Ilaria Bracardi è psichiatra, psicoterapeuta di formazione costruttivista e dal 2001 è dirigente medico di I livello presso il Servizio Dipendenze-SERD di Bolzano. Come psichiatra e psicoterapeuta segue la presa in carico, la gestione e il trattamento di pazienti che utilizzano sostanze, con grande passione e competenza nel lavoro con le dipendenze.
Dal 2013 è, inoltre, coordinatrice dell’équipe clinica multidisciplinare dell’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige nel comprensorio di Bolzano, in cui si occupa del coordinamento dei diversi professionisti che lavorano nei Servizi Dipendenze e segue progetti legati alla presa in carico di pazienti specifici da parte dell’equipe multidisciplinare.
È docente di area tematica presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova e di Bolzano.
Ilaria Bracardi is a psychiatrist, constructivist psychotherapist and since 2001 has been medical director (level I) at the Addiction Service-SERD in Bolzano. As psychiatrist and psychotherapist, she follows the intake and treatment of patients, with great passion and expertise in working in the field of substance addictions.
Since 2013, she has also been the coordinator of the multidisciplinary clinical team of the South Tyrol Health Authority in the Bolzano area, where she is responsible for the coordination of the various professionals working in the Addiction Services and follows projects related to the treatment of specific patients assisted by the multidisciplinary team.
She is a lecturer at the Institute of Constructivist Psychology in Padua and Bolzano.
Buongiorno Ilaria, ti ringraziamo per aver accettato il nostro invito. La prima domanda che volevamo farti riguarda il tuo lavoro. Ci puoi dire un po’ di più di quest’ambito e di ciò di cui ti occupi esattamente?
Certo. Sono un medico psichiatra e da 23 anni lavoro in un Servizio Dipendenze, nel quale ci occupiamo prevalentemente, anche se non esclusivamente[1], di prevenzione, trattamento e riabilitazione delle dipendenze da sostanze illegali[2] e quindi di quelle che, comunemente, vengono definite “tossicodipendenze”. Quest’attività viene svolta da un’équipe multidisciplinare, nella quale il medico è solo uno degli operatori coinvolti, non sempre e non necessariamente il più importante. Questo significa che lavoro quotidianamente a contatto con diverse figure professionali; attualmente le nostre équipe multidisciplinari, oltre che da un medico, sono composte anche da un infermiere, da un assistente sociale e da uno psicologo psicoterapeuta. Per alcuni casi specifici è coinvolta anche un’educatrice. Dal 2013 uno dei miei compiti al SerD è anche quello di coordinamento dell’intera équipe multidisciplinare, più o meno una ventina di operatori. Questa come sintesi molto generale e molto concreta.
Di solito, però, quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, rispondo semplicemente che lavoro al SerD e aggiungo che il mio è il lavoro più bello del mondo. Ammetto che un po’ mi diverte la reazione che ottengo quasi ogni volta, che è di assoluta incredulità. Diciamo che al gioco delle anticipazioni mi piace vincere facile, perché sono consapevole dello stigma molto forte che c’è sui miei pazienti, ma anche sul servizio e in parte su noi operatori e quindi è ovvio che la reazione alla mia affermazione sia spesso, purtroppo, abbastanza scontata. Al di là di questo, però, alla mia risposta io credo veramente.
Il lavoro in un Servizio per le Dipendenze, infatti, è un lavoro molto complesso; è necessario maturare competenze trasversali, non solo in campo medico (bisogna sapere di tossicologia, di psichiatria, un po’ di medicina generale e interna), ma anche, per esempio, in ambito giuridico, perché i nostri pazienti vivono spesso ai margini della legalità e di conseguenza qualche nozione di diritto penale è importante per seguire l’intero percorso. Fondamentale poi è sviluppare elevate competenze relazionali, perché abbiamo un’utenza difficile, spesso diffidente o scarsamente collaborante, e saper instaurare un buon rapporto fin dai primi contatti è davvero necessario. Quindi effettivamente è un lavoro complesso, ma proprio per questo anche molto interessante. E infine è un lavoro gratificante perché, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, i nostri pazienti sono capaci di affrontare dei percorsi evolutivi a volte veramente incredibili, anche quando il comportamento di consumo non viene estinto. Spesso, infatti, anche con i pazienti che ci appaiono “più gravi” è possibile osservare un percorso evolutivo fatto di piccoli cambiamenti, di piccoli passi, che contribuiscono ad una narrazione nuova per loro, sia di sé stessi che del loro rapporto con le altre persone. In questo senso, il mio è un lavoro che, a saper cogliere questi segnali, può diventare di grande soddisfazione. Da non tralasciare è anche il lato umano, perché il nostro Servizio prende in carico pazienti per tempi molto lunghi, a volte anche per l’intera vita; si creano quindi relazioni che sono effettivamente molto ricche anche dal punto di vista strettamente umano e non soltanto terapeutico.
Tu, oltre a essere medico psichiatra sei anche psicoterapeuta costruttivista. Volevamo quindi capire il tuo punto di vista rispetto all’utilità di questo approccio all’interno del tuo lavoro.
