, dalle interviste emerge la consapevolezza di aver tentato di presentarsi ai medici in conformità con i valori che si associano all’accettabilità sociale.
La Holder indaga anche quali altri fattori possano aver influenzato la creazione di questo ruolo: la maggior parte delle intervistate fa riferimento alla sua esperienza in quanto figlia della propria madre.
Un altro elemento molto sentito dalle intervistate è quello dell’istinto materno, descritto come un elemento intrinseco alla personalità.
Una delle madri, Kate, spiega bene il conflitto che le crea il concetto di intuizione materna:
“l’idea di una madre, c’è questo concetto di qualcuno che è molto … è quasi sacro in qualche modo. I tuoi figli e tu fai la cosa giusta, e sei sempre responsabile […] Quindi mi sento come se tutti si aspettassero che tu sapessi tutto dei tuoi bambini”. (Holder,2018, pag. 85)
Kate riflette anche sulla possibilità di aver deluso le aspettative dei suoi genitori riguardo alla sua educazione e carriera, nel momento in cui ha scelto di fare la madre a tempo pieno, e rimpiange di non poter avere il conforto della presenza e della guida della madre. Vale qui la pena sottolineare come fare delle scelte che deviino dalle aspettative familiari o della società possa generare conflitto e colpa (inteso come dislocamento dai propri costrutti di ruolo).
In secondo luogo, Kate, emigrando nella città del marito, sente di aver perso una parte della sua narrazione culturale e identitaria, e ciò ha contribuito a rafforzare la dominanza del ruolo di madre nella sua identità attuale.
“…essere solo una versione di te stessa. Mentre penso che se cresci da qualche parte, o perdi parte della narrazione… Ma ci siamo trasferiti qui, ed è come se la mia vita fosse iniziata in questa versione di me”. (Holder, 2018, pag. 87)
La maternità si intreccia con ruoli e narrazioni preesistenti e può, più o meno, diventare prioritaria in base ai cambiamenti che viviamo.
Per “contesto” però non si intende solo quello familiare-socio-culturale-politico-economico, ma anche il corpo stesso della donna, in quanto capace o meno di riprodursi e/o in quanto corpo sessualizzato verso il proprio sesso o il sesso opposto.
La costruzione di maternità naturale e istintiva si scontra anche con la ricorrenza di comportamenti lesivi delle madri verso i figli. Come potrebbe una donna-naturalmente-materna trascurare o uccidere suo figlio? Come si spiegherebbe una depressione post partum?
La depressione postnatale, secondo Nicolson, sfida l’idea che l’istinto materno possa guidare la donna naturalmente nel suo ruolo. L’aspettativa di un’innata capacità di accudimento potrebbe favorire processi di costrizione e allentamento rispetto alle anticipazioni che la madre può fare alla nascita del figlio. I bruschi cambiamenti nella vita personale e coniugale, il riassetto del ruolo sociale, le modificazioni corporee, possono far stridere la maternità presunta con l’esperienza vissuta. Inoltre, anche se in linea di principio le persone possono supporre cosa dovrebbero fare una volta diventati genitori, nessuno sa esattamente cosa succederà e come verrà a costruirsi il campo di esperienza della propria genitorialità. C’è una quota di ansia irriducibile!
La pressione sociale a perseguire la norma, a uniformare lo stile relazionale nel ruolo materno amorevole o addirittura nell’imprescindibile desiderio di maternità, alimenta in molte donne la transizione di colpa, approfondita dall’incertezza che quella effettivamente rappresenti una propria costruzione nucleare di ruolo.
É proprio la colpa[13], l’insostenibile idea che provare sentimenti negativi verso il proprio figlio possa condurre al di fuori del ruolo di madre amorevole, che può portare queste donne al desiderio di distruggere l’origine dei propri problemi. L’infanticidio diventerebbe così l’estremo tentativo di salvarsi dalla fuoriuscita da un costrutto di ruolo che non può essere abbandonato.
E chi invece non può avere un figlio è forse condannata al lutto perenne? Nel caso non fosse possibile perseguire questa aspirazione, la donna dovrebbe poter chiudere questo ciclo di esperienza, seppure con una cocente invalidazione, ed elaborare il suo lutto. Sostituire o arricchire di elementi il costrutto sovraordinato a cui è legato il suo desiderio di maternità può permetterle di muoversi nella direzione di una maggiore capacità di elaborazione.
La lente della PCP sembra offrire una costruzione ampia e proposizionale del ruolo di donna e madre e della sua relazione con i figli. Ci dice anche che, in base al grado di adesione o meno della donna al proprio contesto e in base alle sue esperienze relazionali, ella può posizionare questo costrutto di ruolo in modo più o meno sovraordinato ed usarlo in modo più o meno regnante. A questo punto, avere o non avere un figlio potrebbe anche non essere considerata una scelta che riguarda costrutti nucleari, ma subordinata ad altre costruzioni nucleari di ruolo.
