Tempo di lettura stimato: 3 minuti
Tempo di lettura stimato: 3 minuti

In memoriam di Maria Armezzani

di

Massimo Giliberto

Institute of Constructivist Psychology

1FE034E8-FC24-4635-A30F-011B0AF70E6A_1_105_c.jpeg

Abstract

Maria Armezzani è morta. La notizia, benché non inattesa, mi ha colpito come un pugno di vento gelido sul volto. Un dolore, un rimpianto che, seppure aleggiasse da tempo nell’aria, è arrivato all’improvviso, consumando il tempo – un tempo fuggito per sempre – in un solo istante. Il ricordo di lei, perciò, è più umano che accademico, un intrecciarsi di incontri, di scontri, di allontanamenti e riavvicinamenti, di pensieri, conversazioni profonde e legame, affetto reciproco.

 

Ho conosciuto Maria quando ero ancora un laureando di Sadi Marhaba. Lei era una giovane e brillante ricercatrice appena arrivata da Perugia. Sadi era – e sarebbe rimasto – un rimando per entrambi. Portava con sé un bagaglio ricco di fenomenologia e idee, intuizioni “sovversive” e sorprendenti, delicatezza e rigore intellettuale. Sapeva essere – e così è rimasta – tanto accogliente quanto pungente; ma certo non poteva essere diverso l’incontro con una mente, con una persona tanto libera, così intensamente umana e non ordinaria. Incontrarla era sempre e comunque arricchente, mai banale. Dopo una chiacchierata con lei, magari di fronte a un buon calice di Franciacorta, mi capitava di riflettere per giorni. Lei sapeva toccare i margini insondati delle cose, proponendo sempre uno sguardo “altro”. Maria, infatti, oltre a essere una donna di enorme cultura, era coraggiosa e profondamente sensibile: non si è mai tirata indietro dalle sfide della complessità, della fragilità umana, dell’imponderabile e dell’incompiuto. Come recita il titolo di uno dei suoi libri, L’enigma dell’ovvio, la sua era una continua tensione oltre ciò che diamo per scontato.

 

Oltre ciò che appare ovvio, oltre ogni illusoria semplicità, Maria mi ha regalato perle di pensiero e passione per ciò che faccio e, sia come professionista sia come persona, vivo. È stato anche grazie a lei che, attraverso le lenti della fenomenologia, ho scoperto e amato il costruttivismo. Fu lei a consigliami di leggere L’uomo ricercatore di Don Bannister e Fay Fransella. Fu lei a volere che il pensiero di George Kelly arrivasse anche a Padova. Fu lei a ispirare non solo la nascita dell’ICP, ma anche la diffusione di altri Istituti devoti a un’idea di psicologia e psicoterapia radicalmente, irriducibilmente umana e – questo è un paradosso – tuttora non convenzionale.

 

La fame di conoscenza, quella autentica, del resto, non può essere convenzionale. Tantomeno lo era quella di Maria. Lei viveva l’umanità che insegnava, incarnava ciò di cui discuteva con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso. Sue e nostre. Non distoglieva lo sguardo. Mai. Anche quando ciò che le si parava di fronte agli occhi era doloroso e la coinvolgeva in prima persona.

 

Qualche tempo fa, consapevole di tutto, in uno scambio di mail, mi scriveva:

“[…] ti ricordo anche io come eravamo quando venivi nello studio di Sadi. Chissà se abbiamo tenuto fede a quello slancio… Io sono ancora viva, ma ora è un’altra vita. Molto più difficile, ma forse più essenziale. Riesco ancora a lavorare un po’, ma quel che conta posso ancora pensare e, mi pare, amare di più”.

Maria era anche questo: sapeva rendere intenso e fecondo ogni attimo dell’esistere, per quanto impietoso e dolente. Questa è la forma di un amore difficile e ferocemente sincero per ciò che siamo, per i dubbi che ci accompagnano, per le nostre debolezze, per un’essenzialità che – per una persona come lei – non è mai stata sollievo e semplificazione. Questo, anche questo, ha fatto di lei, donna forte e vulnerabile, un faro, un’ispirazione, un riferimento per molti di noi. Lo è stata anche per me. E ancora lo è.

 

Per questo, inevitabilmente invisa a qualcuno, era circondata dall’amore dei suoi studenti. E di molti, moltissimi di noi.

 

Ciao Maria.