Dovete considerare che, quando ho iniziato a lavorare al SerD, 23 anni fa, ero specialista in psichiatria da poco più di un anno e stavo terminando la scuola di specializzazione in Psicoterapia dei Costrutti Personali. Quindi sono arrivata al SerD molto armata di teoria e tecnica della PCP e con una discreta competenza di psicopatologia e psicofarmacologia, ma mi mancava una cosa importantissima, mi mancava qualsiasi competenza della disciplina di cui dovevo occuparmi. In breve, io non sapevo nulla di medicina delle dipendenze, non avevo mai visto un tossicodipendente nei quattro anni di scuola di specializzazione in psichiatria, perché i tossicodipendenti erano confinati al SerD e all’epoca, almeno per quel che riguardava la mia scuola, noi nei SerD non ci mettevamo piede.
Dunque, sono arrivata in un servizio che era già molto ben organizzato e che lavorava già con un’équipe multidisciplinare, nella quale c’erano operatori molto forti nel loro ruolo, molto competenti e sicuramente accoglienti, ma con i quali – proprio per questo – non era possibile porsi come il medico psichiatra che arriva e si prende il ruolo del case-manager. Innanzitutto, perché questo avrebbe enormemente aumentato il divario fra tutte le cose che loro già sapevano e tutte quelle che io invece non sapevo affatto, il che non mi avrebbe aiutato molto. In secondo luogo, non sarebbe stato utile neanche per i pazienti, perché sarei entrata a gamba tesa in un’equipe strutturata, che funzionava in un certo modo, senza peraltro poter dare subito un contributo specifico.
L’essere formata in ambito costruttivista, con questi quattro anni così densi appena alle spalle, mi ha aiutato moltissimo fin dall’inizio. Mi ha fatto entrare subito nell’ottica di pensare che avevo delle competenze che erano diverse da quelle dei miei colleghi, e che loro però avevano le loro; dovevamo lavorare insieme e consideravo i nostri ruoli sullo stesso piano di importanza. Soprattutto sapevo di dover imparare da loro tutto quello che potevo. Ed era tantissimo.
Questo per me vale ancora oggi e credo sia la base per il terapeuta costruttivista: l’ascolto partecipe e lo sforzo di comprensione, che noi rivolgiamo verso l’altro.
Per me è stato utilissimo, perché i colleghi mi hanno insegnato molto in campi di cui non sapevo assolutamente nulla, come quello giuridico dalle colleghe assistenti sociali; ma ho imparato anche dai colleghi psicologi, che già erano allenati a esercitare le loro competenze per l’accoglienza e la comprensione del paziente.
La formazione PCP mi ha aiutato anche ad avvicinarmi ai pazienti tossicodipendenti – dei quali sapevo fino a quel momento solo che esistevano – senza alcun pregiudizio, cioè senza nessuna attesa di quello che dovevo aspettarmi. Da costruttivista, infatti, il mio interesse principale era quello di conoscerli innanzitutto come persone. E conoscere qualcuno come persona implica proprio questo: lasciar da parte qualunque tipo di strutturazione.
Quindi mi sono relazionata fin dall’inizio con un atteggiamento volto alla costruzione proposizionale dell’altro, proprio come mi era stato insegnato durante il corso quadriennale. E devo dire che questo atteggiamento è stato un aiuto enorme e forse ha giocato un ruolo anche nell’essermi trovata così velocemente a mio agio in questo ambito così particolare. Entrare senza particolari competenze, che poteva essere uno svantaggio, si è poi rivelato anche un vantaggio, perché mi ha permesso di farlo senza sovrastrutture o pregiudizi. Al tempo stesso arrivare con questo desiderio, questa curiosità verso l’altra persona che mi è stata trasmessa quasi per osmosi durante i quattro anni di formazione costruttivista, si è rivelata un’incredibile spinta alla conoscenza. Quindi sì, il costruttivismo è stato decisamente utile allora, e continua ad esserlo ancora oggi.
Rispetto alla possibilità di strutturare l’utenza, avrei anche io una domanda. Infatti, nonostante sia in letteratura che nelle politiche di intervento stiano emergendo modelli alternativi, comunque la rappresentazione della dipendenza da sostanze come malattia rimane ad oggi la chiave di lettura più utilizzata all’interno dei servizi. Questo è un aspetto importante perché l’epistemologia della malattia informa la formazione, le credenze degli operatori dell’ambito, le pratiche di intervento e anche le anticipazioni delle persone in carico ai servizi. Quindi, dal tuo punto di vista, quali potrebbero essere gli aspetti di forza e i limiti di tale approccio?
Sono d’accordo fino a un certo punto su quello che hai detto, perché ciò che io ho potuto osservare in questi vent’anni, ed osservo ancora oggi, è che l’approccio alla dipendenza come malattia è certamente condiviso dagli operatori del settore, come dici tu, ma lo è ancora poco da professionisti di altri settori.
Ad esempio, se penso ai miei colleghi dei reparti ospedalieri credo che considerino gli utenti del SerD come “pazienti” solo quando si ammalano di qualche patologia di loro competenza, ma penso che raramente si soffermino a pensare a loro come a “pazienti” indipendentemente da ciò. Con “pazienti” intendo delle persone che hanno una malattia cronica, con la quale devono fare i conti quotidianamente. Ma questo è raro anche per le famiglie e per i pazienti stessi.
Perciò io scelgo di chiamare “pazienti”, e non “clienti” o “utenti”, le persone in carico al SerD: perché, quando arrivano da noi, non solo spesso non sono lì per sé stessi, ma il più delle volte non si rappresentano neanche come pazienti. Si rappresentano invece in maniera spesso costellatoria e attraverso strutturazioni molto forti. Si riferiscono a sé stessi di frequente come individui deboli, incapaci di controllarsi, incapaci di fare la cosa giusta, fragili o comunque non degni. Questa è una costellazione di costrutti molto diffusa e bisogna insegnare loro che invece hanno a che fare con qualcosa con cui possono imparare a relazionarsi.