Ma in che modo colei che decide di non avere figli può costruirsi come una persona sana e adatta al suo contesto? Innanzitutto, riconoscendo che la sua scelta non si situa fuori da qualsiasi sistema condiviso ma che si tratta di una narrazione legittima e praticabile dal punto di vista antropologico e psicologico. L’implicazione è che non si tratta di una “eccezione alla regola” e che non è sola.
Nella misura in cui le scelte di questa donna non vengono lette esclusivamente nei termini del costrutto madre vs non madre, lei potrà ritenersi, ed essere ritenuta, come una persona che fa esperimenti personali. Non si tratta di dimostrare che una donna non madre faccia comunque “qualcos’altro di buono” (questo vorremmo poterlo dare per assodato); si tratta piuttosto di cambiare l’ordine del discorso e potersi chiedere cosa qualifica questa persona ai suoi stessi occhi. Quali scelte la rappresentano in termini nucleari di ruolo? È fondamentalmente impegnata ad amare la montagna? A studiare il cinese? A costruire acquedotti?
E ancora: seppure una donna che sia madre sia sufficientemente felice e adeguata nello svolgere questo ruolo, possiamo sostenere che automaticamente lei si identifichi in questo?
Cosa non stiamo vedendo?
4. Conclusioni
Viene via via a delinearsi il perché sia così importante demistificare le ideologie sulla maternità.
Costruire le pratiche materne come biologicamente condizionate è uno dei fattori alla base della disuguaglianza di genere: giustifica il riduzionismo dei ruoli femminili, come se le donne fossero predeterminate ad agire senza altre scelte legittime. Attraverso l’epistemologia costruttivista abbiamo provato a dare plausibilità ad ogni scelta, a prescindere dal genere.
Attraverso l’excursus storico, invece, intendevamo evidenziare che l’idea di madre non è cristallizzata nel tempo ma si è evoluta in base alle peculiarità delle varie epoche. Il passaggio dalla distaccata madre previttoriana alla madre naturalmente accudente sembra essere stato canalizzato da molti elementi socioeconomici. Eppure, ad un certo punto, nell’immaginario collettivo, questa concezione ha smesso di essere una novità ed è diventata “vera da sempre”. Come è possibile che ciò sia avvenuto?
Da un lato, il diffondersi di alcune correnti di pensiero, come l’evoluzionismo classico e il positivismo, ha contribuito a plasmare lo sguardo degli intellettuali occidentali, rendendo le lenti della propria epoca le migliori con cui guardare il mondo, anche retrospettivamente.
Dall’altro, una visione astorica contribuisce a dare una cornice di significato ad alcune scelte del nostro attuale sistema sociale (ad es., il fatto che il lavoro di cura sia per lo più affidato alle donne, che non sia retribuito, che esista un gender pay gap, che in molti paesi l’aborto sia difficile o non consentito, che chi non è biologicamente donna non venga riconosciuta come tale).
Anche il linguaggio contribuisce a perpetuare il senso e i valori di una società. È facile notare come la narrazione dei media tenda a dipingere il diventare madri come un momento di arricchimento, gioia, amore, soddisfazione e completezza. Eppure sappiamo che può creare anche rabbia, frustrazione, impotenza e solitudine[14], sebbene questo lato della medaglia sia poco rappresentato. Allo stesso modo, il momento di rinuncia alla maternità, cioè l’aborto, viene dipinto, sempre e per tutte, come sofferto e doloroso.
E le donne che non possono/non vogliono avere figli? Sono mancanti, irrealizzate, immature?
Quanto è onerosa l’idea che una madre sappia ciò che si deve fare istintivamente e che le sue cure non possano essere sostituite da nessun’altro?
Noi non sosteniamo che l’istinto materno sia una narrazione che non possa essere utile a nessuna e che non abbia una sua “validità” storica ma che, perpetuata oggi a livello sociale e presentata come “ordine naturale”, possa essere fonte di esclusione, solitudine e dolore per tante.
L’istinto materno non riguarda solo la maternità, è una via d’accesso alla riflessione su molti temi: la cittadinanza di persone che non si riconoscono nel binarismo di genere, nella sessualità eteronormata, nella divisione tra lavoro salariato e di accudimento, nell’organizzazione dei servizi alla persona, nel linguaggio, nelle relazioni familiari, per citarne alcuni.
Non era possibile in questa sede esplorare ogni domanda che il tema apre, ma ci riserviamo di approfondirne alcune. Da costruttiviste ci siamo chieste se la visione di “genitore che impara facendo” piuttosto che di “naturalmente portato all’accudimento” non possa favorire nei figli una minore idealizzazione e quindi un maggiore sforzo di socialità. Si potrebbe anche ipotizzare che tale visione possa limitare le transizioni di colpa sia nei genitori che nei figli. Un’altra interessante indagine potrebbe sondare come le donne transgender si relazionano al concetto di “maternità istintiva”, usando e tenendo conto del nostro privilegio per dare voce a chi spesso è inascoltato e non compreso.