Il modello medico esiste senz’altro ed è molto forte come dicevi tu, ma è molto forte se andiamo al congresso di FeDerSerD[3], altrimenti lo è molto meno. I nostri pazienti vengono spesso etichettati come individui che non ce la fanno perché non sono disposti a farcela, come soggetti che deludono tutti quelli che hanno intorno o perché incapaci o perché dotati di cattiva volontà. Vengono definiti in molti modi, manipolatori, seduttivi, antisociali o anche semplicemente delinquenti; raramente vengono considerati malati.
Al di là del fatto che nel nostro SerD utilizziamo ogni giorno con convinzione le competenze dell’équipe multidisciplinare per aggredire il problema da più punti di vista, è per questo motivo che una delle prime cose che cerco di fare è proprio un colloquio informativo, quasi educativo, che avvicini i pazienti e le loro famiglie al modello neurobiologico.
Non perché ritengo che questo sia il più importante o l’unico da seguire o che siano utili soltanto i farmaci per questi pazienti, ma perché è il primo passo per far sì che le persone si possano affidare ad un servizio sanitario come il nostro, con tante figure che operano con l’obiettivo primario di “prendersi cura”, inteso nel senso più ampio del termine. In pratica, per prenderci cura di queste persone noi dobbiamo avere davanti dei soggetti che imparano a comprendere che ce l’hanno, un bisogno di cura. E questo non vale solo per loro, ma anche per i loro familiari.
In questo senso, credo che per avvicinarci dobbiamo utilizzare un linguaggio, un modello, che – almeno inizialmente – possa essere comprensibile o più comprensibile, e quello che abbiamo visto è che il modello medico, dal punto di vista della comunicazione nell’approccio iniziale, spesso funziona.
In relazione all’utilizzo di un certo tipo di approccio o paradigma, secondo te come riescono ad interagire l’approccio medico-psico-farmacologico con la prospettiva epistemologica costruttivista?
Questa è una domanda che mi aspettavo, ed è una domanda che io stessa mi sono posta molto presto e che credo di aver risolto, almeno per me, da tempo. È una domanda che mi sono posta immediatamente dopo i primi mesi della scuola di psicoterapia, perché l’approccio al paziente era naturalmente molto diverso rispetto a quello della psichiatria.
Quindi la questione era anche per me: come posso integrare questi due ruoli? Perché domani sarò psichiatra, ma sarò anche psicoterapeuta costruttivista. Come faccio a fare in modo che questi due ruoli possano integrarsi senza confliggere, senza per esempio che io mi debba sentire invalidata come psichiatra se scelgo di seguire un paziente in psicoterapia, o viceversa, invalidata come psicoterapeuta se arrivo a considerare utile ricorrere al farmaco con un paziente in psicoterapia? Si può generare una transizione di colpa nel momento in cui mi allontano dal ruolo che sto incarnando in quel momento? E credo di aver trovato la risposta fondamentalmente dentro la teoria costruttivista stessa.
Mi è stato utile cominciare a ragionare sui linguaggi, sui modi di comunicare e sul fatto che anche i sintomi somatici possono comunicare qualcosa che va al di là del corpo. È stato utile ragionare sul fatto che noi siamo persone e che distinguere all’interno della persona il corpo e la mente è una semplificazione, ci aiuta a spiegare alcune cose, ma non è la realtà dei fatti, è anche questa una costruzione.
Da queste riflessioni ho cominciato a pensare che forse la farmacologia e la psicoterapia non sono altro che linguaggi differenti che ci servono a descrivere lo stesso fenomeno. Se, cioè, noi trattiamo il nostro paziente o, meglio ancora, la relazione che noi abbiamo con il nostro paziente, come un fenomeno da osservare, da descrivere, possiamo farlo con linguaggi diversi.
Faccio un esempio: quando sono arrivata a Bolzano una delle cose che mi ha colpito subito, e che mi faceva anche molto ridere, era osservare i ragazzi di lingua tedesca che parlavano fra loro nel loro dialetto sudtirolese, che deriva dal tedesco. Il tedesco è una lingua abbastanza povera di parolacce, quelle che ci sono rappresentano più o meno delle varianti o derivazioni della più usata. Questi ragazzi mi sembravano fantastici perché per insultarsi, durante una discussione accesa o una lite, passavano velocissimi dal dialetto locale all’italiano, lingua che – lo sappiamo bene – è estremamente creativa in quest’ambito.
Questa cosa all’inizio mi ha fatto davvero ridere, poi però mi ha fatto anche riflettere su come possiamo, avendo più strumenti, più linguaggi conoscitivi diversi, utilizzarli in maniera efficace a seconda delle diverse situazioni. Per intenderci, quando ci rendiamo conto che uno strumento o un linguaggio alternativo che conosciamo può essere, in una data situazione e con una data persona, non migliore o più veritiero, ma semplicemente più efficace, se noi lo usiamo ne ricaviamo un enorme vantaggio. Perché, appunto, parliamo di strumenti. Quindi l’obiettivo è utilizzarli quando sono più utili e più efficaci, proprio come fanno i ragazzi altoatesini con le loro due lingue.
Questa è stata la riflessione principale, che poi mi ha permesso di imparare gradualmente a passare da un ruolo all’altro senza necessariamente andare incontro ad una minaccia di colpa o a colpa. Ho capito che io potevo essere una psichiatra costruttivista, non c’era nulla che mi impedisse di utilizzare gli strumenti che avevo e che, in fin dei conti, avevo cercato e scelto.
È sempre utile saper parlare linguaggi differenti, anche se ovviamente è difficile essere perfetti in tutte le lingue, ma si può essere abbastanza competenti da cavarsela bene. Dell’utilità di questo aspetto mi sono accorta anche nel lavoro d’équipe, dove i miei colleghi hanno un modo di costruire il paziente che è sicuramente diverso dal mio, utilizzano linguaggi diversi e approcci a volte differenti, però sono linguaggi che ho imparato a comprendere, che posso capire piuttosto bene, anche grazie alla formazione che ho ricevuto, che ci insegna ad essere sempre aperti e curiosi nella relazione con l’altro. Se ci si sforza di ascoltare gli altri nella loro lingua e si prova anche un pochino ad utilizzarla, poi pian piano si diventa effettivamente sempre più abili e questo favorisce la comprensione reciproca, ci si sente un po’ tutti sullo stesso livello, ognuno con qualcosa da dare e qualcosa da ricevere.
Nel lavoro di équipe questo diventa una base fondamentale, soprattutto quando ci sono delle divergenze nel modo di leggere alcune situazioni perché, se a quel punto ci si arrocca sui propri tecnicismi allora l’équipe ha finito di lavorare e non trova più spazio, e se l’équipe non trova spazio il paziente rimane solo e questa è veramente la cosa peggiore che possiamo fare. Quindi, appunto, a volte si tratta di lasciare che altri facciano quello che fanno meglio di noi e, se dobbiamo intervenire con i nostri strumenti, cercare di farlo al meglio, nel rispetto del lavoro dell’altro. Essere psichiatra e avere una formazione anche psicoterapeutica, soprattutto una formazione di tipo costruttivista, è, secondo me, un vantaggio proprio perché puoi sempre tentare di giocartela su più fronti.
Per la tua esperienza, che è molto ricca per quel che riguarda il funzionamento dei servizi territoriali, come funziona il SerD e quali pensi siano i punti di forza e le fragilità nel sistema di servizi territoriali?
Uno dei punti di forza nel servizio che i SerD offrono da quasi 30 anni, è l’aver compreso molto precocemente l’importanza dell’intervento multidisciplinare e a più livelli in una patologia così complessa, così stratificata e così grave come quella della dipendenza. Possiamo chiamarla patologia, possiamo chiamarla un arresto del movimento evolutivo della persona, è comunque qualcosa che investe la vita della persona a 360° e di conseguenza bisogna essere presenti e capaci di cogliere il disagio in tutte le forme in cui si manifesta. Non basta avere il medico che prescrive il farmaco che in qualche maniera riesce ad aiutare il paziente a gestire meglio il craving, o lo psicologo/psicoterapeuta che sostiene il paziente con la forza della relazione, l’assistente sociale che toglie il paziente dalla strada o l’infermiere che lo assiste, bisogna esserci tutti, compresi gli educatori che – se ne avessimo di più – avrebbero anche loro un ruolo fondamentale nel percorso riabilitativo.
L’aspetto dell’organico, che non sempre è completo, è un punto sicuramente dolente, ma non è legato di certo alla volontà dei SerD; è collegato ad aspetti di politica sanitaria molto più ampi. Allo stesso tempo un punto di forza è lo sforzo e l’impegno continuo degli operatori che ci sono e che, anche se spesso sottorganico, fanno del loro meglio con gli strumenti che hanno a disposizione.
Un altro punto di forza è che gli operatori dei SerD condividono tra loro un ruolo molto chiaro e molto forte, tanto che la maggior parte di noi prima ancora di sentirsi medico, psicologo, infermiere, si sente “sertista”. Fatte salve le eccezioni, ci distingue un approccio ai pazienti sempre rispettoso, privo di pregiudizi e molto, molto accogliente. Si potrebbe quasi dire che i “sertisti”, per certi aspetti, tendono ad essere naturalmente costruttivisti.
Di sicuro questo è un grande punto di forza che però, a mio parere, può diventare anche un forte limite, perché all’interno del SerD può succedere che gli operatori finiscano anche loro per costruire i loro pazienti in maniera, nella migliore delle ipotesi, costellatoria: il mio paziente tossicodipendente è un poveretto, uno che nessuno vuole, uno che, se non me ne occupo io non se ne occuperebbe nessun altro, è una persona da difendere contro tutto e contro tutti, in qualche modo da salvare. Questo atteggiamento può diventare estremamente rischioso, perché naturalmente favorisce buone relazioni col servizio e con gli operatori, ma si tratta chiaramente di relazioni basate sulla dipendenza e non su costrutti di ruolo. Così possiamo finire per ingabbiare i pazienti in un ruolo dal quale poi è difficile accompagnarli in un percorso evolutivo vero e proprio.
Ecco, la dipendenza dei pazienti dal loro servizio, secondo me, è un grande tema. Considerando che noi abbiamo pazienti ormai che vivono molto a lungo e che abbiamo in carico anche per l’intera vita, alcuni di loro, secondo me, hanno un po’ “subito” (e certamente, date le loro caratteristiche, anche favorito) un atteggiamento di questo genere. Non è terapeutico, è sicuramente accogliente, è sicuramente umanamente rispettabile, ma non è terapeutico.