A conclusione del lavoro, entrambe siamo andate a verifica di ciò che questo approfondimento ha significato anche per noi: ci siamo trovate davanti un processo di dilatazione, dopo aver lungamente utilizzato costrizione e allentamento sul tema della maternità. Questo ampliamento del campo ci ha permesso, in modi diversi, di andare a revisione delle nostre anticipazioni.
Per l’una, l’incertezza è diventata plausibile e la domanda iniziale è andata nella direzione di una maggiore ortogonalità. Dal “sono pronta?” a “mi interessa?”, “come mi interessa?”.
Si è portata dunque a revisione la costruzione di maternità come tema, al di là del diventare madre, che è relazionale nella misura in cui permette di partecipare alle esperienze altrui come donna, amica, psicologa e figlia.
Per l’altra è stato possibile, anche nel confronto, trovare spazio e validazione al proprio sentire: si può non volere figli, si può anche non cambiare idea e questo non determina l’essere più o meno nel giusto. Trattandosi di una narrazione, si può costruire nel tempo e co-costruire nelle relazioni: a questo punto non c’è più una posizione da difendere, perché non c’è un unico modo di approcciarsi al tema. C’è invece una posizione che si può dilatare per vedere la “comprensibilità” delle scelte altrui.
Per noi autrici è stato un viaggio alla scoperta delle radici di domande che ci poniamo (e che ci sono state poste) sin da quando eravamo piccole. Poterle collocare in un contesto, scoprire che le perplessità riguardo al nostro “ruolo di donne” possono essere condivise ed elaborate, ha creato lo spazio per un cambio di prospettiva e una permeabilizzazione di costrutti identitari. La pluralità di legami che abbiamo scoperto andando ad indagare un tema che ritenevamo “privato” ha aperto alla socialità con scelte diverse dalle nostre e ha favorito un certo senso di protezione (non materno) verso tutte quelle posizioni squalificate o rese invisibili da un certo uso, troppo concreto, di costruzioni sociali.
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Note sulle autrici
Manuela Serena Lipori
Institute of Constructivist Psychology, Padova
Psicologa specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova; ho lavorato nell’ambito dell’inclusione lavorativa e sociale di persone con diagnosi psichiatrica e con i richiedenti asilo. L’interesse per il femminismo e la psicoterapia in età adulta mi hanno permesso di entrare in contatto con altre forme, più sottili, di esclusione.
Roberta De Mitri
Institute of Constructivist Psychology, Padova
Psicologa e psicoterapeuta in formazione presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova; ho maturato la mia esperienza professionale nell’ambito dei disturbi neurologici presso l’IRCSS San Camillo di Venezia. Al momento lavoro prevalentemente con giovani adulti e adolescenti. Femminista appassionata, da anni approfondisco le tematiche di genere in un’ottica intersezionale.
Note
- Weigel (2016) nota che la fortunata metafora dell’“orologio biologico” applicata alla fertilità della donna compare per la prima volta nel marzo 1978, in un articolo del Washington Post dal titolo Per la donna in carriera, l’orologio corre. ↑
- Hrdy, S. B. (2001). Istinto materno: Tra natura e cultura, l’ambivalenza del ruolo femminile nella riproduzione della specie. Sperling & Kupfer. ↑
- Badinter, 1991, p. 71. ↑
- Per citarne alcuni: Linné (1770), La nourrice marâtre; Rousseau (1764), Emilio o dell’educazione; Crousaz (1722), Traité des l’éducation des enfants; Gilbert (1770), Dissertation sur la dépopulation; Raulin (1769), De la conservation des enfants. ↑
- Hays, S. (1996). The Cultural Contradictions of Motherhood. Yale University. ↑
- Ibidem. ↑
- Freud,1924, p. 179, tda. ↑
- Klein M. (1957). Envy and Gratitude. Tavistock, London. ↑
- Mayo, R., & Moutsou, C. (Eds.). (2016). The Mother in Psychoanalysis and Beyond: Matricide and Maternal Subjectivity. Taylor & Francis. ↑
- Ibidem, tda. ↑
- Jacobs, A. (2007). On Matricide: Myth, Psychoanalysis and the Law of the Mother. New York, NY: Columbia University Press. ↑
- Non esiste una parola corrispondente in italiano, il Cambridge Dictionary lo traduce come “il prendersi cura, nutrire e proteggere qualcuno o qualcosa, specialmente bambini piccoli o piante, e aiutarlo/a crescere/svilupparsi” https://dictionary.cambridge.org/it/dizionario/inglese/nurturing ↑
- Secondo Kelly (1955), “la colpa è la consapevolezza del dislocamento del sé dalle proprie strutture nucleari di ruolo” (p. 565). ↑
- Per un approfondimento in merito consigliamo Donath, O. (2017). Pentirsi di essere madre. Storie di donne che tornerebbero indietro. Sociologia di un tabù. Bollati Boringhieri. ↑
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