Questo atteggiamento ancora oggi esiste e a mio parere favorisce – tra le altre cose – anche lo stigma del servizio da parte degli altri servizi o degli altri professionisti. Ci vedono un po’ come i Don Chisciotte che difendono a spada tratta i loro pazienti anche quando, a volte, francamente, rischiamo di difendere l’indifendibile. Quello che voglio dire è che a volte dimentichiamo che i nostri pazienti non sono tutti uguali, proprio perché sono persone. Dobbiamo conoscerli come persone, capire chi sono, come agiscono, che cosa anticipano all’interno delle loro relazioni e, se necessario, attivare dei percorsi che ci aiutino anche a “difenderci” da alcuni di loro, perché non tutti i pazienti dei SerD sono “brave persone che soffrono”, esattamente come non lo sono le persone fuori dai SerD. Credo che sia una cosa che andrebbe sempre tenuta a mente, soprattutto dopo tanti anni che si lavora dentro ai servizi.
In questo senso, forse il lavoro di équipe e la multidisciplinarietà di cui parlavi prima potrebbero servire anche a questo, a sostenersi a vicenda nel non restare agganciati in dinamiche che poi non si rivelerebbero utili.
Assolutamente sì. Sono d’accordo. Avere un’équipe forte, ben coesa e che si comprende, anche in un dialogo che può essere a volte conflittuale, nel senso positivo del termine, è una grande garanzia. Nel momento in cui io scivolo in una relazione col mio paziente che può diventare non più costruttiva, non più utile, avere il collega che te lo fa notare, mostrandoti la dinamica in cui ti trovi, e che ti aiuta anche ad uscirne, assumendosi un pezzetto di relazione, diventa fondamentale. Anche perché questi sono pazienti che nella maggioranza dei casi, soprattutto per quel che riguarda i pazienti maschi, mostrano percorsi di dipendenza basati sulla colpa e questo li fa agire all’interno delle relazioni un ruolo, che li etichetta come strumentali e manipolatori. Se noi rimaniamo dentro a questo gioco, fornendo loro tutte le risposte ai bisogni che ci portano e facendo al posto loro, non li aiutiamo. È una semplificazione ovviamente. Stiamo facendo emergere dei livelli di comunanza fra i pazienti tossicodipendenti, senza ovviamente tralasciare il fatto che poi all’interno di una categoria troviamo l’individualità, questo è chiaro.
Mi riaggancio al tema “pazienti maschi-femmine”. Dalla letteratura emergono alcune criticità nel lavoro con l’utenza femminile all’interno dei servizi per le tossicodipendenze, tra cui, ad esempio, i limitati posti all’interno delle comunità terapeutiche e la maggiore incidenza di disturbi psichiatrici in comorbidità. Nella tua esperienza hai riscontrato questo tipo di criticità? E quali cambiamenti pensi che siano necessari per una migliore presa in carico delle donne che utilizzano sostanze?
Penso che questa sia una domanda alla quale si può rispondere a vari livelli.
Le statistiche ci dicono alcune cose, però io penso che le statistiche vadano lette sempre con una certa cautela, e non credo che sia connaturato all’essere donna l’essere più facilmente affetta da disturbi psichiatrici. Non penso che sia tanto questo il punto. Credo che questa sia solo una possibile interpretazione di un fenomeno.
Premetto che io lavoro meglio con i pazienti maschi, mi trovo molto più a mio agio, ma non perché le pazienti femmine siano a mio parere più gravi o più disturbate, piuttosto, ritengo, per le mie caratteristiche personali che forse entrano in una risonanza non troppo positiva con alcune caratteristiche che mi sembra accomunino le pazienti donne.
In ogni caso, da psichiatra costruttivista dovrei forse rispondere a questa domanda, dicendo che a me interessa in primo luogo la persona. Devo, cioè, conoscere il mio paziente come persona, a prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale, dalle pratiche religiose, dalle idee politiche, dal tipo di etichette diagnostiche che le sono affibbiate, eccetera. Di fatto però, nella pratica, quello che ho osservato è che i percorsi di dipendenza delle donne tossicodipendenti mi sembra siano più raramente segnati dalla colpa e più spesso invece dalla minaccia, il che rende il loro modo di mettersi in relazione sicuramente differente da quello dei maschi.
Entrambi presentano una scarsa dispersione della dipendenza, altrimenti non sarebbero neanche dipendenti da sostanze probabilmente, perché, a mio parere, anche la sostanza fa parte in qualche maniera di una relazione di dipendenza. Però nella relazione terapeutica mi sembra che maschi e femmine si differenzino proprio in virtù di percorsi di dipendenza diversi.
I pazienti maschi mostrano generalmente una dipendenza molto centrata sul sé, si fidano poco o per nulla del terapeuta, che esiste per lo più in funzione dei loro bisogni. Gli operatori, almeno in una prima fase del trattamento, tendono ad essere tutti intercambiabili per loro e bisogna fare un grande lavoro per cercare, almeno inizialmente, di spostare una quota della dipendenza sul terapeuta, in modo da stabilire una relazione, che per molto tempo rimarrà chiaramente una relazione di forte dipendenza.
Le donne, invece, mi sembra tendano a mostrare una scarsa tendenza a centrare la dipendenza sul sé e la collocano invece su pochissime figure che sentono fidate, molto spesso è un partner col quale instaurano una relazione di dipendenza molto potente e difficilmente risolvibile; spesso per loro questa relazione è ancora più importante di quella che hanno con la sostanza e ciò può portarle a vivere la relazione terapeutica come molto minacciosa. Purtroppo, il partner è spesso violento e abusante, ma la relazione per la donna è vitale: le nostre donne non abbandonano il partner, non lo lasciano e non permettono che il terapeuta metta in discussione in qualsiasi maniera, anche solo con la sua presenza, la loro relazione e questo rende tutto il percorso di cura più complicato.
Per loro, la minaccia alla relazione di dipendenza diventa spesso non sostenibile ed è quindi più difficile aiutarle a spostare la loro dipendenza sul terapeuta. O almeno questo è ciò che a me sembra di aver osservato in tanti casi.
Anche l’invio in comunità terapeutica delle donne, per quello che ho visto io, è fondamentalmente più raro. Allora, diventa comprensibile che le comunità mettano a disposizione meno posti per le donne, perché noi stessi ne inviamo di meno e anche nel nostro ambito esiste una regola che ha a che fare con la domanda e con l’offerta. Perché ne inviamo di meno? Un possibile motivo è che, rispetto agli uomini, le donne spesso mancano della spinta motivazionale esterna, che per esempio può essere data dalle problematiche giudiziarie. Sappiamo infatti che le comunità sono piene di tossicodipendenti che stanno scontando una condanna in misura alternativa e questo per le donne è decisamente più raro, delinquono di meno in linea di principio, in parte anche perché spesso si appoggiano ad un partner che delinque anche per loro, per procurare la sostanza ad entrambi. In qualche modo è come se le donne attivassero modalità di sopravvivenza a loro specifiche.
Ma il motivo principale, almeno nella mia esperienza, è che le donne sono in generale meno disponibili a lasciare la situazione in cui si trovano. Tendono ad allontanarsi molto meno facilmente, oltre che da un eventuale partner – come già detto – anche dalle loro famiglie, dai genitori, da madri e padri sui quali hanno collocato la loro dipendenza fin da bambine, spesso invertendo precocemente il rapporto genitore-figlio. Spesso, fin da bambine si sono prese cura di madri insufficienti dal punto di vista genitoriale e continuano di solito a farlo anche da adulte, quindi faticano a lasciare quel ruolo lì.
Insomma, hanno dei percorsi all’interno delle loro relazioni di dipendenza che, secondo me, le distinguono in qualche maniera dai maschi e fanno sì che per certi aspetti tendano ad essere in un certo senso meno disponibili all’interno della relazione terapeutica. Questo avviene, come dicevamo prima, perché si sentono più facilmente minacciate dalla relazione terapeutica, mentre l’uomo la usa anche per tempi molto lunghi.
Esistono naturalmente anche una serie di altri aspetti che rendono la presa in carico delle donne più complessa, penso ad esempio al grande tema della maternità.
I nostri padri tutto sommato diventano padri e, se la madre non è tossicodipendente, si fa carico lei della genitorialità. Il padre c’è, se e quando è sufficientemente lucido da esserci, ma non attira granché l’attenzione dei servizi, a meno che non sia francamente abusante. Quando invece è una madre ad essere tossicodipendente, si trova immediatamente (e noi con lei) di fronte a tutta una serie di altri servizi che si attivano, a partire dal Tribunale per i Minori. Questo aumenta enormemente il livello di complessità e rappresenta uno dei motivi più frequenti per l’invio in comunità terapeutica, che spesso quindi diventano comunità specifiche madre-bambino.
In questi casi mi chiedo sempre: “ma noi inviamo perché stiamo pensando alla presa in carico, alla cura, al benessere della donna? Oppure stiamo pensando alla tutela del minore? O magari lo facciamo anche in parte per sollevarci dalla gestione dei rapporti con il tribunale e i servizi sociali?”
È una domanda etica questa, perché a mio parere non sempre le donne che inviamo coi loro figli in comunità sono pronte per un progetto residenziale.
All’interno dei servizi, secondo me, le donne potrebbero trarre maggior beneficio da percorsi di gruppo piuttosto che da percorsi individuali. All’interno di un gruppo, infatti, possono condividere alcuni aspetti di comunanza nel loro essere donne prima ancora che tossicodipendenti e ciò può essere molto supportivo, può aiutarle ad iniziare a disperdere la dipendenza, a dare loro un motivo per rispecchiarsi in altre donne che hanno fatto già una parte del percorso evolutivo e, di conseguenza, a dar loro la speranza che raggiungere determinati obiettivi è possibile. Inoltre, ritengo che quella del gruppo possa essere una forma di trattamento meno minacciosa rispetto al percorso individuale che guarda caso, almeno per quella che è l’esperienza nel mio servizio, le donne tendono a disertare un po’ più degli uomini.
Ci tengo a sottolineare che però queste sono solo mie osservazioni individuali e non hanno alcuna pretesa di universalità.
Ilaria, io concluderei con un’ultima domanda che guarda un po’ al futuro. Cosa ti viene in mente se pensi alle prospettive future nel lavoro con la dipendenza?
Quello che mi piacerebbe è che i nostri servizi cominciassero ad uscire da una forma quasi di solipsismo, per cui i SerD lavorano solo con i loro pazienti e i pazienti accedono solo ai servizi del SerD, in una sorta di bolla all’interno della quale possiamo mantenerli protetti e “accuditi”. Mi piacerebbe che sempre di più i nostri pazienti potessero affrancarsi almeno in parte da questo servizio dedicato a loro a 360 gradi, dove trovano quasi ogni risposta ai loro bisogni. Certamente non nego che questa organizzazione abbia dei vantaggi, se la pensiamo in termini di “gestione” di un fenomeno o di “controllo sociale”, ma è a mio avviso un po’ ghettizzante.
Teniamo con noi i nostri pazienti, li curiamo, siamo sempre più bravi, siamo sempre più presenti, però fatichiamo a lasciarli andare. Un po’ come quando hai dei figli che crescono e tu non lasci che prendano la loro strada nel mondo, perché hai paura che senza di te possano non farcela, non sai quello che troveranno e vorresti proteggerli, continuare a tenerli accanto a te.
Ecco, vorrei che i SerD imparassero ad accompagnare i loro pazienti fuori dai margini e a rimetterli dentro la società, soprattutto considerando che i pazienti stanno cambiando. Quando ho iniziato io, vent’anni fa, tendenzialmente arrivavano al SerD pazienti già molto marginalizzati, spesso con molti anni di eroina e di strada alle spalle, mentre oggi non è più così. Spesso, infatti, i nostri pazienti sono inseriti in società, lavorano, hanno famiglia, hanno delle caratteristiche che non sono più quelle di una volta. Ci sono, quindi, anche delle aspettative diverse e noi dobbiamo imparare a fare i conti con questi cambiamenti.
Ripeto, è importante che impariamo a dialogare con altri servizi che hanno altre competenze e che si occupano di altre discipline. Oggi, ad esempio, a differenza di venti o trent’anni fa, i nostri pazienti invecchiano, pensate che il nostro paziente più vecchio ha superato di gran lunga i 70 anni e veleggia tranquillo verso gli 80, ma noi ce l’abbiamo ancora in carico. Questi, però, sono pazienti che non sono più di nostra competenza, non è utile il décalage dei farmaci sostitutivi e continuiamo quindi a prescriverglieli, ma il nostro compito in pratica finisce lì. Spesso dopo una certa età non c’è più nemmeno un comportamento di consumo, ma ci sono tutta una serie di problematiche emergenti, ad esempio banalmente quelle della terza età, che nei nostri pazienti spesso è anticipata ai 50-60 anni. Sono aspetti di competenza di altri specialisti e di altri servizi sanitari, del neurologo, del geriatra e noi non siamo così tanto bravi ancora a farci spazio e, soprattutto, a far spazio per i nostri pazienti in questi ambiti. Abbiamo già pazienti inseriti in casa di riposo, certo, e le case di riposo li accolgono perché esiste una normativa a riguardo, ma sono completamente impreparate a ricevere queste persone. In questo senso, una delle nostre scommesse dovrà essere inevitabilmente quella di creare maggiore cultura sulle dipendenze, in tutti gli ambiti. Per anni abbiamo fatto cultura della dipendenza e delle tossicodipendenze dentro i SerD, ai nostri congressi e ai nostri convegni, ci siamo affinati, ma non ci siamo preoccupati abbastanza di passare conoscenze al di fuori della nostra cerchia di specialisti. Questo è un compito importante per il SerD del presente e del futuro.
Un’altra tematica da affrontare subito riguarda l’urgenza per l’utenza giovane. Attualmente, infatti, una percentuale sempre più alta di primi accessi al SerD è rappresentata da giovani e giovanissimi dai 16 fino ai 25 anni e per questo a Bolzano, circa 5 o 6 anni fa, abbiamo creato un’equipe che si occupa soltanto di pazienti under 25. Uno degli obiettivi dei colleghi che, con grandissima passione, si occupano di quest’area è proprio quello di fare rete fuori dal servizio, perché giovani e giovanissimi non devono e non possono essere marginalizzati già a 18-19 anni. C’è, inoltre, tutta la tematica della presa in carico delle loro famiglie e quindi una spinta ad iniziare ad occuparci dei nostri pazienti non solo come individui, ma avendo uno sguardo anche sul sistema, cosa che aumenta ulteriormente la complessità del nostro lavoro.
L’utenza giovane e giovanissima è composta essenzialmente da pazienti poliabusatori con cui le strategie che funzionavano con il paziente classico eroinomane non funzionano più, perché il cocktail, il mix di sostanze, compreso l’alcol, li rende spesso delle bombe a orologeria difficili anche da gestire, soprattutto all’interno delle famiglie. In casa emergono spesso problematiche di aggressività e di impulsività, perché questi sono ragazzi il cui percorso evolutivo personale e relazionale non è ancora maturo e dove l’abuso massiccio di sostanze costituisce un arresto significativo del movimento di crescita. Questa è un’area tematica importantissima, basti pensare che la psichiatria è affiancata dalla neuropsichiatria infantile, mentre il SerD ha solo il SerD. È anche in questo senso che stiamo cercando di creare un SerD per i giovani, un po’ in analogia con la psichiatria dell’età evolutiva.
A queste tematiche, possiamo aggiungere anche il fenomeno della multiculturalità. Considerate che adesso il 30-40% dei primi accessi al nostro SerD, o tramite la nostra presenza in Casa Circondariale, è costituita da stranieri. Generalmente sono stranieri irregolari, quindi senza permesso di soggiorno, senza documenti, senza risorse familiari, sociali, relazionali, spesso in strada, che vivono di illegalità. Inoltre, ci si scontra con una barriera linguistica, che in moltissimi casi è un ostacolo che ci sembra quasi insormontabile e che ci costringe a ripensare a tutta la nostra prassi di intervento.
Questa è dunque un’altra importante sfida che non può vedere i SerD da soli, perché queste sono persone prima che essere pazienti e sono persone a cui mancano i livelli minimi di sopravvivenza, che non hanno un posto dove dormire, che non hanno di che nutrirsi e che non hanno relazioni positive nella loro vita. Senza questo minimo, qualunque nostro intervento diventa nella migliore delle ipotesi inefficace, o addirittura dannoso: rischiamo di creare l’illusione che, una volta presi in carico dal SerD, risolveremo tutta una serie di problematiche che invece sono di emergenza sociale prima ancora che tossicologica.
In ultimo, ma non per importanza, mi viene in mente l’emergenza cocaina-crack, che in Alto Adige sta diventando dilagante e non è affrontabile con gli strumenti che abbiamo utilizzato finora. Si tratta di pazienti che hanno perso la capacità di stare dentro una qualsiasi relazione tranne quella con la sostanza. La cocaina consumata sotto forma di crack dà luogo, infatti, ad una dipendenza rapida, potente e debilitante. La sostanza in questi casi diventa l’altro polo della relazione principale di dipendenza del paziente. Nessuna relazione umana è in grado, purtroppo, di sostituire la relazione col crack. La prima cosa che va fatta è eliminare, almeno per un periodo, il crack dalla vita della persona, in modo che possa recuperare la capacità di rimettersi in relazione con gli altri esseri umani. Si tratta però di un primo intervento difficile da realizzare perché fondamentalmente non ci sono strutture adeguate a ricoveri di questo genere. Dovremmo avere dei reparti ospedalieri sufficientemente chiusi da permettere al paziente di usufruire del forte contenimento legato all’isolamento e all’allontanamento (volontario, perché non è possibile attuare TSO per questi pazienti) dal proprio contesto di consumo. Il ricovero per la disintossicazione, inoltre, dovrebbe essere abbastanza lungo, dalle quattro alle sei settimane, per stabilizzare la condizione psicofisica del paziente. Praticamente, al momento, non esistono sufficienti strutture di questo genere, se non qualche clinica privata convenzionata, dove però i posti sono limitati e le liste di attesa lunghe dai due ai tre mesi.
Grazie mille!
Ringrazio voi per l’invito.
Mi sento di aggiungere, di ringraziare, di ringraziarti anche per la passione che trasmetti, perché io personalmente sono un po’ demotivato rispetto all’ambito delle tossicodipendenze. Invece sentire un professionista che ne parla così è entusiasmante, quindi grazie.
Sì, lo capisco. Capitano periodi in cui si è più frustrati, è normale quando si affronta un ambito così difficile. Però l’entusiasmo, la passione, si possono recuperare e – per esperienza personale – devo dire che spesso succede proprio grazie al rapporto con i pazienti, a quello che ci insegnano ogni giorno su noi stessi, sulle relazioni, sul dolore, ma anche sulla speranza.
Come dicevo all’inizio, i nostri pazienti sono capaci di mostrare ampi margini di recupero. A questo proposito, non abbiamo parlato oggi del tema della recovery, che invece è fondamentale nel lavoro sulle dipendenze. Non dobbiamo più pensare all’astensione completa per tutti, dobbiamo piuttosto impegnarci nel restituire una qualità di vita dignitosa a persone che non l’hanno mai avuta o l’hanno perduta. Quando questo accade è una fonte impagabile di soddisfazione reciproca.
Come dicevo, i nostri pazienti ci insegnano moltissimo ogni giorno e sono loro, a dispetto dei tagli al personale e al budget, dell’assenza di strutture, della carenza di disponibilità nella rete dei servizi allargata, che ci aiutano a superare i momenti di sconforto e a recuperare la passione. Passione e curiosità che sono indispensabili quando si lavora con le persone. Se non si è appassionati le persone se ne accorgono, in qualche modo lo sanno e non investono sulla relazione. E direi che questo vale non solo per le persone con una dipendenza, ma per tutte le persone.
Note sugli autori
Carlo Scirè Banchitta
Institute of Constructivist Psychology
Psicologo e specializzando in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureato in Psicologia di Comunità, della Promozione del Benessere e del Cambiamento Sociale presso l’università degli studi di Padova e attualmente collabora con la Cooperativa Alia come educatore presso la comunità “Casa delle Ragazze Stefania Omboni”.
Aurora Belfanti
Institute of Constructivist Psychology
Breve biografia professionale (50-70 parole): Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata presso l’Università di Padova e successivamente ha lavorato come psicologa clinica presso la Vrije Universiteit Brussel. Attualmente lavora come psicologa a Trento.
Anna Peripoli
Università di Trento, Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata presso l’Università di Trento, dove attualmente lavora come assegnista di ricerca. Sempre presso l’Università di Trento collabora con il Servizio di Consulenza Psicologica presso cui svolge incontri di supporto psicologico con studenti universitari sia individuali che di gruppo.
Laura Stanzani
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia Clinico Dinamica presso l’università degli studi di Padova e attualmente collabora con l’Istituto Minotauro presso la sede di Padova come psicologa.
Note
- Accanto al lavoro clinico, i medici del servizio svolgono anche alcune attività di interesse medico legale, ad esempio le valutazioni tossicologiche per la Commissione Medica per l’idoneità alla guida o per il Tribunale per i Minori e le certificazioni per i pazienti che soddisfano i requisiti per presentare domanda di riconoscimento di invalidità civile. ↑
- A Bolzano, le dipendenze da sostanze legali (alcol, farmaci e gioco d’azzardo) sono ambito di competenza prevalente dell’associazione convenzionata HANDS-Onlus e non del SerD. ↑
- Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze. ↑
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